I quattro viaggiatori decisero di mangiare, alla fin fine.
Savi scomparve per qualche minuto in uno dei tunnel illuminati e tornò portando piatti più caldi: pollo, riso scaldato, peperoni al curry e fettine d’agnello ai ferri. Ore prima, a Ulanbat, i quattro avevano spizzicato, ma adesso mangiarono con voglia.
«Se siete stanchi» disse Savi «potete dormire qui, stanotte, prima che ce ne andiamo. In alcune stanze qui accanto ci sono comode zone letto.»
Tutti dissero di non essere poi molto stanchi, era solo tardo pomeriggio, tempo di Cratere Parigi. Daeman si guardò intorno, inghiottì il boccone di agnello ai ferri e chiese: «Perché vivi in un…». Si girò verso Harman. «Come l’hai chiamato?»
«Iceberg» rispose Harman.
Daeman annuì, tornò a guardare Savi. «Perché vivi in un iceberg?»
Savi sorrise. «Questa mia particolare casa potrebbe essere dovuta… diciamo così… alla nostalgia di una vecchia.» Si accorse che Harman la fissava intensamente e soggiunse: «Ero in una sorta di vacanza in un iceberg come questo, quando il fax finale ebbe luogo senza di me, più di dieci volte il vostro tempo di vita fa».
«Credevo che avessero memorizzato tutti, durante il fax finale» disse Ada. Si pulì le dita in un bel tovagliolo di lino color tanè. «Tutti i milioni di umani vecchio stile.»
Savi scosse la testa. «Non milioni, mia cara. Eravamo solo poco più di novemila, quando i post eseguirono il fax finale. Per quanto ne so, nessuno di loro — molti erano amici miei — fu ricostituito, dopo lo Iato. Tutti noi sopravvissuti alla pandemia eravamo ebrei, sai, grazie alla nostra resistenza al virus rubicon.»
«Cosa sono gli ebrei?» domandò Hannah. «O meglio, cos’erano?»
«Per lo più un costrutto razziale teorico» rispose Savi. «Un gruppo genetico semidistinto, creato da isolamento culturale e religioso nel corso di varie migliaia d’anni.» Esitò e guardò i quattro ospiti. Solo Harman, con la sua espressione, faceva pensare che avesse una vaga idea di ciò di cui lei parlava. «Non importa, in realtà» riprese piano Savi. «Ma è per questo, Harman, che mi hai sentito chiamare "Ebrea Errante". Sono divenuta un mito. Una leggenda. Le parole "Ebreo Errante" sono rimaste, anche se il significato è andato perso.» Sorrise di nuovo, ma senza allegria.
«Come hai evitato il fax finale?» chiese Harman. «Perché i post-umani ti hanno tralasciata?»
«Non lo so. Mi sono fatta la stessa domanda per secoli. Forse perché facessi… da testimone.»
«Testimone?» disse Ada. «Di cosa?»
«Ci furono molti cambiamenti bizzarri in cielo e in terra nei secoli precedenti e successivi al fax finale, mia cara. Forse i post avevano l’impressione che qualcuno, anche solo un decrepito essere umano vecchio stile, dovesse testimoniare tutti quei cambiamenti.»
«Molti cambiamenti?» disse Hannah. «Proprio non capisco.»
«No, mia cara, non puoi capire. Tu e i tuoi genitori e i genitori dei tuoi genitori avete conosciuto un mondo che sembra non cambiare affatto, se non per qualche individuo e solo al ritmo di un secolo a persona. No, i cambiamenti di cui parlo non erano tutti visibili, certo. Ma questa non è la Terra che gli originali vecchio stile e i primi post conoscevano.»
«Qual è la differenza?» chiese Daeman, con un tono che mostrò a tutti quanto poco fosse interessato alla risposta.
Savi puntò su di lui lo sguardo. «Tanto per dirne una — piccola, certo, a confronto di tutte le altre, eppure importante per me — non ci sono altri ebrei.»
Mostrò loro dov’erano le toilette e suggerì che per il viaggio si togliessero le termotute.
«Non ne avremo bisogno?» chiese Daeman.
«Farà freddo, andando al sonie, ma ce la caveremo» disse Savi. «E dopo non vi serviranno.»
Ada si tolse la termotuta e tornò sul divano nella stanza principale; guardava le pareti di ghiaccio e pensava a tutta quella storia, quando Savi uscì da una diversa stanza laterale. La donna indossava calzoni più pesanti, stivali più robusti e più alti, una mantella foderata e un berretto calato sugli occhi; portava i capelli raccolti a coda di cavallo. Aveva in spalla uno zaino cachi sbiadito, che pareva pesante. Ada non aveva mai visto una donna vestirsi in quel modo ed era affascinata dallo stile della vecchia. Anzi, capì, era affascinata proprio da Savi.
Anche Harman pareva affascinato, ma dall’arma ancora nella cintura di Savi. «Pensi ancora di sparare a uno di noi?» chiese.
«No» rispose Savi. «Non subito, almeno. Ma di tanto in tanto ci sono altre creature cui bisogna sparare.»
Nella camminata fuori dall’iceberg fino al sonie sentirono davvero freddo: il vento ululava ancora e la neve cadeva con insistenza. Ma sotto la bolla del campo di forza si stava bene. Savi prese il posto frontale, quello occupato da Harman nel volo precedente, e Ada si sistemò come prima a destra; notò che, quando Savi passò la mano sulla cappottatura nera sotto la manopola, comparve l’ologramma di un quadro di comando.
«E quello da dove spunta?» chiese Harman, che si era sistemato alla sinistra di Savi, lasciando così vuoto il posto fra Daeman e Hannah.
«Non sarebbe stata una buona idea per voi provare a far volare il sonie nel viaggio fin qui» disse Savi. Si accertò che ognuno si fosse sistemato in posizione prona, poi ruotò la manopola; la macchina emise un basso ronzio e si alzarono in verticale a più di duecento metri sul ghiaccio, eseguirono una gran volta inversa (erano tenuti fermi al loro posto dal campo di forza, ma avevano davvero l’impressione che non ci fosse altro che aria fra loro e un’orribile fine contro l’azzurro ghiaccio o più giù nel nero mare) e poi la macchina si raddrizzò, virò a sinistra e salì ripidamente verso le stelle.
Quando la macchina fu in volo verso nordovest a grande velocità e a notevole altezza, Harman disse: «Quest’affare può andare lassù?». Mosse il braccio sinistro e con il dito premette contro l’elastico campo di forza.
«Dove?» disse Savi, concentrata sul display olografico davanti a sé. Alzò gli occhi. «L’anello-p?»
Harman si era girato quasi di schiena e fissava l’anello polare in movimento da nord a sud sopra di loro: le decine di migliaia di singoli componenti brillavano di luce incredibilmente vivida nell’aria chiara e rarefatta a quella quota. «Sì» disse.
Savi scosse la testa. «Questo è un sonie, non una nave spaziale. L’anello-p è molto in alto! Perché vorresti andare lassù?»
Harman lasciò perdere la domanda. «Sai dove potremmo trovare una nave spaziale?»
Savi sorrise di nuovo. Guardandola con attenzione, Ada notò la varietà di espressioni della vecchia, i sorrisi che trasmettevano vero calore e altri, come l’attuale, che suggerivano qualcosa di decisamente freddo o ironico.
«Forse» rispose Savi, ma con un tono che non invitava ulteriori domande.
«Hai incontrato davvero i post-umani?» chiese Hannah.
«Sì» rispose Savi, alzando un poco la voce per superare il ronzio del sonie, mentre correvano a nord. «Ne ho incontrati alcuni.»
«Com’erano?» chiese Hannah, con tono lievemente ansioso.
«Tanto per cominciare, erano tutte donne» disse Savi.
Harman batté le palpebre, sorpreso. «Tutte donne?»
«Sì. Parecchi di noi sospettavano che solo pochi post fossero scesi sulla Terra, ma che avessero usato forme diverse. Tutte femmine. Forse non c’erano post-umani maschi. Forse, controllando la loro evoluzione, non avevano mantenuto i generi. Chissà?»
«Avevano nomi?» chiese Daeman.
Savi annuì. «Quella che conoscevo meglio… be’, quella che vedevo più spesso… si chiamava Moira.»
«Com’erano?» chiese di nuovo Hannah. «Personalità? Aspetto?»
«Preferivano librarsi, anziché camminare» rispose oscuramente Savi. «Amavano dare feste per noi del vecchio stile. Erano inclini a parlare per indovinelli delfici.»
Per un minuto ci fu silenzio, a parte il fruscio del vento sulla carena di policarbonio e sulla bolla del campo di forza. Alla fine Ada chiese: «Scendevano spesso dagli anelli?».
Savi scosse di nuovo la testa. «Non molto spesso. Assai di rado, verso la fine, negli ultimi anni prima del fax finale. Ma correva voce che avessero un insediamento nel bacino del Mediterraneo.»
«Il bacino del Mediterraneo?» ripeté Harman.
Savi sorrise e Ada pensò che fosse uno dei suoi sorrisi divertiti.
«Un migliaio d’anni prima del fax finale» spiegò Savi «i post prosciugarono un mare abbastanza vasto a sud dell’Europa, costruirono una diga fra un promontorio detto Gibilterra e la punta del Nord Africa e proibirono l’accesso ai vecchio stile. La maggior parte del bacino fu trasformata in terre coltivabili, così ci dissero i post, ma un mio amico vi entrò di nascosto alcune volte, prima d’essere scoperto e buttato fuori, e disse che lì c’erano delle… be’, città potrebbe essere la descrizione migliore, se si può chiamare città qualcosa di stato solido.»
«Stato solido?» disse Hannah.
«Lascia perdere, bambina.»
Harman, di nuovo prono, reggendosi sui gomiti, scosse la testa. «Non ho mai sentito parlare del bacino del Mediterraneo. Né di Gibilterra. Né di… cos’era? Il Nord Africa?»
«So che hai trovato alcune carte geografiche, Harman, e che hai imparato a leggerle, più o meno» disse Savi. «Ma erano carte scadenti. E vecchie. I pochi libri che i post-umani hanno lasciato sopravvivere in quest’epoca di neoanalfabeti erano vaghi… inoffensivi.»
Harman corrugò di nuovo la fronte. Volarono a nord in silenzio.
Il sonie li portò, dalla notte polare, nella luce del pomeriggio, lontano dall’oceano scuro e sulla terraferma, a un’altezza che potevano solo immaginare e a una velocità che nemmeno si sognavano. L’anello-p svanì mentre il cielo diventava azzurro e a nord fu visibile l’anello-e.
Sorvolarono terre nascoste da alte nubi bianche, poi videro alti picchi coperti di neve e valli glaciali molto più in basso. Savi lanciò in discesa il sonie, a est dei picchi, e sorvolarono a qualche migliaio di metri una foresta pluviale e verdi savane, muovendosi sempre a tale velocità che molti picchi comparivano come puntini sopra l’orizzonte e diventavano montagne nel giro di pochi secondi.
«Questo è il Sud America?» chiese Harman.
«Lo era, un tempo» rispose Savi.
«Cosa significa?»
«Significa che i continenti sono un po’ cambiati, da quando furono disegnate le carte che hai visto» spiegò Savi. «E hanno anche avuto altri nomi, da allora. Le carte che hai visto mostravano che questa massa di terra era collegata a quella che chiamavano Nord America?»
«Sì.»
«Non lo è più.» Toccò i simboli olografici, girò la manopola e il sonie si abbassò. Ada si alzò sui gomiti, capelli contro la bolla, e guardò tutt’intorno. In silenzio, a parte il fruscio dell’aria sulla bolla, il sonie procedette in volo poco sopra la cima degli alberi: cicadacee, felci giganti, antichi alberi privi di foglie passarono in un lampo. A ovest spuntavano le prime alture verso la linea dei grandi picchi. Più a est, altri alberi primitivi punteggiavano le ondulate praterie. Grossi animali si muovevano come macchie confuse lungo i fiumi e presso i laghi. Altri, con grugni che parevano assurdi, striati di bianco, marrone, tanè, rosso, erano intenti a brucare. Ada non ne riconobbe nessuno.
All’improvviso, una trentina di metri sotto il sonie, un branco di quegli erbivori si diede alla fuga: le bestie erano in preda al panico, correvano per salvarsi. Dietro di loro saltavano cinque o sei creature simili a uccelli, massicce, alte forse più di due metri e mezzo, stimò Ada, con piumaggio scompigliato e il becco più grosso e il muso più brutto che lei avesse mai visto. Gli erbivori correvano velocemente, cinquanta o sessanta chilometri all’ora, immaginò Ada nei secondi prima che il sonie la portasse fuori vista, ma gli uccelli erano ancora più veloci, forse toccavano i novanta chilometri all’ora, quattro volte più veloci di qualsiasi troika o calesse.
«Cosa…» cominciò Hannah.
«Uccelli Terrore» disse Savi. «Fororacidi. Dopo il rubicon, gli ARNisti si sono divertiti così per qualche secolo di follia. In un certo senso è appropriato, perché i veri Uccelli Terrore vagavano su quelle praterie e montagne circa due milioni di anni fa, ma quel tipo di merda, come i vostri dinosauri su al nord, rovina l’ecologia. I post promisero di ripulire il pianeta durante lo Iato del fax finale, ma non mantennero la promessa.»
«Cos’è un ARNista?» chiese Ada. Gli animali, gli Uccelli Terrore dal becco rosso e le loro prede, erano fuori vista, dietro di loro. Branchi più grandi, composti di animali di taglia maggiore, erano visibili adesso a ovest ed erano avvicinati furtivamente da creature simili a tigri. Il sonie virò in alto e puntò verso le alture.
Savi sospirò, come per stanchezza. «Artisti dell’RNA. Freelance del ricombinante. Ribelli sociali e allegri burloni con ordinatori in sequenza e vasche di rigenerazione prodotti clandestinamente.» Guardò Ada, poi Harman, poi Daeman e Hannah. «Non fate caso alle mie parole, bambini.»
Volarono per altri quindici minuti sopra foreste fumanti e poi virarono a ovest su una catena montuosa. Nubi si muovevano intorno a loro e fra i picchi più in basso e la neve frustava il sonie, ma il campo di forza teneva a bada gli elementi.
Savi toccò un’icona brillante. Il sonie rallentò, volteggiò e girò a ovest verso il sole del tardo pomeriggio. Erano molto in alto.
«Oddio!» esclamò Harman.
Davanti a loro, due picchi aguzzi si ergevano ai lati di una stretta gola coperta di terrazze erbose e di rovine davvero antiche, mura di pietra prive di tetto. Un ponte sospeso, anch’esso dell’Età Perduta, ma chiaramente meno antico, correva da un picco aguzzo all’altro sopra le rovine. La strada non proseguiva oltre il ponte (il piano stradale finiva contro un muro di roccia alle due estremità) e le fondamenta erano incassate nella roccia fra le rovine in basso.
Il sonie girò in tondo.
«Un ponte sospeso» mormorò Harman. «C’erano, nei libri.»
Ada era abile a stimare le dimensioni e calcolò che la campata principale del ponte fosse lunga più di un chilometro, anche se il piano stradale era rotto in una ventina di punti e lasciava vedere l’armatura di tondo di ferro arrugginito e spazi vuoti.
Calcolò che le due torri (ciascuna mostrava tracce di antica vernice arancione, ma soprattutto di ruggine) fossero alte più di ducento metri e le sommità si trovavano più in alto delle montagne ai lati. Le doppie torri erano verdi per quella che da lontano pareva edera, ma quando il sonie volteggiò più vicino, Ada vide che quella "vegetazione" era artificiale: bolle verdi e scalinate e pezzi di materiale flessibile simile a vetro avvolgevano le torri, erano collegati ai pesanti cavi di sospensione, ricadevano perfino sui cavi di sostegno e penzolavano liberamente sul piano stradale dissestato. Nubi scendevano dagli alti picchi e si mischiavano alla nebbia che saliva dai profondi canyon sotto le rovine in cima all’altura, si arricciava e turbinava intorno alla torre sud, oscurava il piano stradale e i cavi sospesi.
«Questo posto ha un nome?» chiese Ada.
«Il Golden Gate a Machu Picchu» disse Savi e toccò i comandi per avvicinarsi.
«Cosa significa?» chiese Daeman.
«Non ne ho idea.»
Il sonie girò intorno alla torre nord — arancione opaco e rosso ruggine nella vivida luce del sole al di là delle nubi — si librò lentamente, con prudenza, sulla sua cima e vi si posò senza rumore.
Il campo di forza si estinse. Savi annuì e tutti scesero dal sonie, si stiracchiarono, si guardarono intorno. L’aria era fredda e molto rarefatta.
Daeman andò sul bordo rugginoso della torre e si sporse a guardare. Nato e cresciuto a Cratere Parigi, non aveva paura delle altezze.
«Eviterei di cadere, se fossi in te» disse Savi. «Qui non c’è la squadra di salvataggio dello spedale. Se muori lontano dai nodi fax, resti morto.»
Daeman arretrò di scatto, rischiando di cadere per la fretta di allontanarsi dal bordo. «Che diavolo dici?»
«Esattamente ciò che ho detto» rispose Savi, mettendosi sulla spalla destra lo zaino. «Qui non c’è lo spedale. Cerca di stare vivo, finché non torni a casa.»
Ada guardò verso il cielo, dove tutti e due gli anelli erano visibili in alto nel cielo azzurro. «Credevo che i post-umani potessero faxarci da qualsiasi punto, se ci… mettevamo nei guai.»
«Agli anelli» disse Savi, in tono piatto. «Dove lo spedale ti guarisce.»
«Sì» confermò debolmente Ada.
Savi scosse la testa. «Non c’è spedale, negli anelli. E non sono i post a faxarti, quando ti accade qualcosa di male, e a ricostruirti. È tutto un mito. Propaganda. O, per essere meno eleganti… stronzate.»
Harman aprì bocca, ma Daeman lo batté sul tempo. «Io ci sono appena stato» protestò. «Nello spedale. Negli anelli.»
«Nello spedale, sì» disse Savi «ma non negli anelli. Non sei stato guarito da post-umani. Se quelli sono lassù, se ne fregano di voi. E non credo che ci siano ancora, lassù.»
I quattro rimasero sulla cima rugginosa della torre, più di centocinquanta metri sopra il piano stradale dissestato, duecentocinquanta sopra la sella erbosa e le rovine di pietra. Il vento dagli alti picchi li schiaffeggiava e scompigliava loro i capelli.
«Dopo la nostra ultima Ventina, saliamo a unirci ai post…» iniziò Hannah, con voce flebile.
Savi rise e li guidò a un irregolare globulo di vetro che spuntava sulla parte ovest della cima dell’antica torre.
C’erano sale e anticamere e rampe di scalini e scale mobili bloccate e stanze più piccole che davano nelle sale principali. Ada trovò strano che il cielo e le torri arancione e i cavi sospesi e la giungla e il piano stradale intravisti in basso non apparissero tinteggiati di verde, visti attraverso il materiale simile a vetro, e che neppure la luce del sole diventasse verde: quel vetro verde in qualche modo lasciava passare intatti i colori.
Savi li guidò giù lungo un percorso circolare, da un verde modulo all’altro, da un lato della torre biforcata a un altro, attraverso sottili tubi che avrebbero dovuto dondolare nel forte vento e che invece non si muovevano. Alcune sale sporgevano di dieci o dodici metri dalla torre e Ada non aveva idea di come il globulo verde fosse attaccato al cemento e all’acciaio.
Alcune stanze erano vuote. Altre contenevano… manufatti. In una stanza, una serie di scheletri d’animale si stagliava contro il profilo della montagna. In un’altra, quelle che parevano copie di macchine erano disposte in fila su banchi da esposizione o appese a cavi. In un’altra ancora, cubi di plexiglas contenevano feti di un centinaio di creature, nessuna propriamente umana, ma alcune tanto simili all’uomo da lasciare turbati. In un’altra stanza, sbiaditi ologrammi di distese stellari e di anelli si muovevano sopra e attraverso gli spettatori.
«Cos’è questo posto?» domandò Harman.
«Una sorta di museo» rispose Savi. «Penso però che manchi gran parte degli esemplari più importanti.»
«Creato da chi?» chiese Hannah.
Savi si strinse nelle spalle. «Non dai post, penso. Non lo so. Ma sono abbastanza sicura che il ponte — o, almeno, l’originale, perché questo potrebbe essere una copia — una volta si trovava nelle vicinanze di una città dell’Età Perduta, su quella che era la costa occidentale del continente a nord di qui. Hai mai sentito parlare di un simile ponte, Harman?»
«No.»
«Forse l’ho sognato» disse Savi, con una mesta risatina. «La memoria mi fa qualche scherzo, dopo tutti questi secoli di sonno.»
«Hai già accennato al fatto d’avere dormito per secoli» disse Daeman, in un tono che a Ada parve brusco. «Che storia è?»
Savi li aveva guidati per una lunga scala a chiocciola nel tubo di vetro verde collegato fra i cavi di sospensione e ora indicò una fila di quelle che parevano bare di cristallo. «Una forma di criosonno» disse. «Ma non a bassissima temperatura… che è sciocco, perché "freddo" è proprio ciò che la parola "crio" significava in origine. Alcuni di questi bozzoli funzionano ancora, bloccano ancora il moto molecolare. Non mediante il freddo, ma mediante una microtecnologia che si alimenta dal ponte.»
«Dal ponte?» ripeté Ada, stupita.
«L’intera struttura è un ricevitore d’energia solare» spiegò Savi. «Almeno, le parti verdi.»
Ada guardò le impolverate bare di cristallo e provò a immaginare di addormentarsi in una di esse e aspettare… cosa? Anni, prima del risveglio? Decenni? Secoli? Rabbrividì.
Si accorse che Savi la stava guardando e arrossì. Ma Savi le sorrise. Uno dei suoi sorrisi sinceramente divertiti, pensò Ada.
Risalirono un lungo cilindro di vetro verde appeso a uno sfilacciato e arrugginito cavo di supporto il cui diametro superava l’altezza di Harman. Ada si ritrovò a camminare in punta di piedi, cercando di sollevare il proprio peso mediante la pura e semplice forza di volontà, timorosa che il peso di tutti insieme facesse precipitare il cilindro, il cavo, il ponte intero. Notò che Savi la guardava di nuovo. Stavolta non arrossì, ma corrugò la fronte, stufa dell’attento esame cui Savi la sottoponeva.
Si fermarono tutti un minuto, allarmati. Erano entrati, pareva, in un’affollata sala riunioni: gente in piedi lungo le pareti, uomini e donne in abbigliamento bizzarro, persone sedute alla scrivania o in piedi davanti a un quadro di comando, individui che non si mossero né girarono lo sguardo verso i nuovi venuti.
«Non sono reali» disse Daeman; si diresse verso l’uomo più vicino (vestito con un completo azzurro polvere e una sorta di tessuto intorno alla gola) e gli toccò il viso.
Passarono di figura in figura, fissando uomini e donne in abiti bizzarri, con curiose acconciature e insoliti ornamenti personali: tatuaggi, strani monili, capelli e pelle colorati.
«Ho letto che un tempo i servitori avevano la forma di esseri umani…» cominciò Harman.
«No» disse Savi. «Questi non sono robot. Sono solo manichini.»
«Cosa?» esclamò Daeman.
Savi spiegò cos’era un manichino.
«Sai chi dovrebbero rappresentare?» chiese Hannah. «O perché si trovano qui?»
«No» rispose Savi. Rimase da parte, mentre gli altri guardavano in giro.
In fondo alla sala, sistemato in una nicchia di vetro come nel posto più importante, c’era un uomo accomodato in una ornata sedia di legno e di strisce di cuoio. Anche vedendola seduta, era chiaro che quella figura era più bassa di gran parte dei manichini nella sala e vestita di una sorta di runica tanè che pareva una corta veste di cotone grezzo o di lana, stretta in vita da una cintura. Ai piedi, aveva un paio di sandali. L’uomo sarebbe potuto sembrare buffo, ma i suoi tratti (corti capelli ricci e grigi, naso a becco, fieri occhi grigi che fissavano arditamente da sotto folte sopracciglia) erano così energici che Ada si ritrovò ad avvicinarsi con cautela. Le braccia dell’uomo mostravano muscoli sodi e un mucchio di cicatrici, le dita tozze erano piegate con disinvoltura, ma strette sui braccioli di legno della sedia da campo: tutto, nella figura scolpita, dava una tale impressione di forza pronta a scattare (forza di volontà, oltre che fisica) che Ada arretrò di almeno due metri. L’uomo era chiaramente più vecchio di quanto le persone decidessero di sembrare nella loro epoca attuale, un punto intermedio fra la seconda Ventina di Harman e la vecchiaia di Savi. La tunica era tanto scollata che Ada scorgeva i peli brizzolati sul petto ampio e abbronzato.
Daeman si avvicinò subito. «Conosco quest’uomo» disse, indicandolo. «L’ho già visto.»
«Nel dramma del lino» confermò Hannah.
«Sì, sì» ribadì Daeman. Schioccò le dita, sforzandosi di ricordare. «Si chiama…»
«Odisseo» disse l’uomo sulla sedia. Si alzò e mosse un passo verso il sorpreso Daeman. «Odisseo, figlio di Laerte.»