Alla fine risulta che non posso farlo. Non ne ho il cuore o le palle o la fermezza o, forse, il coraggio. Non posso rapire il figlio di Ettore nemmeno per salvare Ilio. Nemmeno per salvare il bambino. Nemmeno per salvare me stesso.
Non è ancora l’alba, quando mi telequanto a Ilio, nella grande casa di Ettore. Solo due sere fa, morfizzato nel povero Dolone ormai privo di testa, ho seguito Ettore che tornava a casa a cercare la moglie e il figlio. Grazie a quella visita, conosco la pianta dell’edificio, perciò mi telequanto direttamente nella stanzetta del bambino, poco lontano dalla camera da letto di Andromaca. Il figlio di Ettore, di neanche un anno, si trova in una culla dai bellissimi intagli, sulla quale è stesa una zanzariera. Poco lontano c’è la nutrice, la stessa che aveva accompagnato Andromaca sui bastioni la sera in cui Ettore, col riflesso del sole sul dorato elmo da guerra, aveva spaventato senza volerlo il figlioletto. Anche lei dorme della grossa, distesa su un divano, con una veste sottile e trasparente drappeggiata con tutta la complessità di una illustrazione di Aubrey Beardsley. La camicia da notte è tenuta ferma sotto il seno da una fascia, alla maniera greca e troiana, e mostra quanto sia grande e bianco il seno della donna, visibile nella luce riflessa dei tripodi accesi delle guardie sulla terrazza più in là. Ho immaginato che faccia da balia al bambino. Il particolare, a dire il vero, è importante, perché il mio piano dipende dalla possibilità di rapire il bambino insieme alla nutrice, lasciando Andromaca a casa… dopo comparirà "Afrodite" e le dirà che suo figlio è stato rapito dagli dèi come punizione per non specificate manchevolezze dei troiani e che Ettore, se rivuole il bambino, deve andare sull’Olimpo a riprenderselo e bla, bla, bla.
Per prima cosa devo prendere il bambino e poi afferrare la nutrice (sospetto che sia più forte di me e quasi sicuramente più avvezza a lottare, perciò userò lo storditore, se necessario, anche se non ne ho molta voglia) e poi devo telequantarmi con loro in quella collina in rapido popolamento nell’antica Indiana, trovare Nightenhelser (non ho ancora deciso cosa farò di Patroclo) e convincerlo a sorvegliare bambino e nutrice finché non tornerò a prenderli.
Nightenhelser sarà in grado di tenere sotto controllo la nutrice troiana per giorni, settimane o mesi, finché questa storia sarà finita? In un confronto fra un professore di lettere classiche del ventesimo secolo e una balia troiana del 1200 a.C, penso che scommetterei sulla balia. E offrirei una buona quota per puntate sul suo avversario. Bene, sarà un problema di Nightenhelser. A me tocca trovare una leva su Ettore, un modo per convincerlo che deve combattere gli dèi (proprio come la "morte" di Patroclo era il mio asso per arruolare Achille in questa crociata suicida) e al momento quella leva dorme davanti a me.
Il piccolo Scamandrio, che il popolo di Ilio chiama amorevolmente "Astianatte, Signore della città", si lamenta piano nel sonno e con i piccoli pugni si strofina le guance arrossate. Anche se sono invisibile sotto l’Elmo di Ade, mi immobilizzo e controllo la nutrice. La donna continua a dormire, ma uno strillo del bambino la sveglierebbe di sicuro.
Non so perché, ma mi calo sulle spalle l’Elmo di Ade e divento visibile. Nella stanza non c’è nessun altro, a parte le mie due vittime, che fra qualche secondo saranno a quindicimila chilometri da qui e non potranno dare la mia descrizione per l’identikit a un disegnatore della polizia troiana.
Mi avvicino in punta di piedi e sposto la zanzariera. Una folata d’aria giunge dal mare e agita le tende della terrazza e la sottile rete intorno alla culla. Senza un suono, il bambino apre gli occhi e li punta su di me. Poi sorride: a me, al suo rapitore. Pensavo che i bambini non ancora ai primi passi avessero paura degli estranei, soprattutto di estranei nella loro cameretta nel cuore della notte. Ma cosa ne so io, dei bambini? Mia moglie e io non ne abbiamo mai avuti e tutti gli studenti cui ho insegnato negli anni erano in realtà adulti cresciuti poco o male, allampanati, foruncolosi, irsuti, impacciati nei rapporti sociali e con l’aria da babbei. Non immaginavo neppure che un bimbetto di meno di un anno potesse sorridere!
Ma Scamandrio mi sorride. Fra un secondo comincerà a fare rumore e dovrò prenderlo, afferrare la nutrice, telequantarmi con loro in tutta fretta via di qui… Posso telequantare altre due persone con me? Lo scopriremo fra un secondo. Poi devo tornare e usare gli ultimi tre minuti di carica del bracciale per rubare la forma di Afrodite e dare l’ultimatum ad Andromaca.
La moglie di Ettore diventerà isterica? Si metterà a piangere e strillare? Ne dubito. In fin dei conti, di recente ha visto Achille ucciderle il padre e i sette fratelli, ha visto la madre divenire bottino del greco e poi morire di malattia subito dopo essere stata liberata, ha visto la sua casa occupata e profanata, eppure si è fatta forza… non solo si è fatta forza, ma si è fatta anche un figlio in perfetta salute per suo marito Ettore. E ora deve guardare ogni giorno Ettore che scende in campo e sa in cuor suo che la sorte del suo amato marito è già segnata dalla crudele volontà degli dèi. Non è una donna debole, no. Anche sotto le forme di Afrodite farò meglio a tenere d’occhio la manica di Andromaca per essere sicuro che non ci sia un pugnale ad accogliere la notizia del rapimento.
Muovo la mano verso il bambino, con le dita dalle unghie sporche a qualche centimetro dalle rosee carni, e la ritraggo.
Non posso farlo.
Non posso farlo.
Intontito dalla mia impotenza anche di fronte al tragico destino (il tragico destino di tutti, perché anche i greci saranno puniti tramite la loro vittoria) esco barcollando dalla stanzetta e nemmeno mi prendo la briga di rendermi di nuovo invisibile con l’Elmo di Ade.
Poso la mano sul medaglione, ma esito. Dove vado? Qualsiasi cosa faccia Achille, ormai non importa più. Non può conquistare l’Olimpo da solo e neppure con l’esercito acheo, se i troiani sono ancora in guerra con i greci. In realtà la mia piccola farsa potrebbe essere inutile: Ettore e le sue orde possono battere gli achei questa mattina stessa, mentre Achille si strappa ancora i capelli e grida di dolore per l’apparente morte di Patroclo. In questo momento Achille se ne frega dei troiani. Ma quando vedrà che Ettore e l’uomo misterioso promesso da Teti (per guidarlo da Ettore, ha detto la dea, e mostrargli come andare sull’Olimpo) non verranno da lui, capirà che la mia è stata solo una messinscena? È probabile. Allora la vera Atena andrà da lui per scoprire che cosa sta succedendo, protesterà la propria innocenza al piè veloce e forse, solo forse, l’Iliade tornerà sul giusto binario.
Non importa.
L’intero, stupido piano è finito. Finito come Thomas Hockenberry, dottore in lettere. Capolinea, probabilmente.
Ma dove andare, finché la violenta Musa e la risvegliata Afrodite non mi troveranno? A trovare Nightenhelser e l’incazzato Patroclo? Vedere quanto ci impiegano gli dèi a seguire la mia pista quantica, non appena avranno capito che cosa ho fatto… o, meglio, ho cercato di fare?
No. Così porterei il tragico destino anche su Nightenhelser. Che se ne stia nell’Indiana del 1200 a.C. e generi figli con le belle fanciulle indiane, forse awii una università e insegni i classici (anche se gran parte dei racconti classici non si sono ancora verificati) e buona fortuna a lui per quanto riguarda Patroclo, che non ho urgenza di stordire di nuovo solo per trascinarlo nella tenda di Achille. "Pesce d’aprile!" potrei dire, morfizzato in Atena per gli ultimi tre minuti. "Ti ho riportato il tuo amico, Achille. Niente rancore, vero?"
No, li lascerò in pace laggiù nell’Indiana.
Dove vado? Sull’Olimpo? Il pensiero della Musa che lì mi dà la caccia, di Zeus con occhi simili a radar in movimento, di Afrodite che si risveglia… No, niente Olimpo. Non stanotte.
Mi viene in mente un solo luogo: lo visualizzo, tocco il medaglione TQ, lo aziono e vado lì, prima di cambiare idea.
Sono visibile ed Elena mi scorge subito, alla fioca luce delle candele. Si alza su un braccio sui cuscini e dice: «Hock-en-bear-eeee?».
Sono nella sua camera da letto. Non rispondo. Non so perché sono venuto qui. Se lei chiama le guardie o se solo viene verso di me, con quel pugnale… ma sono troppo stanco per lottare, troppo stanco per fuggire. Non mi chiedo nemmeno perché la camera da letto sia illuminata da candele alle quattro e mezzo del mattino.
Elena viene verso di me, ma senza il pugnale. Avevo dimenticato quanto è bella Elena di Troia: l’agile e morbida figura nella veste trasparente fa sembrare la pettoruta balia di Scamandrio solo una donna tozza e malfatta. «Hock-en-bear-eeee» dice piano Elena, con quel suo dolce modo di pronunciare il mio nome così difficile da dire in greco antico. Sento le lacrime agli occhi, nel rendermi conto che lei è l’unico essere umano sulla terra, a parte Nightenhelser (che ormai potrebbe essere morto) a conoscere il mio nome. «Sei ferito, Hock-en-bear-eeee?»
«Ferito?» riesco a dire. «No. Non sono ferito.»
Elena mi guida nella stanza da bagno contigua alla camera da letto. Il posto dove l’ho vista per la prima volta, quella notte. Anche lì ci sono candele accese e c’è acqua nella vasca; vedo la mia immagine riflessa: occhi rossi, barba lunga, aria sfinita. Mi rendo conto di non avere praticamente dormito per… per quanto? Non lo ricordo. «Siedi» dice Elena e io mi lascio cadere pesantemente sul bordo della vasca da bagno. «Perché sei venuto, Hock-en-bear-eeee?»
Inciampando nelle parole, dico: «Ho cercato il fulcro» e le racconto la mia inutile farsa con Achille, il rapimento di Patroclo, il piano di spingere gli eroi contro gli dèi per salvare… tutti, tutto.
«Ma non hai ucciso Patroclo?» dice Elena, con espressione intensa negli occhi scuri.
«No. L’ho solo portato… altrove.»
«Con il modo di viaggiare degli dèi.»
«Sì.»
«Ma non ce l’hai fatta a portare via Astianatte, figlio di Ettore, nello stesso modo?»
Scuoto in silenzio la testa.
Elena riflette, vedo lo sguardo assorto dei suoi magnifici occhi scuri. Come può credere alle mie spiegazioni? Chi diavolo pensa che io sia? Perché mi ha aiutato prima — "aiutato" è un bell’eufemismo per quella lunga notte di passione — e che cosa farà di me adesso?
Come in risposta a quest’ultima domanda, Elena si alza con un’aria truce negli occhi ed esce dalla stanza da bagno. La sento chiamare nel corridoio e so che le guardie torneranno con lei in meno di un minuto, perciò porto la mano al medaglione TQ.
Non riesco a pensare a un posto dove rifugiarmi.
Ho ancora un po’ di carica nello storditore, ma non cerco di usarlo, quando Elena torna con varie altre persone. Non guardie, ma donne di servizio. Schiave.
Nel giro di un minuto mi spogliano, ammucchiando contro la parete gli indumenti sporchi, mentre altre ragazze portano anfore d’acqua fumante per il bagno. Lascio che mi tolgano il bracciale, ma mi tengo stretto il medaglione TQ. Non dovrei rischiare di bagnarlo, ma voglio averlo a portata di mano.
«Ora fai il bagno, Hock-en-bear-eeee» dice Elena di Troia. Alza una corta e lucente lama di rasoio. «Poi ti raderò io stessa. Tieni, bevi. Ti ridarà energie e spirito.» Mi porge una coppa con un liquido denso.
«Cos’è?» chiedo.
«La bevanda preferita di Nestore» dice Elena ridendo. «Lo era, almeno, quando quel vecchio sciocco faceva visita a mio marito, Menelao. Ridà le forze.»
L’annuso, sapendo d’essere maleducato. «Cosa c’è dentro?»
«Vino, scaglie di formaggio e orzo» risponde Elena. Mi avvicina alle labbra la coppa, muovendomi verso l’alto le mani. Ha dita bianchissime che risaltano contro la mia pelle abbronzata e sporca. «Ho aggiunto del miele per addolcirlo.»
«Fa così anche Circe» dico, ridendo scioccamente.
«Chi, Hock-en-bear-eeee?»
Scuoto la testa. «Niente, niente. È nell’Odissea. Non importa. Illeri… illire… irrilevante e non pertinente.» Bevo. Il liquido è forte come il calcio di un mulo del Missouri. Mi chiedo oziosamente se ci sono muli nel Missouri del 1200 a.C.
Le ragazze mi hanno denudato, facendomi alzare per togliermi la veste e gli indumenti intimi. Non penso nemmeno a sentirmi imbarazzato. Sono troppo stanco e la bevanda mi fa girare decisamente la testa.
«Fa’ il bagno, Hock-en-bear-eeee» dice Elena. Mi offre il braccio e mi sorregge mentre entro nella vasca profonda e fumante. «Ti raderò mentre sei in acqua.»
L’acqua è così calda che mi rannicchio come un bambino e mi immergo con cautela, esitando a lasciare che il liquido bollente mi sfiori lo scroto. Ma mi immergo, sono troppo stanco per combattere la forza di gravità; e quando mi appoggio al piano inclinato della vasca di marmo, mentre le serve di Elena mi insaponano le guance e il collo, nemmeno mi preoccupo che Elena maneggi il rasoio così vicino ai miei occhi e alla giugulare. Mi fido di lei.
Sento che la bevanda preferita da Nestore mi rida energie, decido che se Elena mi offrirà il suo letto, le chiederò di dividerlo con me in queste ultime ore prima dell’alba. Chiudo gli occhi solo per un momento. Solo per qualche secondo.
Quando mi sveglio è mattino inoltrato, come minimo, a giudicare dall’intensa luce che entra dalle piccole finestre poste in alto. Sono sbarbato e ripulito, perfino profumato. Sono anche disteso su un freddo pavimento di pietra in una stanza vuota, non sull’alto letto di Elena. E sono nudo, completamente nudo, senza il medaglione, che non vedo da nessuna parte. Mentre la vera coscienza mi fluisce nel cervello come acqua riluttante in un secchio che perde, noto di essere legato con varie corregge di cuoio ad anelli di ferro infissi nella parete e nel pavimento. Le strisce di cuoio corrono dai polsi, legati insieme sopra la testa, alla parete. Le strisce che mi stringono le caviglie (sono a gambe divaricate) vanno a due altri anelli nel pavimento.
Posizione e situazione sarebbero imbarazzanti e un po’ allarmanti se fossi solo; ma non sono solo. Cinque donne, in piedi accanto a me, mi fissano dall’alto in basso. Nessuna di loro ha l’aria divertita. D’istinto strattono le corregge nel tentativo di coprirmi i genitali, ma le strisce di cuoio sono troppo corte e non riesco nemmeno ad abbassare le braccia al livello delle spalle. E le cinghie alle caviglie non mi permettono di chiudere le gambe. Mi accorgo ora che tutte le donne hanno un pugnale, anche se qualche lama è tanto lunga da sembrare una spada.
Conosco quelle donne. Accanto a Elena, al centro, c’è Ecuba, moglie di re Priamo e madre di Ettore e di Paride, dai capelli già grigi, ma ancora attraente. Accanto a Ecuba c’è Laodice, figlia della regina e moglie del guerriero Elicaone. A sinistra di Elena c’è Teanò, figlia di Cisse, moglie del domatore di cavalli troiano Antenore, ma anche (e forse questo ha maggiore importanza nella mia situazione attuale) la più importante sacerdotessa di Ilio al servizio della dea Atena. Immagino che Teanò non sarà felice di apprendere che questo semplice mortale ha assunto la forma e ha usato la voce della dea che lei ha servito per tutta la vita. Guardo l’espressione truce di Teanò e sospetto che ne sia già stata informata.
Infine c’è Andromaca, moglie di Ettore, la donna il cui figlio stavo per rapire e portare in esilio nell’Indiana. Ha l’espressione più dura di tutte. Si batte sulla palma un lungo e affilato pugnale e pare impaziente.
Elena si siede su un basso divano accanto a me. «Hock-en-bear-eeee, devi raccontare anche a loro la storia che hai raccontato a me. Chi sei. Perché osservavi la guerra. Quale aspetto hanno gli dèi. Ciò che hai cercato di fare durante la notte.»
«Mi liberi, prima?» Ho la lingua impastata. Elena mi ha drogato.
«No. Parla. Racconta la verità. Teanò ha avuto da Atena il dono di distinguere la verità dalle menzogne, anche se a parlare è una persona dall’accento barbaro come il tuo. Parla subito. Senza tralasciare niente.»
Esito. Forse tenere la bocca chiusa potrebbe essere la mia alternativa migliore.
Teanò si piega sul ginocchio, accanto a me. È giovane e bella, ha occhi grigi, chiari, come la dea che serve. Impugna una lama corta, larga, a doppio filo, molto fredda. So che è fredda perché me l’ha appena appoggiata sotto i testicoli, sollevandoli come un’offerta su un coltello da portata, d’argento. La punta del pugnale trae sangue dal mio sensibile perineo e tutto il corpo mi si contrae e cerca di sottrarsi, anche se riesco a trattenere un grido.
«Racconta tutto e non mentire» mormora la grande sacerdotessa di Atena. «Alla prima menzogna, ti faccio mangiare il marrone sinistro. Alla seconda, il destro. Alla terza, darò da mangiare ai miei cani ciò che resta.»
Così racconto tutto. Chi sono. Come gli dèi mi hanno richiamato in vita per il lavoro da scoliaste. Le mie impressioni dell’Olimpo. La mia ribellione contro la Musa, l’attacco contro Afrodite e Ares, il piano per spingere Achille ed Ettore contro gli dèi… tutto. La punta del pugnale non si sposta mai e il metallo sotto di me non si scalda.
«Hai assunto la forma della dea Atena?» mormora Teanò. «Sei in grado di farlo?»
«I congegni che porto» dico. «Che portavo.» Chiudo davvero gli occhi e serro i denti, aspettando il taglio, lo strappo, il lieve tonfo sul pavimento.
Parla Elena: «Racconta a Ecuba, Laodice, Teanò e Andromaca la tua visione del futuro prossimo. Il fato di noi tutte».
«Non è un veggente gratificato del dono degli dèi» dice Ecuba. «Non è neppure una persona civile. Non sentite come parla? Barbaro.»
«Ammette di venire da molto lontano» spiega Elena. «Non può fare a meno di essere un barbaro. Ma ascolta che cosa vede nel nostro futuro, nobile figlia di Dimante. Racconta, Hock-en-bear-eeee.»
Mi umetto le labbra. Gli occhi di Teanò, di quel grigio tìpico del mare del Nord, sono gli occhi di una fondamentalista, di un ufficiale delle ss. Gli occhi di Ecuba sono scuri e rivelano minore intelligenza di quelli di Elena. Laodice ha lo sguardo velato, Andromaca ha occhi fieri e brillanti e pericolosamente decisi.
«Che cosa volete sapere?» chiedo. Tutto ciò che dirò riguarderà la vita di questa gente, mariti e città e figli.
«La verità» risponde Elena. «Tutto ciò che ritieni di sapere.»
Esito allora solo un secondo e cerco di non pensare alla lama femminista di Teanò nelle mie partì basse. «La mia non è la visione del futuro» dico «ma il ricordo di un racconto che sarà narrato nel vostro futuro, che è il mio passato.»
Sapendo che queste parole non possono avere senso per nessuna di loro e chiedendomi se siano state capite malgrado la mia barbara pronuncia (barbara pronuncia? Non credo di storpiare il greco antico!) parlo loro dei giorni e dei mesi a venire.
Dico loro che Ilio cadrà, che il sangue scorrerà nelle vie, che le loro case saranno date alle fiamme. Dico a Ecuba che suo marito Priamo sarà ucciso ai piedi della statua di Zeus nel loro tempio privato. Dico ad Andromaca che suo marito Ettore sarà abbattuto da Achille, quando nessuno in città avrà il coraggio di uscire a combattere al fianco del suo amato; e che il cadavere di Ettore sarà trascinato intorno alla città legato al cocchio di Achille e poi portato nel campo acheo perché i soldati ci piscino sopra e che sarà dilaniato dai cani dei greci. Poi le dico che nel giro di qualche settimana suo figlio, Scamandrio, sarà gettato dal punto più alto delle mura cittadine e che il suo cervello si spargerà sui sassi sottostanti. Dico ad Andromaca che il dolore per lei non sarà ancora finito, perché sarà condannata a vivere e a essere trascinata come schiava nelle isole greche, dove finirà i suoi giorni a servire pasti agli uomini che hanno ucciso Ettore e bruciato la sua città e ucciso suo figlio. Che passerà i suoi giorni ad ascoltare i loro scherzi, sedendo in silenzio mentre gli invecchiati eroi achei racconteranno storie su quei gloriosi giorni di stupri e di saccheggi.
Descrivo a Laodice e a Teanò lo stupro di Cassandra e lo stupro di migliaia di donne e di fanciulle troiane e dico che migliaia di altre sceglieranno la spada per non patire simile vergogna. Rivelo a Teanò che Odisseo e Diomede ruberanno il Palladio, la statua sacra, dal tempio segreto di Atena e poi torneranno da conquistatori a profanare e distruggere il tempio stesso. Dico alla sacerdotessa che mi minaccia le palle che Atena non farà niente, niente, per fermare stupri e saccheggi e profanazioni.
E ripeto a Elena i particolari della morte di Paride e rivelo che lei sarà ridotta in schiavitù per mano dell’ex marito Menelao.
Poi, quando ho detto tutto ciò che so dall’Iliade e ho spiegato di nuovo di non essere certo se accadrà davvero, ma d’avere visto realizzarsi gran parte del poema nei miei nove anni di servizio, mi fermo. Potrei parlare delle peregrinazioni di Odisseo o dell’assassinio di Agamennone al suo ritorno a casa o addirittura dell’Eneide di Virgilio e del trionfo finale di Troia, la fondazione di Roma, ma sono tutte cose di cui se ne fregherebbero.
Terminata la litania di sventure, rimango in silenzio. Nessuna delle cinque donne piange. Nessuna mostra un’espressione che non avesse già sul viso quando ho iniziato a descrivere il loro destino.
Sfinito, svuotato, chiudo gli occhi e aspetto il mio, di destino.
Mi permettono di vestirmi, anche se Elena ordina alle sue schiave di portarmi biancheria e vesti pulite. Poi prende un congegno alla volta (il medaglione TQ, lo storditore, l’Elmo di Ade e il braccialetto morfico) e mi chiede se fanno parte del "potere preso in prestito dagli dèi". Considero la possibilità di mentire (rivoglio soprattutto l’Elmo di Ade) ma alla fine dico la verità su ciascun congegno.
«Funzionerebbe, se una di noi lo provasse?» chiede Elena.
Qui esito, perché davvero non lo so. Forse gli dèi hanno regolato sulle impronte digitali lo storditore e il bracciale, per evitare che finiscano in mano a un greco o a un troiano, nel caso noi scoliasti cadessimo sul campo di battaglia. Pare possibile. Nessuno di noi ha mai chiesto. Il congegno morfico e il medaglione TQ, almeno, richiedono un certo addestramento e lo dico alle donne. L’Elmo di Ade, sono quasi sicuro, funzionerà su chiunque perché è un manufatto rubato. Elena trattiene tutti i congegni, mi lascia solo il giubbotto protettivo intessuto nella mia cappa e la corazza di cuoio. Depone in una piccola borsa ricamata gli inestimabili doni degli dèi; le altre annuiscono e usciamo.
Lasciamo la casa di Elena, le cinque donne e io, e raggiungiamo a piedi, per le vie cittadine, nel sole di metà mattino, il tempio di Atena.
«Che cosa succede ora?» chiedo, mentre procediamo frettolosamente per viali e vicoli affollati: cinque donne dall’espressione truce, in veste nera non dissimile dalla burqa delle musulmane del ventesimo secolo, e un uomo perplesso. Continuo a guardare in alto, sopra i tetti, perché mi aspetto che da un momento all’altro compaia un cocchio con la Musa.
«Silenzio!» sibila Elena. «Parleremo quando Teanò avrà teso intorno a noi uno schermo di sicurezza in modo che neanche gli dèi ci possano ascoltare.»
Prima di entrare nel tempio, Teanò estrae una veste nera e insiste perché io la indossi. Ora sembriamo tutte donne in veste lunga che entrano nel tempio da una porta secondaria e percorrono corridoi vuoti, anche se una delle sei calza sandali da guerra.
Non sono mai entrato in un tempio e non rimango deluso dalla rapida occhiata alla sala principale, grazie alla porta aperta. L’ambiente è enorme, quasi tutto buio per la scarsa luce proveniente da bracieri appesi e da candele votive. Mi ricorda, anche per l’odore, una chiesa cattolica: profumo d’incenso in un ambiente cavernoso dove anche gli echi sono in sordina. Tuttavia, anziché da un altare cattolico e statue di Maria vergine e del Bambino, questo ambiente è dominato da un’enorme statua di Atena posta al centro: alta almeno nove metri, scolpita in pietra bianca ma vistosamente dipinta, con labbra rosse, guance arrossate, pelle rosea (gli occhi della dea, grigi, sembrano fatti di pietra madreperlacea), brandisce un elaborato scudo d’oro massiccio, indossa una corazza di rame tirato a lucido, con intarsi d’oro, e una fascia di lapislazzuli, impugna una lancia di vero bronzo lunga dodici metri. È impressionante. Mi fermo davanti alla porta e ammiro il santuario. Lì, proprio ai sacri piedi calzati di sandali di Atena, Aiace il Grande afferrerà e stuprerà Cassandra, figlia di Priamo.
Elena torna indietro, mi prende per il braccio e mi tira senza tanti complimenti nel corridoio. Mi chiedo se sono il primo uomo ad avere mai visto il cuore del santuario del tempio di Atena a Ilio. La statua del Palladio e l’edificio stesso non sono sorvegliati da giovani vergini? Alzo gli occhi, vedo lo sguardo minaccioso della sacerdotessa Teanò e mi affretto a raggiungere le altre. Teanò non è vergine, è la fiera moglie di Antenore e un pezzo d’acciaio temprato con cui fare i conti.
Seguo le donne giù per una scala in penombra fino a un largo piano interrato, dove qualche candela fa luce. Teanò si guarda intorno, scosta un arazzo, da una tasca della veste prende una chiave di forma bizzarra e la infila nella parete che pare solida muratura: una lastra gira sui cardini e rivela una scala più ripida illuminata da torce. Teanò ci fa entrare frettolosamente.
Un corridoio conduce a quattro stanze in quello scantinato sotto lo scantinato. Mi spingono nell’ultima stanza, un locale piccolo, secondo gli standard del tempio, poco più di sei metri per sei, arredato solo con un tavolo di legno al centro, quattro tripodi accesi (appena un bagliore) agli angoli e una statua di Atena, più rozza e più piccola di quella nel salone centrale. Questa Atena è alta poco più di un metro.
«Questo è il vero Palladio, Hock-en-bear-eeee» mormora Elena, riferendosi alla scultura sacra ricavata da una pietra caduta dal cielo come segno tangibile della benedizione di Atena sulla città di Ilio. Quando il Palladio sarà rubato, così dice una storia vecchia di secoli, Troia cadrà.
Teanò ed Ecuba zittiscono con un’occhiata Elena. La mia ex amante… be’, la mia ex amica di una sola notte… riversa sul tavolo il contenuto della borsa; ci sediamo su sgabelli di legno e guardiamo l’Elmo di Ade, il bracciale morfico, lo storditore e il medaglione TQ. Solo il medaglione dà l’idea d’avere un certo valore. Il resto non lo guarderei nemmeno, a una vendita di roba vecchia.
Ecuba si rivolge a Elena. «Di’ a questo… uomo… che dobbiamo verificare la sua storia. Se questi giocattoli hanno potere.» La madre di Ettore e di Paride prende il bracciale morfico.
So che non può attivarlo, ma dico ugualmente: «Il suo potere è quasi esaurito. Non giocarci».
La vecchia mi fulmina con un’occhiata rovente. Laodice prende lo storditore e lo rigira fra le mani. «Questa è l’arma che hai usato per stordire Patroclo?» chiede. È la prima volta che parla in mia presenza.
«Sì» rispondo.
«Come funziona?»
Le indico i tre pulsanti da premere e girare per attivarlo. Sono certo che lo storditore è fatto in modo da funzionare solo se lo tengo io. Di sicuro gli dèi non sono così sciocchi da permettere che altri usino l’arma, se la perdessi, anche se la duplice pressione e il pulsante da girare sono una sorta di meccanismo di sicurezza. Comincio a spiegare a Laodice e alle altre che solo io posso usare gli utensili degli dèi.
Laodice mi punta al petto lo storditore e preme i pulsanti.
Una volta, in un’escursione con Susan nella Brown County, Indiana, mentre attraversavamo un prato in cima a una collina, un fulmine cadde a dieci passi da me, mi sbatté lungo e disteso, mi accecò e mi lasciò stordito per diversi minuti. Solevamo scherzare sull’episodio, sulle probabilità che si verificasse, ma al ricordo di quella scarica mi si seccava la bocca.
Questa scarica è peggiore.
Ho l’impressione che mi abbiano colpito con un attizzatoio rovente in pieno petto. Volo dallo sgabello, atterro tramortito sul pavimento di pietra, mi contorco come un epilettico, agito violentemente gambe e braccia e perdo conoscenza.
Quando rinvengo, dolorante, con un ronzio nelle orecchie e il mal di testa, le quattro donne non badano a me ma fissano un angolo vuoto.
"Quattro donne?" penso. Mi pareva fossero cinque. Mi alzo a sedere e scuoto la testa, nel tentativo di rimettere a fuoco la vista. "Manca Andromaca" noto. Forse è andata a chiedere aiuto, a trovare un guaritore. La moglie di Ettore si toglie l’Elmo di Ade.
«L’Elmo del dio della morte funziona, proprio come sostiene la tradizione» dice Andromaca. «Perché gli dèi avrebbero dovuto darlo a uno come lui?» Fa un cenno verso di me e lascia cadere sul tavolo l’elmo metallico.
Teanò prende in mano il medaglione TQ. «Questo non riusciamo a farlo funzionare» dice. «Facci vedere.»
Impiego un secondo, confuso come sono, a capire che la sacerdotessa si è rivolta a me. «Perché dovrei?» replico. Mi tiro in piedi e mi appoggio al tavolo. «Perché dovrei aiutare una di voi?»
Elena gira intorno al tavolo e mi posa sul braccio la mano. Ritraggo il braccio.
«Hock-en-bear-eeee» dice Elena, facendo le fusa come una gatta. «Non sai che gli dèi ti hanno mandato a noi?»
«Di cosa parli?» ribatto. Mi guardo intorno.
«No, qui gli dèi non possono udirci» rivela Elena. «Le pareti della stanza sono rivestite di piombo. Gli dèi non possono penetrarlo, né con la vista né con l’udito. È risaputo da secoli.»
Mi guardo intorno, a occhi socchiusi. Che diavolo. Perché no? Anche la vista a raggi X di Superman non penetrava il piombo. Ma perché nel tempio di Atena dovrebbe esserci una stanza a prova di dèi?
Andromaca si avvicina. «Amico di Elena, Hock-en-bear-eeee, noi… le donne di Troia ed Elena… per anni abbiamo tramato per porre fine alla guerra. Ma gli uomini… Achille, gli argivi, gli stessi nostri mariti e padri troiani… hanno potere su di noi. Rispondono solo agli dèi. Ora gli dèi hanno ascoltato le nostre più segrete preghiere e ti hanno mandato come nostro strumento. Con i nostri piani e il tuo aiuto cambieremo il corso degli eventi, salveremo non solo la nostra città, la nostra vita e quella dei nostri figli, ma anche il destino della razza umana, liberandoci dal dominio di divinità arbitrarie e crudeli.»
Scuoto di nuovo la testa e rido. «Nella tua logica c’è una piccola pecca, signora mia. Perché gli dèi avrebbero mandato me come vostro strumento, se vi proponete di rovesciarli? Non ha senso, donna.»
Le cinque troiane mi fissano per qualche momento. Poi Elena dice: «Ci sono più dèi, Hock-en-bear-eeee, di quanti non ne sogni la tua filosofia».
La fisso per un secondo, poi decido che è di sicuro una coincidenza. O che ci sento male. Il petto mi duole ancora e i muscoli risentono degli spasmi procurati dallo storditore.
«Datemi i congegni» dico, per metterle alla prova.
Le donne spingono verso di me l’Elmo di Ade, lo storditore, il bracciale morfico e il medaglione TQ. Alzo lo storditore come per tenerle tutte a bada. «Qual è il vostro piano?» chiedo.
«Mio marito non mi avrebbe mai creduto, se gli avessi riferito che la dea Afrodite era comparsa e aveva portato via Scamandrio e la balia per chiedere un riscatto» dice Andromaca. «Per tutta la vita Ettore ha servito questi dèi. Non è egomaniaco come l’uccisore di uomini Achille. Avrebbe pensato che qualsiasi azione degli dèi fosse solo un modo per metterlo alla prova. A meno che Afrodite o un altro dio non uccidano nostro figlio davanti a testimoni, davanti a Ettore stesso. In questo caso, la sua ira non conoscerebbe confini. Perché non hai ucciso mio figlio?»
Non so come rispondere. Così Andromaca risponde per me.
«Sei uno sciocco sentimentale» sbotta. «Dici che Scamandrio finirà sfracellato sulle rocce ai piedi delle mura, se non cambi i piani degli dèi.»
«Sì.»
«Tuttavia ti rifiuti di uccidere un bambino che è già destinato a morire, anche se da questo dipende il tuo piano per porre fine a questa guerra e vincere la tua battaglia contro gli dèi. Sei un debole, Hock-en-bear-eeee.»
«Sì.»
Ecuba mi fa segno di sedermi, ma rimango in piedi, storditore in mano. «Qual è il vostro piano per far terminare la guerra?» chiedo. Ho quasi paura di venirlo a sapere. Andromaca ucciderà il suo stesso figlio per raggiungere i propri scopi? La guardo negli occhi e ho ancora più paura.
«Ti esporremo il nostro piano» dice la vecchia regina Ecuba «ma prima devi dimostrarci che questi ultimi due giocattoli degli dèi funzionano.» Indica il bracciale morfico e il medaglione TQ.
Tenendole d’occhio, mi metto il bracciale. L’indicatore dice che rimangono meno di tre minuti di carica. Uso l’apparecchio per fare la scansione di Ecuba e poi mi morfizzo.
La vera Ecuba scompare, mentre prendo il suo spazio di probabilità quantica. «Mi credete, ora?» dico con la voce di Ecuba. Alzo il polso, il polso di Ecuba, e mostro il bracciale. Dalla veste estraggo lo storditore. Le quattro donne rimaste, compresa Elena, rimangono a bocca aperta e arretrano di un passo, sconvolte come se con una spada avessi fatto a pezzi la vecchia matrona. Più sconvolte, anzi: conoscono fin troppo bene la morte per spada.
Spengo il bracciale morfico ed Ecuba riappare nel punto dove era scomparsa. Batte le palpebre, ma so che non ha la sensazione del tempo trascorso. Le cinque donne borbottano fra loro. Controllo l’indicatore virtuale: restano due minuti e ventotto secondi di carica.
Mi metto al collo il medaglione TQ. Almeno quel congegno pare che non abbia limiti di carica. «Volete che esca di qui e torni per dimostrare che pure questo funziona?» chiedo.
Ecuba ha ripreso la padronanza di sé. «No» risponde. «Tutti i nostri piani, tuoi e nostri, dipendono dalla tua capacità di andare di nascosto sull’Olimpo e di tornare. Puoi portare là una di noi, adesso?»
Esito di nuovo. «Potrei» dico alla fine «ma l’Elmo di Ade rende invisibile solo me. Se portassi sull’Olimpo una di voi, la prescelta sarebbe visibile.»
«Allora devi portare qui un oggetto, la prova che sei stato sull’Olimpo» dice Ecuba.
Alzo le mani, palme in su. «Quale? Il vaso da notte di Zeus?»
Tutt’e cinque arretrano di nuovo, come se avessi bestemmiato. Mi dico che qui la bestemmia non è il divertimento disinvolto che era nel mio tempo, alla fine del ventesimo secolo… per ottime ragioni. Qui gli dèi sono reali e a insultarli si paga il fio. Lancio un’occhiata alle pareti e mi auguro che il piombo schermi davvero dall’Olimpo… non per la battuta sul vaso da notte, ma per le decisioni che pare prenderemo.
«Quando ero con Afrodite durante il giudizio degli dèi» dice piano Elena «ho notato che per spazzolarsi i lucenti capelli la dea usa un bellissimo pettine d’argento, fabbricato da qualche abile dio. Vai nelle sue stanze sull’Olimpo e porta qui quel pettine.»
Apro bocca per ricordare loro ciò che ho già detto, che Afrodite al momento galleggia in una vasca di guarigione, ma capisco che non fa differenza. Il pettine non sarà di sicuro nella vasca. «D’accordo» dico allora. Prendo il medaglione e mi metto l’Elmo di Ade. «Non andate in giro, mentre sono via.» Avevo già messo l’Elmo di Ade, prima di azionare il medaglione, perciò la mia voce sarà giunta loro dal vuoto, nel paio di secondi prima della traslazione quantica.
Non so con esattezza dove si trovino le stanze private di Afrodite. Probabilmente la dea ha una di quelle bianche case della grandezza di un tempio lungo il lago nel cratere, ma ricordo quando mi prese da parte, seducendomi quasi, e mi disse che avrei dovuto uccidere Atena; quella volta la Musa mi aveva condotto in una stanza appena fuori della Grande Sala degli Dèi. Se non erano i quartieri privati di Afrodite, pareva almeno una camera ammobiliata a sua disposizione nella grande sala, una sorta di pied-à-terre olimpico.
In un batter d’occhio mi telequanto nella Grande Sala e trattengo il respiro.
I molti mezzanini sono vuoti, la stanza è quasi tutta buia e la gigantesca piscina olografica mostra solo disturbi elettrostatici tridimensionali. Ma vi sono parecchi dèi, compreso Zeus, che pensavo fosse via, assiso sul monte Ida ad assistere al massacro sul campo di battaglia di Ilio. Il re degli dèi è sull’alto trono dorato. Nelle vicinanze ci sono vari altri dèi, fra cui Apollo. Sono tutti alti tre metri o più. Mi trovo a una quindicina di metri da loro e sono invisibile, grazie all’Elmo di Ade, ma quasi trattengo il fiato, per paura che sentano il mio respiro. La loro attenzione, però, è rivolta ad altro.
Di fronte al trono, più in basso, al centro del cerchio d’attenzione degli dèi, con un’aria incongrua, per non dire di peggio, ci sono quello che pare un enorme guscio metallico di granchio, butterato e crepato, delle dimensioni di una Ford Expedition, un paio di congegni dall’aspetto avveniristico e un piccolo, lucente robot umanoide. Il robot parla… nella mia lingua. Gli dèi ascoltano, ma non sembrano felici.