Potrei raccontarvi cosa si prova a fare l’amore con Elena di Troia. Ma non dirò niente. E non solo perché sarebbe indegno di un gentiluomo. I particolari non fanno parte di questa storia. Ma posso dire in tutta sincerità che se la vendicativa Musa o l’impazzita Afrodite mi avessero trovato un momento dopo che Elena e io avevamo terminato il nostro primo atto d’amore, diciamo, un minuto dopo che eravamo rotolati lontano l’uno dall’altra, sulle lenzuola inumidite dal sudore, per riprendere fiato e goderci la fresca brezza che anticipava la tempesta, se la Musa e la dea fossero piombate lì allora e mi avessero ucciso… posso dirvi senza tema di contraddizione che la breve seconda vita di Thomas Hockenberry sarebbe stata una vita felice. E sarebbe terminata alla grande, almeno.
Un minuto dopo quell’istante di perfezione, Elena mi puntava al ventre un pugnale.
«Chi sei?» chiese.
«Sono il tuo…» iniziai e mi fermai. Una luce negli occhi di Elena mi aveva fatto morire sulle labbra la menzogna d’essere Paride.
«Se dici di essere il mio nuovo marito, dovrò affondare questa lama nelle tue viscere» dichiarò con calma Elena. «Se sei un dio, non te ne dovrebbe importare. Ma se non sei un dio…»
«Non sono un dio» riuscii a dire. La punta della lama stava per trarre sangue dalla pelle sopra il ventre. "Da dove diavolo è spuntato quel pugnale?" pensai. "Era tra i cuscini, mentre facevamo l’amore?"
«Se non sei un dio, come hai preso la figura di Paride?» Mi resi conto che quella era Elena di Troia, la figlia mortale di Zeus, una donna che viveva in un universo dove dèi e dee facevano sesso con i mortali tutto il tempo; un mondo dove creature, divine o d’altra natura, capaci di cambiare forma camminavano fra semplici umani; un mondo dove il concetto di causa ed effetto aveva significati del tutto differenti. Dissi: «Gli dèi mi hanno dato l’abilità di morfizza… di cambiare aspetto».
«Chi sei?» chiese Elena. «Cosa sei?» Non parve arrabbiata e neppure particolarmente sconvolta. Parlava con calma e i suoi bellissimi lineamenti non erano distorti dalla paura o dall’ira. Ma teneva con fermezza la lama contro il mio ventre. Voleva una risposta.
«Mi chiamo Thomas Hockenberry» dissi. «Sono uno scoliaste.» Sapevo che per lei tutt’e due le risposte non avrebbero avuto senso. Il nome suonava strano perfino a me; aspro, a confronto dei toni più morbidi della loro antica lingua. «Thomas Hock-en-bear-eeee» ripeté Elena. «Pare persiano.» «No» dissi. «Olandese e tedesco e irlandese, in realtà.» Vidi Elena corrugare la fronte e capii che non solo per lei dicevo parole senza senso, ma parevo anche decisamente ammattito.
«Mettiti una veste» disse Elena. «Parleremo in terrazza.»
L’ampia camera da letto di Elena aveva terrazze su entrambi i lati, una prospiciente la corte, l’altra a sudest, sulla città. La mia bardatura di levitazione e gli altri attrezzi (esclusi il medaglione TQ e il bracciale per morfizzarmi, che avevo tenuto anche a letto) erano nascosti dietro la tenda sulla terrazza che dava sulla corte. Elena mi guidò sull’altra terrazza, quella verso l’esterno. Indossavamo entrambi una veste leggera. Elena tenne in mano il corto e affilato pugnale, mentre stavamo fermi alla balaustra, nella luce riflessa dalla città e di un lampo di tanto in tanto.
«Sei un dio?» chiese.
Fui sul punto di rispondere: "Sì". Sarebbe stato il modo più facile per toglierle di testa l’idea di piantarmi nella pancia il pugnale, ma ebbi l’improvviso, inesplicabile impulso a dire la verità, tanto per cambiare. «No» risposi. «Non sono un dio.»
Lei annuì. «Sapevo che non eri un dio. Ti avrei sbudellato come un pesce, se mi avessi mentito su questo.» Sorrise con aria torva. «Non fai l’amore come un dio.»
"Oh, be’…" pensai, ma non sapevo cosa rispondere.
«Com’è che puoi prendere la forma e la figura di Paride?»
«Gli dèi mi hanno dato la capacità di farlo.»
«Perché?» La punta del pugnale era solo a qualche centimetro dalla mia pelle sotto la stoffa sottile.
Mi strinsi nelle spalle, ma subito ricordai che gli antichi non usavano quel gesto; dissi allora: «Mi hanno dato in prestito questa capacità per i loro fini. Sono al loro servizio. Guardo la battaglia e riferisco a loro. Mi è d’aiuto assumere la forma di altri uomini».
Elena non parve sorpresa. «Dov’è il mio amante troiano? Cos’hai fatto al vero Paride?»
«Sta bene» risposi. «Quando lascerò le sue sembianze, tornerà a fare ciò che faceva quando mi sono morfizzato… quando ho assunto la sua forma.»
«Dove sarà in quel momento?»
Mi parve una domanda un po’ bizzarra. «Dovunque si sarebbe trovato se non avessi preso in prestito la sua forma» risposi alla fine. «Penso che abbia appena lasciato la città per unirsi a Ettore nella battaglia di domani.» In realtà, quando non sarò più morfizzato, Paride si troverà esattamente dove si sarebbe trovato se avesse proseguito le sue attività nel tempo in cui avevo assunto la sua identità… a dormire in una tenda, forse, o nel mezzo della battaglia o a scopare una schiava nell’accampamento di Ettore. Ma era troppo difficile spiegarlo a Elena. Non credo che avrebbe apprezzato un discorso sulle funzioni dell’onda di probabilità e sulla simultaneità temporale quantica. Non avrei saputo spiegare perché né Paride né quelli intorno a lui avrebbero notato o ricordato la sua assenza né come mai i loro ricordi avrebbero incluso azioni che Paride avrebbe compiuto se non avessi interrotto il collasso d’onda di probabilità di quella linea temporale. La continuità quantica sarebbe stata ricucita non appena cancellata la funzione morfica.
Merda, io stesso non ci capivo niente!
«Lascia la sua forma» ordinò Elena. «Mostrami la tua vera faccia.»
«Signora mia, se…» cominciai a protestare, ma la sua mano fu più svelta, la lama tagliò stoffa e pelle e sentii il sangue scorrermi sull’addome.
Mostrandole che muovevo la mano molto, molto lentamente, toccai l’icona nel bracciale morfico.
Ero di nuovo Thomas Hockenberry: più basso, più magro, più goffo, con gli occhi da miope e l’incipiente calvizie.
Elena batté le palpebre una volta e alzò il pugnale rapidamente, più rapidamente di quanto credessi possibile per una persona normale. Sentii il rumore di taglio e di lacerazione. Ma non erano i muscoli del mio stomaco, solo la cintura della veste e la seta stessa.
«Non ti muovere» disse piano Elena. Mi allargò la veste e usò la mano libera per farmela scivolare dalle spalle.
Rimasi nudo e pallido davanti a quella formidabile donna. Se un dizionario avesse mai bisogno d’una perfetta definizione di "patetico", una fotografia di quel momento basterebbe.
«Puoi rimetterti la veste» disse Elena, dopo un minuto.
Mi affrettai a ubbidire. La cintura era tagliata, così tenni chiusi con la mano i lembi. Elena parve riflettere. Per vari minuti restammo lì sulla terrazza, in silenzio. Anche se era tardi, le torri di Ilio brillavano per la luce delle torce. Le fiamme dei falò delle sentinelle guizzavano lungo i bastioni sulle lontane mura. Più a sud, al di là delle porte Scee, ardevano pire. Non si vedevano stelle e l’aria odorava di pioggia in arrivo dalla direzione del monte Ida.
«Come hai capito che non ero Paride?» chiesi infine.
Elena emerse dal sogno a occhi aperti e mi rivolse un sorriso. «Una donna può dimenticare il colore degli occhi del suo amante, il tono della sua voce, perfino i particolari del suo sorriso o dell’aspetto, ma non dimenticherà mai come il suo amante scopa.»
Toccò a me battere le palpebre per la sorpresa e non solo per la frase volgare di Elena. Omero ha letteralmente cantato apprezzamenti per la prestanza di Paride, paragonandolo a "uno stallone ben nutrito alla greppia", quando ha descritto la corsa per unirsi a Ettore fuori della città quella notte stessa, "sicuro nel rapido passo… la testa gettata indietro, chioma fluente sulle spalle, sicuro e agile nella sua gloria". Paride era, nel gergo giovanile della mia vita precedente, un fusto. E mentre ero nel letto di Elena, avevo i fluenti capelli di Paride, il suo corpo abbronzato, il suo ventre piatto, i suoi lucidi muscoli, il suo…
«Il tuo pene è più grosso» disse Elena.
Battei di nuovo le palpebre. Due volte. Ovviamente Elena non aveva usato la parola "pene" (il latino in pratica non esisteva ancora, come lingua) e la parola greca da lei scelta era una voce gergale più vicina a "uccello". Ma non aveva senso. Quando facevamo l’amore, avevo il pene di Paride…
«No, non è per questo che ho capito che non eri il mio amante» disse Elena. Pareva leggermi nel pensiero. «È solo una mia osservazione.»
«Ma allora…»
«Sì» disse Elena. «Era il modo in cui mi hai amato, Hock-en-bear-eeee.»
A questo non avevo niente da dire e non sarei riuscito a parlare in modo chiaro nemmeno se l’avessi avuto.
Elena sorrise di nuovo. «Paride mi ebbe per la prima volta non a Sparta, dove mi conquistò, né a Ilio, dove mi portò, ma nella piccola isola di Cranae, durante il viaggio per venire qui.»
Non conoscevo nessuna isola chiamata Cranae e la parola significava semplicemente "rocciosa" in greco antico; forse Paride aveva interrotto il viaggio e si era fermato in una piccola isola rocciosa senza nome per fare il suo comodo con Elena senza che l’equipaggio della nave guardasse. Ciò significava che Paride era… impaziente. "Come eri tu, Hockenberry" mi disse una vocina non del tutto dissimile da quella della mia coscienza. Troppo tardi, per una coscienza.
«Lui mi ha avuto… e io ho avuto lui… centinaia di volte, da allora» disse piano Elena. «Mai però come stanotte. Mai come stanotte.»
Rimasi confuso e inorgoglito. Era un complimento? No, un attimo… è assurdo. Omero canta di Paride quasi divino nella bellezza fisica e nel fascino, un grande amante, irresistibile a donne e dee insieme, e ciò significava che Elena voleva solo dire…
«Tu…» disse lei, interrompendo i miei pensieri confusi «tu eri… schietto.»
Schietto. Mi strinsi di più nella veste e guardai in direzione della tempesta in arrivo per nascondere l’imbarazzo. Schietto.
«Sincero» disse Elena. «Molto sincero.»
Se non si fosse zittita subito, smettendo di cercare sinonimi per patetico, forse le avrei strappato di mano il pugnale e mi sarei tagliato la gola da solo.
«Gli dèi ti hanno mandato qui per me?»
Pensai di nuovo di mentire. Nemmeno quella donna così risoluta avrebbe sventrato un uomo in missione per conto degli dèi. Ma ancora una volta decisi di non farlo. Elena di Troia pareva quasi telepatica, tanto era abile a leggermi il pensiero. E dire la verità era piacevole, tanto per cambiare. «No» risposi. «Non mi ha mandato nessuno.»
«Sei venuto qui solo perché volevi portarmi a letto?»
"Be’, almeno non ha usato di nuovo parole sconce" pensai. «Sì» risposi. «Cioè, no.»
Elena mi guardò. Da qualche parte, nella città, un uomo rise forte, poi una donna lo imitò. Ilio non dormiva mai.
«Insomma… mi sentivo solo» dissi. «Sono stato qui per un’intera guerra, da solo… nessuna donna con cui parlare, nessuna donna da toccare…»
«Hai toccato me a sufficienza.»
Dal tono non avrei saputo dire se si trattava di sarcasmo o di un’accusa. «Sì» ammisi.
«Sei sposato, Hock-en-bear-eeee?»
«Sì. No.» Scossi di nuovo la testa. Di sicuro facevo la figura del perfetto idiota, con Elena. «Credo d’essere stato sposato, ma se lo sono stato, mia moglie è morta.»
«Credi d’essere stato sposato?»
«Gli dèi mi hanno portato sul monte Olimpo attraverso il tempo e lo spazio» dissi. Sapevo che non avrebbe capito, ma me ne fregai. «Credo di essere morto nell’altra mia vita e gli dèi, non so come, mi hanno riportato indietro. Ma non mi hanno restituito tutti i ricordi. Mi tornano a tratti immagini della vita reale, della vita precedente… vanno e vengono, come sogni.»
«Capisco» disse Elena. Dal tono compresi che, sorprendentemente, capiva davvero. «Servi un dio o una dea in particolare, Hock-en-bear-eeee?»
«Faccio rapporto a una delle Muse» risposi «ma solo ieri ho saputo che è Afrodite a controllare il mio destino.»
Elena alzò gli occhi, sorpresa. «E così ha controllato il mio» disse piano. «Solo ieri, quando ha salvato Paride dalla furia di Menelao e l’ha riportato qui nel nostro letto, Afrodite mi ha ordinato di andare da lui. Quando ho protestato, si è arrabbiata e ha minacciato di rendermi il bersaglio dell’odio feroce, fulminante… parole sue… di troiani e achei.»
«La dea dell’amore» commentai piano.
«La dea della lussuria» disse Elena. «E di lussuria ne so parecchio, Hock-en-bear-eeee.»
Di nuovo non seppi che cosa dire.
«Mia madre era Leda, detta la Figlia della Notte» riprese Elena, in tono colloquiale. «Zeus venne a lei in forma di cigno e la scopò… un cigno enorme, tutto eccitato. Nella mia casa c’era un dipinto murale che raffigurava i miei due fratelli più anziani e un altare a Zeus e me in un uovo pronto a schiudersi.»
Non riuscii a evitarlo… mi misi a ridere. Poi contrassi i muscoli dello stomaco, aspettando che fossero trapassati dalla punta del pugnale.
Invece Elena reagì con un gran sorriso. «Sì» disse. «So bene che esistono i rapimenti e che si è pedine degli dèi, Hock-en-bear-eeee.»
«Già. Quando Paride venne a Sparta…»
«No» m’interruppe Elena. «Quando avevo undici anni, Hock-en-bear-eeee, fui rapita… portata via dal tempio di Artemide Orthia… da Teseo, colui che unì le comunità dell’Attica nella città di Atene. Teseo mi mise incinta e gli generai una figlia, Ifigenia, che non potevo guardare con amore e che affidai a Clitennestra perché l’allevasse insieme con suo marito Agamennone come figlia loro. I miei fratelli mi salvarono da quel matrimonio e tornai a Sparta. Teseo allora partì con Ercole per fare guerra alle Amazzoni e trovò il tempo d’invadere l’inferno, di sposare una guerriera amazzone e di esplorare il labirinto del Minotauro a Creta.»
Mi girava la testa. Ogni greco, troiano e dio aveva una storia e non vedeva l’ora di raccontarla. Ma cos’aveva a che fare, tutto questo, con…
«Conosco la concupiscenza, Hock-en-bear-eeee» disse Elena. «Il grande re Menelao mi reclamò in sposa anche se uomini come lui amano le vergini, amano più della vita la propria linea di sangue, nonostante fossi merce insozzata in un mondo d’uomini che ama così tanto le sue vergini. E poi Paride, incitato da Afrodite, venne a rapirmi di nuovo per portarmi a Troia ed essere il suo… bottino.»
Interruppe il racconto e parve studiarmi. Non trovavo niente da dire. Sotto le sue parole fredde, ironiche, c’era uno smisurato abisso d’amarezza. No, non amarezza, capii, guardandola negli occhi. Tristezza. Una terribile, stanca tristezza.
«Hock-en-bear-eeee» continuò Elena «credi che sia la più bella donna al mondo? Sei venuto qui per rapirmi?»
«No, non sono venuto a rapirti. Non avrei nessun posto dove portarti. I miei stessi giorni sono contati dall’ira degli dèi… Ho tradito la mia Musa e la sua padrona, Afrodite; e quando Afrodite guarirà dalle ferite inflìttele ieri da Diomede, mi spazzerà dalla faccia della terra com’è vero che siamo qui.»
«Sì?» disse Elena.
«Sì.»
«Vieni a letto… Hock-en-bear-eeee.»
Mi sveglio nel grigiore che precede l’alba, dopo solo qualche ora di sonno al termine delle nostre ultime due tirate amorose, ma mi sento perfettamente riposato. Giro le spalle a Elena, ma in qualche modo so che pure lei è sveglia, nel largo letto dalle colonnine intagliate.
«Hock-en-bear-eeee?»
«Sì?»
«Come servi Afrodite e gli altri dèi?»
Rifletto un minuto e poi mi giro. La donna più bella del mondo se ne sta lì nella fioca luce, appoggiata al gomito, con i lunghi capelli scuri, scompigliati dalle ore d’amore, che le scendono intorno alla spalla nuda e al braccio, con gli occhi, pupille larghe e scure, fissi nei miei.
«In che senso?» chiedo, pur sapendo cosa vuole dire.
«Perché gli dèi ti hanno portato attraverso il tempo e lo spazio, come hai detto tu, per servirli? Cosa sai che a loro occorra?»
Chiudo gli occhi per un momento. Come posso spiegarglielo? Se rispondessi sinceramente, sarebbe follia. Ma, come ho ammesso prima, sono stufo di mentire. «So alcune cose sulla guerra in corso» dico. «Conosco alcuni eventi che accadranno… che potrebbero accadere.»
«Servi da oracolo?»
«No.»
«Sei un profeta, allora? Un sacerdote al quale gli dèi hanno dato la facoltà di vedere il futuro?»
«No.»
«Non capisco.»
Mi sposto sul fianco e mi tiro su a sedere, sistemando i cuscini per stare più comodo. È ancora buio, ma nella corte un uccello comincia a cinguettare. «Nel luogo da dove provengo» mormoro «c’è un canto, un poema, su questa guerra. Si chiama Iliade. Finora gli eventi della guerra reale assomigliano a quelli cantati dal poema.»
«Parli come se questo assedio e questa guerra fossero già storia vecchia nella terra da cui provieni» dice Elena. «Come se tutto fosse già accaduto.»
"Non ammetterlo, con lei" penso. "Sarebbe follia." «Sì» rispondo invece. «È la verità.»
«Sei uno dei Fati» dice Elena.
«No, sono solo un uomo.»
Elena sorride, con perverso divertimento. Si tocca il solco fra i seni, dove ho raggiunto l’orgasmo solo qualche ora prima. «Questo lo so, Hock-en-bear-eeee.»
Arrossisco, mi strofino le guance e sento la barba lunga. Non mi sono rasato, stamattina, nei dormitori degli scoliasti. "Perché darmi il disturbo?" mi sono detto. "Mi restano solo alcune ore di vita."
«Risponderai alle mie domande su questo futuro?» chiede Elena, con voce terribilmente dolce.
"Sarebbe pazzia rispondere" pens. «Il realtà non conosco il tuo futuro» dico, in malafede. «Conosco solo i particolari di quel poema. E ci sono già state varie discrepanze con gli eventi reali…»
«Risponderai alle mie domande sul futuro?» ripete. Mi posa la mano sul petto.
«Sì» dico.
«Ilio è condannata?» L’ha detto con voce ferma, calma, sommessa.
«Sì.»
«Sarà presa con la forza o con l’inganno?»
"Per l’amor del cielo" penso "non puoi dirle anche questo!" «Con l’inganno» rispondo.
Elena, incredibilmente, sorride. «Odisseo» mormora.
Rimango zitto. Mi dico che forse, se non rivelo alcun particolare, le mie parole non modificheranno gli eventi.
«Paride sarà ucciso prima che Troia cada?» chiede Elena.
«Sì.»
«Per mano di Achille?»
"Niente particolari!" rumoreggia la mia coscienza. «No» rispondo. "Va’ al diavolo!"
«E il prode Ettore?»
«Muore» dico, sentendomi come un perverso giudice che condanna tutti all’impiccagione.
«Per mano di Achille?»
«Sì.»
«E Achille? Resterà vivo e tornerà a casa da questa guerra?»
«No.» "Il suo destino è segnato non appena uccide Ettore e lui l’ha sempre saputo… L’ha saputo da una profezia che ha portato con sé per anni come un cancro. Lunga vita o la gloria? Omero ha detto che era… è… sarà la decisione che Achille deve prendere. Ma, se la profezia è veritiera, se lui sceglie la lunga vita, sarà conosciuto solo come un uomo, non come il semidio che diverrà se uccide Ettore in battaglia. Ma lui ha la possibilità di scegliere. Il futuro non è già stabilito e immutabile!"
«E re Priamo?»
«Muore» dico, in un rauco bisbiglio. "Ucciso nel suo stesso palazzo, nel suo tempio privato a Zeus. Fatto a pezzi sanguinolenti, come una giovenca sacrificata agli dèi."
«E il figlioletto di Ettore, Scamandrio, che il popolo chiama Astianatte?»
«Muore» rispondo. Chiudo gli occhi per non vedere l’immagine di Pirro che getta dalle mura il bambino urlante.
«E Andromaca?» mormora Elena. «La moglie di Ettore?»
«Schiava» rispondo. Se Elena continua con questa litania di domande, impazzirò di sicuro. Andava tutto bene da lontano, da una posizione di scoliaste disinteressato che si limita a osservare. Ma ora parlo di gente che ho incontrato e conosciuto e… portato a letto. Mi accorgo con sorpresa che Elena non ha fatto domande sul proprio fato. Forse non vorrà mai sapere.
«E io morirò con Ilio?» chiede invece lei, con voce sempre calma.
Traggo un sospiro. «No.»
«Ma Menelao mi troverà?»
«Sì.» Mi sento come uno di quei giocattoli per prevedere il futuro che erano popolari quando ero ragazzino. Perché non le ho risposto come avrebbe fatto la palla nera del giocattolo? Sarebbe stato più simile all’Oracolo di Delfi… "Il futuro è nebuloso." Oppure: "Chiedi di nuovo". Sto forse facendo il pavone per questa donna?
Ormai è troppo tardi.
«Menelao mi trova, ma non mi uccide. Sopravvivo alla sua collera?»
«Sì.» Ricordo che Omero ne parla nell’Odissea: Menelao trova Elena nascosta nei quartieri di Deifobo, nel grande palazzo reale, vicino al tempio del Palladio, e il marito cornificato si getta su di lei, spada sguainata, più che intenzionato a uccidere questa bellissima donna. Elena si snuda i seni davanti al marito, quasi invitandolo a colpirla, come se volesse la morte; e allora Menelao lascia cadere la spada e bacia Elena. Non è chiaro se Deifobo, uno dei figli di Priamo, è ucciso da Menelao prima di questo fatto o dopo che lui…
«Ma mi riporta a Sparta?» mormora Elena. «Paride morto, Ettore morto, tutti i grandi guerrieri di Ilio morti o passati a fil di spada, tutte le grandi donne di Troia morte o trascinate via in schiavitù, la città stessa bruciata, le mura sfondate, le torri abbattute e fatte a pezzi, la terra cosparsa di sale perché mai più niente vi cresca… ma io rimango in vita e sono riportata a Sparta da Menelao?»
«Sì, una cosa del genere» dico. Una risposta che zoppica alle mie stesse orecchie.
Elena scende dal letto e, nuda, va alla terrazza che dà sulla corte. Per un minuto dimentico il mio ruolo di Cassandra e mi limito a guardare con una sorta di timore reverenziale i capelli scuri che le scendono sulla schiena, le natiche perfette, le gambe robuste. Elena sta nuda alla balaustra e, senza girarsi dalla mia parte, dice: «E tu, Hock-en-bear-eeee? I Fati ti hanno rivelato anche la tua sorte, mediante quel loro poema?».
«No. Non sono abbastanza importante per essere citato nel poema. Ma sono abbastanza sicuro di morire oggi.»
Elena si gira. Mi aspetto che pianga, dopo tutto ciò che le ho detto (ammesso che mi creda) e invece sorride lievemente. «Solo "abbastanza sicuro"?»
«Sì.»
«Morirai per l’ira di Afrodite?»
«Sì.»
«Ho percepito quell’ira, Hock-en-bear-eeee. Se s’incapriccerà di ucciderti, ti ucciderà.»
"Be’, è incoraggiante" penso. Rimango silenzioso per un poco. Dal vano della terrazza sul lato della città proviene un brusio. «Che cos’è?» chiedo.
«Le donne troiane implorano ancora Atena perché abbia misericordia e conceda la sua protezione divina, cantando e facendo sacrifici nel tempio a lei dedicato, secondo gli ordini di Ettore» dice Elena. Torna a darmi le spalle e guarda intensamente giù nella corte interna, come per trovare quel solitario uccello cinguettante.
"Troppo tardi per la misericordia di Atena" penso. Poi, senza rifletterci, dico: «Afrodite vuole che io uccida Atena. Mi ha dato l’Elmo di Ade e altri utensili proprio a questo scopo».
Elena gira di scatto la testa e anche nella scarsa luce vedo la sua espressione sconvolta, il suo pallore. È come se finalmente reagisse a tutte le mie terribili notizie profetiche. Nuda, torna dentro e si siede sul bordo del letto, dove me ne sto disteso, sorreggendomi al gomito.
«Uccidere Atena, hai detto?» bisbiglia. Non l’ho mai sentita parlare a voce così bassa.
Annuisco.
«Allora gli dèi possono essere uccisi?» chiede Elena, con voce così sommessa che riesco appena a udirla, a trenta centimetri di distanza.
«Penso che sia possibile» rispondo. «Solo ieri ho sentito Zeus dire ad Ares che gli dèi potrebbero morire.» E le racconto di Afrodite e Ares, delle loro ferite, del bizzarro luogo dove guariscono. Spiego che Afrodite emergerà oggi dalla vasca, forse è già fuori, perché l’Olimpo segue lo stesso ritmo giorno/notte di Ilio e anche lì ormai è già "domani".
«Sei in grado di andare sull’Olimpo?» mormora Elena. Pare assorta nei pensieri. A poco a poco ha cambiato espressione, da sconvolta a… che cosa? «Di andare avanti e indietro dall’Olimpo a Ilio ogni volta che ti pare?»
Esito. So di averle già detto troppo. "E se questa Elena fosse semplicemente la mia Musa morfizzata?" penso. No, non lo è. Non chiedetemi come lo so. E anche se lo fosse, me ne frego! «Sì» dico. Ora bisbiglio anch’io, anche se la servitù non è ancora sveglia. «Posso andare sull’Olimpo quando voglio e stare lì senza che gli dèi mi vedano.» A parte il solitario uccello illuso che sia già l’alba, nella città e nel palazzo regna un irreale silenzio. Ci sono guardie alla porta d’ingresso, lo so, ma non sento lo stropiccio di sandali né il rumore di lance sul lastricato. Le vie di Ilio, mai completamente silenziose, sembrano ora soffocate. Anche il salmodiare delle donne nel tempio di Atena è cessato.
«Afrodite ti ha dato i mezzi per uccidere Atena, Hock-en-bear-eeee? Un’arma divina?»
«No.» Non accenno all’Elmo di Ade e al medaglione TQ. Quegli oggetti non potrebbero mai uccidere una dea.
All’improvviso Elena stringe di nuovo il corto pugnale, lo tiene a qualche centimetro da me. "Dove lo aveva nascosto?" mi chiedo. "Come riesce a farlo comparire dal nulla?" Anche lei, come me, ha i suoi piccoli segreti, a quanto pare.
Il pugnale si avvicina. «Se ti uccido ora» bisbiglia Elena «cambierà il poema di Ilio che conosci? Il futuro… questo futuro… muterà?»
"Non è il momento d’essere sinceri, Tommy, ragazzo mio" mi ammonisce la parte razionale del cervello. Ma dico ugualmente la verità. «Non lo so. Non vedo come sarebbe possibile. Se è… destino… che io muoia oggi, immagino non abbia importanza se la mia morte sarà per mano tua o di Afrodite. E poi non sono un personaggio di questo dramma, sono solo un osservatore.»
Elena annuisce, ma pare ancora turbata, come se la domanda sulla mia morte fosse di poca importanza in un caso e nell’altro. Alza il pugnale, finché la punta quasi le tocca la ferma, candida carne sotto il mento. «Se mi tolgo la vita adesso, il poema cambierà?» chiede.
«Non vedo come il tuo gesto potrebbe salvare Ilio o cambiare il risultato della guerra» rispondo. Non è tutta la verità. Elena è una figura centrale dell’Iliade di Omero e non so se i greci resterebbero a finire la guerra, se lei si suicidasse. Per che cosa combatterebbero, morta Elena? "Gloria, onore, bottino" mi rispondo. Ma senza Elena come premio per Agamennone e Menelao e con Achille ancora a rimuginare nella sua tenda, il semplice bottino sarebbe sufficiente a mantenere in guerra le decine e decine di migliaia di altri achei? Ormai da quasi dieci anni saccheggiano isole e città costiere troiane. Forse si sono stufati e cercano una scusa… Non è per questo che Menelao aveva accettato il duello con Paride, per dirimere la questione, prima che Afrodite portasse via Paride? "Di nuovo nel suo letto, Elena e Paride a fare l’amore su questo stesso letto solo alcune ore fa" penso. Forse il suicidio di Elena porrebbe davvero fine alla guerra.
Lei abbassa il pugnale. «Da dieci anni penso al suicidio, Hock-en-bear-eeee. Ma ho troppa voglia di vivere e troppo poco amore per la morte, anche se merito di morire.»
«Tu non meriti di morire» protesto.
Sorride. «Ettore merita forse di morire? E suo figlio? E re Priamo, nei miei riguardi il più generoso dei padri? Tutte queste persone che senti risvegliarsi nella città meritano di morire? Gli stessi guerrieri, Achille e tutti gli altri che sono già scesi nel gelido Ade, meritano di morire perché una volubile donna alla fedeltà ha preferito passioni e vanità e rapimento? E le migliaia di donne troiane che hanno servito bene i loro dèi e i loro mariti, ma che saranno strappate alla loro casa e ai loro figli e vendute come schiave per causa mia? Meritano un simile destino, Hock-en-bear-eeee, solo perché ho scelto di vivere?»
«Tu non meriti di morire» ripeto, testardo. Ho ancora il suo odore sulla pelle, sulle dita, nei capelli.
«Va bene» dice Elena e infila il pugnale sotto il materasso. «Allora mi aiuterai a vivere e a restare libera? Mi aiuterai a fermare questa guerra? O almeno a cambiarne il risultato?»
«Cosa vuoi dire?» All’improvviso mi allarmo. Non ho alcun interesse a fare un tentativo per aiutare i troiani a vincere la guerra. E non potrei farlo nemmeno se ci provassi. Qui ci sono troppe forze in gioco, per non parlare degli dèi. «Elena, parlavo seriamente quando dicevo che non mi resta più tempo. Afrodite oggi uscirà dalla vasca di guarigione; anche se potrei tenermi nascosto agli altri dèi per qualche tempo, lei può trovarmi quando vuole. Anche se non mi uccide immediatamente per averle disubbidito, non sarei libero di agire nel breve tempo che mi resta come scoliaste.»
Elena scosta il lenzuolo che mi copre la parte inferiore del corpo. Adesso c’è più luce e la vedo meglio di quanto non l’abbia vista nel bagno la sera precedente. Elena sposta le gambe e si mette a cavalcioni su di me, una mano di piatto sul petto e l’altra più in basso, a cercare, a incoraggiare.
«Ascolta» dice, guardandomi da sopra il seno. «Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro.»
Lo prendo come un invito e cerco di entrare in lei.
«No, non ancora» mormora Elena. «Ascoltami, Hock-en-bear-eeee. Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro. E non mi riferisco a ciò che stai facendo in questo momento.»
Non mi è facile, ma mi trattengo quanto basta ad ascoltarla.
Un’ora e mezzo più tardi, il sole si è levato e la città torna a vivere; cammino per le vie, con la solita attrezzatura degli scoliasti, morfizzato come un lanciere della Tracia. Le vie sono affollate e piene di movimento, mercanti che aprono i banchi, animali spinti per la strada, bambini che scorrazzano, sussiegosi guerrieri che fanno colazione prima di uscire a uccidere.
Vicino alla piazza del mercato trovo Nightenhelser: è morfizzato in un dardanio di ronda, ma grazie alle lenti vedo chi è realmente. Nightenhelser fa colazione in una taverna all’aperto, che tutt’e due abbiamo già frequentato. Il mio collega alza gli occhi e mi riconosce.
Non scappo né uso l’Elmo di Ade per scomparire. Mi unisco a lui al tavolo sotto un basso albero e ordino pane, pesce essiccato e frutta.
«La nostra Musa ti cercava in dormitorio prima dell’alba» dice il corpulento Nightenhelser. «E vicino le mura, qui, stamattina. Chiedeva di te, chiamandoti per nome. Pare ansiosa di trovarti.»
«Hai paura di farti vedere in mia compagnia? Vuoi che me ne vada?»
Nightenhelser si stringe nelle spalle. «Tutti noi scoliasti viviamo tempo regalato. Cosa importa? Tempus edax rerum.»
Per troppo tempo ho pensato in greco e impiego un secondo a tradurre in latino. "Il tempo divora ogni cosa." Forse è vero, ma ne voglio di più. Spezzo il pane appena sfornato e mangio, stupito per il ricco sapore e per il gusto del dolce vino della colazione. Alla vista, all’olfatto e al gusto tutto pare più tonificante, più pulito, più nuovo e più bello, stamattina. Forse è merito della pioggia della notte. Forse di qualcos’altro.
«Hai addosso un profumo sospetto, oggi» dice Nightenhelser.
Sulle prime reagisco solo arrossendo (possono gli altri scoliasti sentire a naso i miei bagordi?) ma poi capisco di che cosa parla. Elena ha insistito perché facessi il bagno con lei, prima di andarmene. La vecchia schiava che ha diretto il trasporto di acqua calda nella vasca da bagno si chiama Etra, ho saputo, figlia di Pitteo, moglie di re Egeo e madre del famoso Teseo… sovrano di Atene e rapitore di Elena undicenne. Ricordo il nome Etra dai giorni dell’università, ma il mio docente, il dottor Fertig, un bravo studioso di Omero, sosteneva che il nome era stato pescato a caso dalla provvista epica: "Etra, figlia di Pitteo" di sicuro era suonato bene a Omero o a qualche poetico predecessore che aveva bisogno di un nome per una semplice schiava, diceva il dottor Fertig, e la madre del nobile Teseo non poteva certo essere la serva di Elena a Troia. Be’… sbagliato, dottor Fertig! Proprio mezz’ora fa, mentre oziavamo nudi nella vasca di marmo incassata nel pavimento, Elena ha detto che la schiava Etra era davvero la mamma di Teseo: i fratelli di Elena, Castore e Polluce, liberata la sorella dalla prigionia di Teseo, per punizione se l’erano portata via e Paride l’aveva condotta a Troia insieme con Elena.
«A cosa pensi, Hockenberry?» chiese Nightenhelser.
Arrossii di nuovo. Proprio in quel momento pensavo al morbido seno di Elena, visibile tra le bollicine, nel bagno. Mangiai un po’ di pesce e dissi: «Non ero sul campo, ieri sera. È accaduto qualche evento degno d’interesse?».
«Non molto. Solo il grande duello fra Ettore e Aiace. Solo la prova di forza che aspettavamo da quando le navi achee toccarono con la prua la spiaggia laggiù. Solo tutto il Libro settimo!»
«Oh, quello» dissi. Il Libro settimo era un entusiasmante duello fra Ettore e il gigante acheo, ma non accadeva niente! Nessuno dei due feriva l’altro, anche se Aiace era chiaramente il guerriero migliore; e quando la sera fu troppo scura per continuare il combattimento, Aiace ed Ettore stipularono una tregua, si scambiarono doni in armature e armi e tutt’e due le parti tornarono a bruciare i propri morti. Non mi ero perso niente d’importante, niente per cui rinunciare a un solo minuto con Elena.
«È successa una cosa strana» disse Nightenhelser.
Mangiai un pezzo di pane e aspettai.
«Sai che Ettore sarebbe dovuto uscire dalla città insieme con suo fratello Paride e tutt’e due avrebbero dovuto guidare i troiani e riprendere la battaglia. Omero dice che all’inizio degli scontri Paride uccide Menestio.»
«Sì?»
«E più tardi, ricordi quando il consigliere di re Priamo, Antenore, ammonisce i troiani a restituire Elena e tutti i tesori saccheggiati da Argo… a rendere tutto e lasciare che gli achei se ne vadano in pace?»
«Questo accade mentre Aiace ed Ettore si comportano da amici dopo non essere riusciti a uccidersi l’un l’altro, scambiandosi doni sul campo, giusto?» dico.
«Sì.»
«Ebbene, cosa c’è di strano?»
Nightenhelser posa il calice. «In teoria era Paride che rispondeva ad Antenore e incitava i troiani a non cedere Elena, e offriva la restituzione dei tesori in cambio della pace.»
«E allora?» dico, ma so dove vuole arrivare. A un tratto mi sento assalire dalla nausea.
«Be’, Paride non era qui, ieri notte: non è uscito con Ettore dalle porte Scee, non ha ucciso Menestio e non ha fatto proposte di pace.»
Annuisco e continuo a masticare. «E allora?»
«Allora è una delle più grosse discrepanze che abbiamo mai visto, no, Hockenberry?»
Devo scrollare le spalle di nuovo. «Non so. Nel Libro settimo gli achei costruiscono il muro di difesa e la trincea nei pressi della spiaggia, ma tu e io sappiamo che quelle difese erano lì fin dal primo mese dopo il loro arrivo. A volte Omero pasticcia con la cronologia.»
Nightenhelser mi guarda. «Può darsi. Ma l’assenza di Paride per confutare il suggerimento di Antenore a restituire Elena è strana. Alla fine re Priamo ha parlato al posto del figlio, dicendo d’essere sicuro che Paride non avrebbe mai restituito la donna, ma che avrebbe potuto rendere il tesoro. Ma senza Paride lì in persona, molti troiani nella folla borbottavano d’essere d’accordo. È la cosa più vicina alla pace che abbia visto in tutti gli anni trascorsi qui, Hockenberry.»
Mi sento tutto gelato. Il mio capriccio con Elena ieri notte, il mio lungo impersonare Paride, ha già provocato un cambiamento nel corso degli eventi. Se la Musa avesse conosciuto i particolari dell’Iliade (per fortuna non li conosce) avrebbe capito subito che avevo preso il posto di Paride nel letto di Elena.
«Hai riferito alla Musa la discrepanza?» chiedo con calma. In teoria Nightenhelser aveva terminato il turno di servizio al calare del buio. Poiché io ero assente, era l’unico scoliaste in servizio ieri sera. Era suo dovere fare rapporto su stranezze come quella.
Nightenhelser mastica lentamente l’ultimo pezzetto di pane. «No» dice alla fine.
Lascio uscire il fiato trattenuto. «Grazie.»
«Meglio andarcene» dice lui. La taverna comincia a riempirsi di troiani con le mogli, in attesa di un posto a sedere. Mentre metto sul tavolo alcune monete, Nightenhelser mi prende per il braccio. «Sei sicuro di sapere cosa fai, Hockenberry?»
Lo guardo negli occhi. Con voce ferma rispondo: «Assolutamente no».
Appena nella via, vado in direzione opposta a quella di Nightenhelser. Entro in un vicolo deserto, indosso l’Elmo di Ade e aziono il medaglione TQ.
Sulla cima del monte Olimpo è l’alba. I bianchi edifici e i verdi prati riflettono la ricca luce, qui meno forte. Mi sono sempre chiesto perché il sole, sul monte Olimpo e nei dintorni, sembri più piccolo che nel cielo di Ilio.
Con l’occhio della mente ho immaginato il posteggio dei cocchi accanto all’edificio della Musa ed è lì che mi sono trovato. Trattengo il fiato, mentre un cocchio scende a spirale dal cielo mattutino e atterra a neanche sei metri da me; ne scende Apollo, ma se ne va senza notarmi. L’Elmo di Ade funziona ancora.
Salgo sul cocchio e tocco la piastra di bronzo nella parte anteriore. Ho guardato con attenzione la mia Musa, quando ho sorvolato con lei il lago della caldera, l’altro giorno. Un pannello trasparente e luminoso compare qualche centimetro sopra la piastra di bronzo. Tocco alcune icone in sequenza, come ho visto fare a lei.
Il cocchio oscilla, si alza, oscilla di nuovo e trova l’equilibrio, mentre muovo il lucente regolatore virtuale di energia posto vicino ai quadranti. Lo giro a sinistra e il cocchio vira a sinistra, quindici metri sopra la vetta erbosa. Un dio che guardasse, vedrebbe un cocchio vuoto che vola da solo, ma non noto nessun dio nei paraggi.
Dall’altra parte del lago salgo un poco di quota e cerco l’edificio giusto. Eccolo là, proprio dietro la Grande Sala degli Dèi.
Una dea, che non riconosco, grida dai gradini d’ingresso dell’enorme edificio e altri dèi corrono fuori a vedere che cosa succede, ma è troppo tardi: ho individuato l’edificio, enorme, bianco, con la porta spalancata.
Ormai comincio a capire come si pilota il cocchio; scendo in picchiata a sei metri dal terreno e accelero verso l’edificio. Sollevo il lato sinistro del cocchio quasi perpendicolarmente al terreno (non cado, nella macchina c’è una sorta di gravità artificiale) e passo come un fulmine tra le gigantesche colonne, a sessanta, settanta chilometri all’ora.
L’interno dell’edificio è come lo ricordo: enormi vasche piene di gorgogliante liquido viola, verdi vermi che brulicano intorno agli dèi in cura che galleggiano privi di conoscenza. Il Guaritore, un gigantesco millepiedi con braccia metalliche e occhi rossi, si trova dall’altra parte della vasca di ricostruzione contenente Afrodite e si prepara, presumo, a tirare fuori la dea; gli occhi rossi guardano dalla mia parte e le molte braccia vibrano, mentre il cocchio si precipita nel silenzioso locale; ma il Guaritore non si trova fra me e il mio bersaglio. Accelero e proseguo, prima che lui o qualsiasi altro possa fermarmi.
Solo all’ultimo secondo decido di saltare giù, anziché restare sul cocchio. Sarà di sicuro il ricordo di Elena, della notte con Elena, del rinnovato piacere della vita in quelle ore con Elena.
Sempre invisibile grazie all’Elmo di Ade, salto dal cocchio, atterro pesantemente, sento qualcosa piegarsi, ma non spezzarsi, nella spalla destra, rotolo sul pavimento e mi fermo, mentre il cocchio vola dritto contro la vasca di ricostruzione, schianta plastica e acciaio e solleva a trenta metri schizzi di liquido viola. Qualcosa, un pezzo del cocchio o una grossa scheggia della vasca di vetro, taglia in due il gigantesco Guaritore millepiedi.
Afrodite rotola fuori della vasca, sul pavimento, in un’onda di liquido viola e una serpeggiante massa di verdi vermi moribondi. Le altre vasche, compresa quella che contiene Ares in un bozzolo di vermi, traballano, ma non si rompono e non si rovesciano.
Clacson, allarmi e sirene si scatenano e mi assordano.
Cerco di alzarmi, ma sento un tremendo dolore alla testa, alla gamba sinistra e alla spalla destra; ricado sul pavimento e striscio di lato, cercando di tenermi lontano dall’appiccicoso liquido viola. Non per paura di ciò che potrebbero farmi i prodotti chimici, ma perché nella pozza di liquido sul pavimento sarebbe visibile il contorno del mio corpo. Puntini neri mi ballano davanti agli occhi e capisco di essere sul punto di perdere i sensi. Dèi e robot librati a mezz’aria accorrono nella grande sala di ricostruzione.
Negli ultimi istanti prima di perdere conoscenza, vedo entrare a grandi passi il possente Zeus, manto ondeggiante, fronte aggrottata.
Qualsiasi cosa accadrà in seguito, accadrà senza di me. Poso la fronte sul freddo pavimento, chiudo gli occhi e mi lascio travolgere dalle tenebre.