46 ANELLO EQUATORIALE

La tana di Calibano era buia, umida e calda, nascosta fra le vecchie tubature e il sistema di fosse settiche sotto la città: una grotta naturale, riscaldata a temperature tropicali dalla decomposizione organica e popolata di zampettanti tritoni e piante di zucca. Galibano spezzò un velo di ghiaccio, nuotò in una conduttura interrata, emerse in una grotta lunga e stretta, appese a un gancio la rete con le prede, tagliò la rete, depose i tre umani storditi e passivi su tre rocce tre metri sopra una pozza gorgogliante e si sdraiò sopra un tubo ricoperto di felci lichenose. Mise i piedi a bagno nella fanghiglia, posò il mento sugli enormi pugni ed esaminò Savi, Harman e Daeman.

Quando il mostro li aveva catturati, Daeman si era pisciato addosso. La termotuta aveva assorbito l’umidità e si era asciugata quasi immediatamente, senza lasciare macchia; ma, sebbene terrorizzato, Daeman arrossì ripensandoci.

C’era aria, nella tana di Calibano, e gravità meno ridotta che non nella città vera e propria. La creatura strappò alle prede la maschera osmotica, con un gesto rapidissimo, muovendo il lungo braccio a ghermire con le dita munite di artigli, tanto che nessuno dei tre, nemmeno l’ultimo, ebbe il tempo di schivare o arretrare. Le rocce su cui i tre umani erano stati deposti sporgevano come viscide colonne dal nero stagno. L’aria tutt’intorno era densa e puzzava di fogna. Calibano la respirava come se fosse ambrosia e di tanto in tanto mostrava in un sorriso la chiostra di denti giallastri, come per schernire le prede. Parte del puzzo di pesce della grotta proveniva dalla creatura stessa.

Daeman aveva pensato che i calibani nel bacino del Mediterraneo fossero terrificanti, ma ora capiva che erano solo copie sbiadite di questo mostro spaventoso, il vero Calibano originale. Non era più grosso degli altri, ma infinitamente più ripugnante, con quel corpo tutto zanne e testicoli. A una prima occhiata, pareva goffo, sgraziato, ma aveva nuotato abbastanza agevolmente nella gelida aria rarefatta della città morta, usando come efficienti pagaie i grossi arti dalle dita palmate. Aveva afferrato con la bocca, di dimensioni superiori al normale, i capi della rete raccolta a sacco e li aveva saldamente tenuti fra i denti aguzzi, anche se Savi e gli altri due si dibattevano e scalciavano.

«Cosa vuoi da noi?» disse ora Savi, appollaiata come gli altri sulla colonna sporgente dallo stagno sotterraneo, mentre Calibano, comodamente disteso, li esaminava.

La vecchia, notò Daeman, aveva ricuperato la pistola, finita anch’essa nella rete: la stringeva in pugno, ma non prendeva la mira. "Spara!" pensò, rivolgendosi mentalmente a Savi. "Uccidi quel mostro!"

Calibano, stravaccato più in alto delle tre colonne di pietra, tanto vicino da inondarli con l’alito che puzzava della stessa decomposizione che ammorbava l’aria, sibilò: «Lui striscia giù a toccare e stuzzicare capelli e barba. E ora cade un fiore con un’ape dentro e ora un frutto da prendere al volo, mordere e sgranocchiare».

«È pazzo» bisbigliò Harman nella radio della termotuta.

Calibano sorrise. «Lui parla a se stesso, quanto vuole, toccando quell’altro, che la sua genitrice chiamò Dio. Perché parlare di Lui irrita… ah, mai Lui lo sapesse! E ora è tempo d’irritare.»

«Chi è "lui"?» chiese Savi in tono calmo, per una che si trovasse in una grotta puzzolente alla mercé di una belva. «Parli di te in terza persona, Calibano?»

«Lui è Lui» mormorò il mostro, steso bocconi sulla tubatura coperta di muschio «tranne quando Lui è Setebo!» Alla menzione del nome, si mise scompostamente a cavaldoni, allargò le gambe, si portò alla testa le braccia come per parare un colpo dall’alto. Una creatura piccola e squamosa corse via e sciaguattò nel fetido stagno. Intorno a loro si levarono vapori giallastri.

«Chi è Setebo?» chiese Harman, con un chiaro sforzo per mantenere la voce calma come Savi. «Setebo è il tuo padrone? Ti spiace chiamarlo, in modo che d lasci andare? Parleremo con lui.»

Calibano alzò la testa, con gli artigli grattò la tubatura, davanti e dietro, e latrò al tetto della grotta: «Setebo, Setebo e Setebo! Pensa, Lui abita nel gelo della Luna».

«La Luna?» disse Savi. «Questo tuo Setebo vive sulla Luna?»

«Pensa, Lui l’ha fatta, con il Sole per compagno» disse il mostro, facendo le fusa come un gatto. «Ma non le stelle; le stelle vennero in altro modo; Lui creò solo nubi, venti, meteore e cose simili; anche quest’isola e dò che qui vive e cresce e il sinuoso mare che la circonda e la delimita.»

«Ma di che cosa parla?» bisbigliò Daeman a Savi nella radio della termotuta. «È pazzo? Pare che parli di una sorta di dio.»

«Credo che parli proprio di un dio» rispose in un bisbiglio Savi. «Il suo. Ó forse di una creatura reale che lui considera un dio.»

«Chi o che cosa ha creato questo mostro?» bisbigliò Daeman. «Non Dio, di sicuro.»

A queste parole Calibano agitò e drizzò le orecchie, bizzarre e trasparenti. «Pensa, Sicorace, mia madre, mi creò, bocconcino mortale. Pensa, Prospero, il silenzioso servo della Quiete, rese Lui stesso servo del servo. Pensa, però, che Setebo, dalle molte mani come una seppia, facendo in modo che Lui stesso ispiri timore mediante ciò che fa, alza lo sguardo, primo, e percepisce di non potersi elevare a dò che è quieto e felice in vita, ma rende questo mondo un giocattolo per scimmiottare quello reale, queste buone cose per uguagliare quelle, come rose canine fanno uva.»

«Questo mondo giocattolo» ripeté Savi. «Ti riferisci alla città asteroide qui nell’anello-e, Calibano?»

Anziché rispondere, Calibano strisciò avanti come un gatto rivestito di scaglie pronto a spiccare il balzo, gli occhi gialli solo a un metro dalla loro testa. «Pensa, Lui stesso, conoscono Prospero?»

«Conosco Ariele, l’entità biosfera» disse Savi. «Ariele ci ha dato il permesso di andare ad Atlantide e di venire qui. Ci troviamo qui a buon diritto. Chiedi ad Ariele.»

Calibano si mise a ridere e si girò sulla schiena: solo gli artigli e i piedi palmati gli impedirono di rotolare giù dalla scivolosa tubatura e finire nella fetida acqua sottostante. «Pensa, Lui stesso come Prospero, tiene per il suo Ariele un uccello dalle lunghe zampe e dal becco a sacca, Lui ordina di andare a pesca e sputare subito i pesci; anche un ottuso animale marino che Lui prese al laccio, accecò e rese più o meno domestico, a cui tagliò le membrane fra le dita dei piedi palmati; e ora tiene chiuso il poveraccio in un buco della roccia e lo chiama… Calibano.»

«Ma di che diavolo parla?» disse Daeman. «Quel mostro è pazzo. Sparagli, Savi. Sparagli.»

«Credo di… di capire» bisbigliò Harman. «"Lui stesso" è Calibano. Parla davvero di sé in terza persona, Savi. La logosfera Prospero l’ha reso schiavo in qualche modo e si è servito di Ariele, la biosfera, per riuscirci.»

«E Calibano ha accecato una piccola creatura marina, forse una lucertola come quelle nella pozza qua sotto, e l’ha chiamata Calibano» disse Savi. La sua voce era strana, remota, quasi divertita, come se fosse stata ipnotizzata dalla creatura dagli occhi gialli distesa di fronte a loro. «Gioca a essere il suo padrone Prospero» soggiunse piano Savi.

Calibano rise e si grattò il fianco. Daeman vide le branchie, che si aprivano e si chiudevano come ripugnanti bocche grigie sopra le costole e appena sotto le ascelle. «Lui stesso sbirciò di notte, vide Prospero ai suoi libri incauto e altero, ora signore di quest’isola» sibilò Calibano. «Irritato, cucito un libro di larghe foglie lanceolate, ha scortecciato una bacchetta e le ha dato un nome; porta intanto come veste da mago l’occhiuta pelle di un agile gattopardo.»

«Gattopardo?» disse Harman.

«Sparagli, Savi» sibilò Daeman. «Sparagli ora, prima che ci uccida.»

«Calibano» disse Savi, in tono consolatorio «cos’è accaduto ai post-umani qui?»

Calibano cominciò a piangere. Muco gli colò dal muso. «Setebo» disse piano, guardando di nuovo verso il soffitto della grotta, come se ci fosse qualcuno in ascolto. «Setebo mi chiese di dare a questi umani tre buone gambe al posto di una, oppure staccargli l’altra e lasciarli lisci come un uovo. Non è stato un piacere, dammi retta, mortale, cacciare i post a uno a uno, bere brodaglia per mandare giù la loro carne, con il cervello divenuto vivo, facendo e guastando argilla a volontà. Così ordinò Lui. Così Lui!»

«Oddio» ansimò Savi. Si accasciò sull’alta colonna di pietra scabra. Pareva meditasse di gettarsi nella pozza sottostante.

«Cosa?» bisbigliò Daeman nella radio. «Cosa?»

«Calibano ha ucciso i post-umani» mormorò la vecchia. Pareva ancora più vecchia, alla luce della fognatura. «Su ordine di questo Setebo. O forse di Prospero. A quanto pare, Calibano li adora tutt’e due come dèi. Forse Setebo non esiste, forse lui adora solo Prospero.»

La creatura smise di tirare su col naso e si ravvivò, alzando l’ampia piega della bocca. «Pensa, ciò non mostra né il bene né il male in Lui, né gentilezza né crudeltà: Lui è potente e sovrano.»

«Chi?» chiese Savi. «Setebo o Prospero? Chi servi, Calibano?»

«Dice che Lui è terribile» ruggì Calibano, alzandosi ora sulle gambe posteriori. «Guarda le sue gesta come prova! Un solo uragano rovinerà la speranza indotta da sei mesi favorevoli. Lui nutre rancore verso di me, lo so.»

«Chi nutre rancore verso di te?» chiese Harman.

Daeman ritenne che era da folli tentare di parlare a quella pazza creatura. «Sparagli!» bisbigliò di nuovo a Savi. «Spara a quel mostro.»

Savi alzò un poco la pistola, ma continuò a non puntarla su Calibano.

«Pensa, Lui, che i post hanno portato fori di tarlo, Setebo ha portato i tarli» disse Calibano. «Prospero ha reso dèi le larve e Setebo ha fatto nella pietra la faccia di Prospero e ha creato zek per sistemarle bene. Mia madre dice che la Quiete ha fatto tutte le creature che Setebo infastidiva solo, ma allora, Lui osserva, chi le ha fatte deboli, quando la debolezza significa debolezza che lui potrebbe infastidire? Avesse inteso altro, mentre c’era, perché non fare occhi cornei, come quelli di Calibano, che nessuna spina potrebbe pungere? Oppure rivestire loro il cranio di piastra ossea contro la neve o la carne di scaglie sovrapposte tra giuntura e giuntura come la corazza di un orco? Sì… rovinargli il divertimento! Lui è il Solo, ora: solo Lui fa tutto.»

«Chi è il solo?» chiese Savi.

Calibano diede l’impressione di rimettersi a piangere. «La mia bestia accecata ama chiunque le metta carne sul muso. A Setebo piace così, lavorare, usare tutte le sue mani.»

«Calibano» disse Savi, sottovoce, lentamente, come se parlasse a un bambino «siamo stanchi e vogliamo andare a casa. Puoi aiutarci ad andare a casa?»

Ora il mostro parve concentrare lo sguardo su qualcosa di diverso dall’odio per altri e per se stesso. «Sì, milady, Calibano conosce la strada e fa gli auguri. Ma tu e Lui stesso conoscete i suoi modi e non dovete contrapporvi a Lui, sicuri del risultato.»

«Dicci come…» cominciò Savi.

«Lui fa lo stesso» disse Calibano, sempre più agitato, accucciato sulle natiche, le lunghe braccia penzoloni, nocche spinose che raschiavano muschio dalla tubatura. «Qui è il divertimento: scopri come o muori! Compiacere Lui e impedirlo? Cosa fa Prospero? Ah, se Lui mi dicesse come! Non Lui!»

«Calibano, se ci porti a casa, possiamo…» cominciò Savi. Aveva alzato un poco la pistola.

«Tutti devono morire» gridò Calibano. Tese le cosce e strusciò le nocche. «Pensa, Lui stesso, Prospero porta qui l’astuto Odisseo, ma Setebo lo costringe a vagabondare. Prospero manda grida notturne a Giove nei cieli, portando su Marte gli uomini vuoti, ma Setebo rimette tutto a posto con l’ira dei falsi dèi. Qui è il divertimento: scopri come o muori!» Saltò fino in punta alla tubatura, la circondò con le gambe, si lasciò penzolare e tirò su dalla melma una lucertola albina. Le avevano cavato gli occhi.

«Savi» disse Harman.

«Non tutti devono morire, no» gridò Calibano, piangendo e digrignando i denti. «Alcuni fuggono lontano, alcuni si tuffano, alcuni scappano sugli alberi; quelli alla sua mercé… ecco, lo compiacciono maggiormente quando… quando… bene, mai tentare due volte la stessa strada!»

«Sparagli, Savi» disse Daeman, non per radio, ma con voce forte e chiara che echeggiò nella grotta.

Savi si morsicò il labbro, ma alzò la pistola.

«Guarda!» gridò Calibano. «Si distende e ama Setebo! Con i denti si trapassa il labbro superiore.» Lasciò la lucertola cieca, che saltò verso la pozza sottostante, ma nel correre all’acqua colpì la roccia di Savi.

«Guarda le sue gesta come prova!» gridò Calibano e spiccò il balzo.

Savi sparò: varie centinaia di dardi di cristallo lo colpirono al petto, gli lacerarono le carni come carta. Calibano ululò, atterrò sulla roccia di Savi, avvolse la vecchia nelle braccia incredibilmente lunghe e con un deciso scatto di mascelle l’azzannò al collo. Savi non ebbe nemmeno il tempo di gridare prima di morire, con il collo quasi staccato dal busto, con il corpo inerte nelle braccia del mostro, con la pistola che le scivolò dalle dita ormai prive di forza, cadde nella palude sottostante e scomparve.

Perdendo sangue lui stesso, Calibano alzò le fauci insanguinate e gli occhi gialli verso le pareti della grotta e ululò di nuovo. Poi, tenendo sottobraccio il cadavere di Savi, si tuffò nell’acqua gorgogliante e sparì sotto lo strato di schiuma fetida.

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