Mahnmut ripristinò i suoi sistemi ed eseguì una breve valutazione dei danni. Niente d’irreparabile né nei componenti organici né in quelli cibernetici. L’esplosione era dovuta a rapida perdita di pressione in tre casse di zavorra di prua, ma le altre dodici erano intatte. Mahnmut controllò gli orologi interni: era rimasto senza conoscenza per meno di trenta secondi prima del ripristino dei sistemi ed era ancora collegato virtualmente al sommergibile sulle solite ampiezze d’onda. Il Dark Lady riportava folli capitomboli, piccoli squarci nello scafo, sovraccarichi nei sistemi di monitoraggio, temperatura esterna sopra il punto d’ebollizione e una ventina d’altri inconvenienti, niente che esigesse intervento immediato. Mahnmut ripristinò i collegamenti video, ma riuscì solo a vedere l’interno rosso incandescente deEa stiva della nave, il portello spalancato e (da quel portello) il roteare delle stelle.
Orphu? chiamò.
Non ebbe risposta sulla banda comune né su uno dei canali a fascio compatto o maser. Neppure disturbi elettrostatici.
La camera d’equilibrio era ancora aperta. Mahnmut prese un blocco di propulsori a reazione per uso individuale e una matassa di corda infrangibile a microfilamenti; si tirò fuori dalla camera d’equilibrio e combatté le forze vettoriali dei capitomboli aggrappandosi ad appigli che conosceva da decenni di lavoro negli abissi marini. Sul suo stesso scafo, controllò che il portello dello scomparto del carico utile del sommergibile fosse completamente aperto, calcolò quanto spazio gli sarebbe servito, prese a caso alcune macchine di Koros, accuratamente imballate, e le scaricò dal suo sottomarino e dalla nave spaziale in disintegrazione, a volteggiare lontano fra globuli di metallo fuso e di plasma ardente. Non sapeva se buttava via le armi di distruzione di massa che Koros aveva progettato di portare su Marte ("Sulla mia nave!" pensò, con lo stesso sdegno che aveva provato allora) o apparecchiature che gli sarebbero servite per sopravvivere sul Pianeta Rosso, ammesso di giungervi. In quel momento se ne fregava. Gli occorreva spazio.
Legata la fune a staffe nello scafo del Dark Lady, Mahnmut accese i jet e si proiettò nel vuoto, attento a non urtare il portello fracassato della stiva della nave.
Una volta fuori e al sicuro, a un centinaio di metri dalla nave, si girò per avere una chiara visuale del danno.
Era peggio di quanto avesse immaginato. Come aveva detto Orphu, l’intera prua della nave era sparita, con la sala comando e tutto ciò che si era trovato nel raggio di dieci metri, troncata di netto, come se non fosse mai esistita. Solo una brillante nube di plasma in dissipazione, intorno alla prua, mostrava dove si erano trovati Koros III e Ri Po.
Il resto della struttura era squarciato e ridotto a pezzi. Mahnmut poteva solo immaginare gli esiti catastrofici, se i motori a fusione, i serbatoi d’idrogeno, il cucchiaio Matloff-Fennelly e altri congegni di propulsione non fossero stati scaricati nello spazio molto prima dell’attacco. Le esplosioni secondarie avrebbero di sicuro vaporizzato Orphu e lui stesso.
Orphu? chiamò di nuovo Mahnmut. Ora usava anche onde radio, ma le antenne a riflessione erano state ridotte in scorie e non c’era più il ripetitore maser. Non ci fu risposta.
Cercando di evitare gli shrapnel volanti, i globuli di metallo incandescente e la nube di plasma in espansione, reggendosi alla fune senza tenderla, in modo che il movimento rotatorio non lo scagliasse intorno alla nave morente, Mahnmut usò i propulsori a reazione per spostarsi sopra lo scafo. La rotazione adesso era così rapida… stelle, Marte, stelle, Marte… che Mahnmut fu costretto a chiudere gli occhi e usare il segnale radar del blocco propulsori per trovare la via intorno allo scafo.
Orphu era ancora nella sella. Per un secondo Mahnmut si rallegrò (il segnale radar mostrava il suo amico intatto e al suo posto) poi aprì gli occhi e vide il macello.
L’esplosione che aveva troncato la prua aveva bruciato e spezzato lo scafo superiore della nave fino alla postazione di Orphu e, come il moravec di Io aveva riferito, gli aveva squarciato e annerito il pesante guscio per un terzo della lunghezza. I manipolatori anteriori erano spariti. Le antenne di comunicazione erano scomparse. Gli occhi non c’erano più. Squarci correvano lungo gli ultimi dieci metri del guscio superiore di Orphu.
«Orphu!» chiamò Mahnmut, sul canale diretto.
Niente.
Usando ogni megabit delle sue capacità di calcolo, Mahnmut calibrò i vettori coinvolti e si portò sullo scafo superiore, con una serie di microaccensioni di tutti i dieci razzi per regolare la pericolosa traiettoria, finché non si trovò a un metro dallo scafo. Dalla cintura dello zaino prese l’apposito utensile, sparò nello scafo un chiodo e vi avvolse la fune, controllando che non si ingarbugliasse. Si sarebbe dovuto liberare rapidamente.
Tese la fune, dondolò come un pendolo e raggiunse la sella di Orphu, anche se ora "cratere bruciato" pareva una migliore descrizione dell’alloggiamento nello scafo.
Penzolando sul guscio di Orphu, con le gambe che si muovevano freneticamente sopra di lui, Mahnmut applicò un cavo adesivo al corpo dell’amico, un po’ più indietro del punto dove prima c’erano gli occhi. «Orphu?»
«Mahnmut?» La voce di Orphu era stridula, ma forte. In massima parte denotava sorpresa. «Dove sei? Come mi contatti? Tutti i miei sistemi di trasmissione sono saltati.»
Mahnmut provò quel tipo di gioia che solo pochi personaggi di Shakespeare avevano mai raggiunto. «Ti ho applicato un cavo. Sto per tirarti fuori di lì.»
«Che sciocchezza!» rombò il moravec di Io. «Sono inutile. Non…»
«Chiudi il becco» lo interruppe Mahnmut. «Ho una fune. Devo legarti. Dove…»
«C’è una staffa d’aggancio un paio di metri a poppa del gruppo di sensori» disse Orphu.
«No, non c’è» ribatté Mahnmut. Non gli piaceva l’idea di sparare un chiodo nel corpo dell’amico, ma l’avrebbe fatto, se necessario.
«Be’…» cominciò Orphu e si bloccò per dieci terribili secondi di silenzio: si rendeva conto, era chiaro, della portata dei danni subiti. «A poppa, allora. Lontano dall’esplosione. Appena sopra il gruppo di propulsori.»
Mahnmut non disse all’amico che anche i propulsori esterni erano scomparsi. Si spostò indietro, trovò la staffa d’aggancio e vi legò con un nodo sicuro la fune a microfilamenti. Se c’era una cosa che il moravec Mahnmut aveva in comune con i marinai umani che l’avevano preceduto di millenni sui mari della Terra era proprio l’abilità nel fare un buon nodo.
«Reggiti forte» disse Mahnmut via cavo. «Ora ti tiro fuori. Non preoccuparti se perdiamo contatto. C’è un mucchio di forze vettoriali in azione al momento.»
«È una cosa folle!» gridò Orphu, con voce ancora stridula. «Sul Dark Lady non c’è spazio e non ti sarò di nessun aiuto, se mi ci porterai, perciò…»
«Chiudi il becco» ripeté Mahnmut, calmo. «Amico mio» soggiunse. Azionò tutti i jet del gruppo a reazione e liberò la corda attaccata al chiodo.
I jet sollevarono Orphu e lo tirarono fuori della sella nello scafo. Il movimento rotatorio della nave non era cessato e lanciò i due moravec cento metri verso l’esterno.
Con i calcoli del delta-v che gli annebbiavano il campo visivo, con Marte e le stelle che continuavano a scambiarsi di posto ogni mezzo secondo, Mahnmut lasciò che la corda si tendesse, poi accese i propulsori, consumando energia a ritmo violento, uguagliò le velocità dei capitomboli e riawolse la lunga corda portandosi verso il Dark Lady.
La massa di Orphu era incredibile, peggiorata dalla rotazione, ma la corda era infrangibile, proprio come la volontà di Mahnmut in quel momento. Il moravec tirò se stesso e Orphu più vicino allo scomparto aperto e al sommergibile in attesa.
La nave spaziale iniziò a spaccarsi per le tensioni; pezzi della poppa si staccarono, volarono oltre Mahnmut che si teneva attaccato al guscio di Orphu e due tonnellate di metallo mancarono per meno di cinque metri la testa del piccolo moravec. Mahnmut tirò dentro Orphu e se stesso.
Impresa inutile. La nave si disintegrava intorno al Dark Lady, le esplosioni squarciavano ancora di più lo scafo e camere interne pressurizzate cedevano. Mahnmut non avrebbe raggiunto il sommergibile prima che cadesse a pezzi.
«E va bene» borbottò. «La montagna verrà a Maometto.»
«Cosa?» gridò Orphu, per la prima volta in tono allarmato.
Mahnmut aveva dimenticato che il cavo di comunicazione era operativo. «Niente. Reggiti forte.»
«Come posso reggermi, amico mio? Non ho più le braccia e le mani. Devi reggerti tu a me!»
«Giusto» disse Mahnmut. Accese tutti i propulsori, consumò in men che non si dica la scorta d’energia e passò alla riserva d’emergenza.
Funzionò. Il Dark Lady emerse dallo scomparto qualche attimo prima che il ventre della nave iniziasse a disintegrarsi.
Mahnmut azionò ancora i propulsori e vide globuli di metallo fuso schizzare sul guscio già rovinato del povero Orphu. «Mi spiace» mormorò, mentre consumava il carburante rimastogli per trainare il sommergibile lontano dalla nave spaziale morente.
«Cosa ti spiace?» chiese Orphu.
«Non badarci» ansimò Mahnmut. «Te lo dirò dopo.»
Trainò, spinse, accelerò e trasportò l’enorme Orphu nello scomparto di carico quasi vuoto. Nel buio si sentì meglio: non aveva più le vertigini per la folle alternanza stelle/pianeta/stelle/pianeta. Infilò il suo amico nella cavità principale del vano di carico e lo bloccò con le morse regolabili.
Adesso Orphu era al sicuro. Probabilmente tutt’e tre, il Dark Lady e i due moravec, erano condannati, ma almeno avrebbero terminato insieme l’esistenza. Mahnmut collegò Orphu al sistema di trasmissione del sommergibile.
«Per il momento sei salvo» ansimò, sentendo che le parti organiche del suo corpo sfioravano il sovraccarico. «Adesso taglio il cavo della linea portatile.»
«Cosa…» cominciò Orphu, ma Mahnmut aveva già tagliato il cavo e saliva a forza di braccia verso la camera d’equilibrio. Scoprì con piacere che funzionava ancora.
Con le ultime forze, si tirò su nel corridoio interno sotto vuoto, raggiunse la nicchia ambientale, bloccò con un rampone il portello, ma non pressurizzò la camera, si collegò invece al canale supporto vita. Sentì fluire l’ossigeno. L’intercom sibilò di scariche. I sistemi del sommergibile riferirono la presenza di danni sopportabili.
«Ci sei ancora?» chiese Mahnmut.
«Dove ti trovi?»
«In camera di manovra.»
«Qual è la situazione, Mahnmut?»
«In pratica la nave, a furia di roteare su se stessa, è andata in pezzi. Il sommergibile è più o meno intatto, compresi la copertura antiradar e i propulsori di prua e di poppa, ma non ho idea di come manovrarli.»
«Manovrarli?» ripeté Orphu, sorpreso. Ma subito capì. «Sei ancora deciso a entrare nell’atmosfera marziana?»
«Abbiamo altra scelta?»
Il silenzio durò un paio di secondi: Orphu evidentemente rifletteva. Alla fine disse: «Sono d’accordo». E poi: «Pensi di riuscire a volare nell’atmosfera?».
«Neanche per sogno» rispose Mahnmut, in tono quasi allegro. «Ora scarico il software di comando preparato da Koros e lascio a te il compito di pilotare.»
Come risposta giunse quel rumore a metà tra il rombo e lo starnuto, anche se Mahnmut trovava difficile credere che il suo amico ridesse in quel particolare momento. «Stai scherzando di certo» disse Orphu. «Sono cieco. Non ho più gli occhi e le telecamere e anche tutta la rete ottica sono bruciate. Sono una rovina. In pratica sono un pezzetto di cervello in un paniere rotto. Dimmi che scherzavi.»
Mahnmut scaricò la programmazione sui propulsori aggiuntivi esterni, sui paracadute… l’intera criptica pappardella. Mise in funzione tutte le telecamere sullo scafo, ma distolse subito lo sguardo: il movimento rotatorio gli dava le vertigini come prima. Ora Marte riempiva il campo visivo — calotta polare, mare azzurro, calotta, mare, un pezzetto di spazio nero, calotta polare — e, a guardare, Mahnmut si sentiva venire la nausea. «Ecco fatto» disse, quando ebbe finito di scaricare. «Io sarò i tuoi occhi. Ti darò tutti i dati di navigazione che il sommergibile può copiare dal software di reazione. Tu ci stabilizzi e ci fai volare.»
Stavolta la rombante risata fu chiara. «Certo, perché no?» disse Orphu. «Diavolo, la caduta, da sola, ci ucciderà.»
Agli ordini di Orphu, i propulsori disposti in cerchio intorno al Dark Lady cominciarono ad accendersi.