Diomede, letteralmente portato in battaglia da Atena — da guerra vestita, di nubi ammantata, dei cavalli alla guida — corre ad assalire Ares.
Non ho mai visto niente di simile. Prima il potenziato figlio di Tideo, Diomede, ferisce Afrodite; ora chiama a singoiar tenzone lo stesso dio della guerra. Aristeia con un dio. Incredibile.
Ares, nel suo solito modo, solo stamani ha promesso a Zeus e ad Atena che avrebbe aiutato i greci; adesso, spronato dagli scherni di Apollo e dalla propria infida natura, ha cominciato ad assalire senza quartiere gli argivi. Qualche minuto fa ha ucciso Peritante, figlio di Ochesio, il più prode degli etoli, ed è impegnato a spogliarlo, quando alza gli occhi e vede venirgli addosso il cocchio guidato da Atena. La dea stessa è ora nascosta da un manto di tenebra. Ares non può non sapere che un dio o una dea guida il cocchio, ma non perde tempo nel tentativo di scoprire chi si nasconde nella nube d’invisibilità; è troppo ansioso di uccidere Diomede.
Il dio colpisce per primo, scaglia la lancia con la precisione che solo un dio possiede. La lancia sorvola il bordo del cocchio, dritta verso il cuore di Diomede, ma Atena protende la mano dalla nube di tenebra e con un colpo la devia. Per un istante Ares può solo fissare, incredulo, la lancia di divino ferro battuto continuare il volo e conficcare nel terreno sassoso la punta in lega di tungsteno.
Ora, mentre il cocchio passa rumorosamente, è la volta di Diomede; il greco si sporge al massimo e vibra in un affondo, con tutta la sua energia potenziata, la lancia di bronzo. L’involucro del campo di Planck diviso con Pallade Atena consente all’arma umana di trapassare prima il campo di forza del dio della guerra, poi la sua panciera riccamente ornata, poi le sue divine viscere.
Il grido di dolore di Ares, quando giunge, fa sembrare un bisbiglio il risonante urlo lanciato poco prima da Afrodite. Ricordo che Omero dice che lui urlava "come gridano alto novemila o diecimila guerrieri in campo, quando si azzuffano con furia". La descrizione, in realtà, è troppo modesta. Per la seconda volta in questa giornata di sangue i due eserciti impietriscono nel loro sinistro lavoro di macellai, colti da mortale paura a un simile divino rumore. Perfino il nobile Ettore, intento ora in niente di più nobile che aprirsi a colpi di spada la via fra carni achee per uccidere Odisseo in fuga, cessa l’assalto e gira la testa verso il tratto di terreno insanguinato dove Ares è stato ferito.
Diomede salta dal cocchio guidato da Atena per terminare il lavoro su Ares, ma il dio della guerra, torcendosi ancora nel divino dolore, si deforma, cresce, cambia, perde l’aspetto umano. L’aria intorno a Diomede e alla mischia di greci e di troiani in lotta per l’ormai dimenticato cadavere di Perifante si riempie all’improvviso di terriccio, detriti, brandelli di stoffa e di cuoio: Ares abbandona la forma di dio umano e diviene… altro. Dove un attimo prima si ergeva l’alto dio Ares, ora si erge un turbinante ciclone di nera energia al plasma la cui elettricità statica si scarica in fulmini casuali che colpiscono argivi e troiani insieme.
Diomede arresta l’attacco e si ritrae, facendosi piccolo, l’istinto sanguinario per il momento smorzato dalla furia del ciclone.
Ares scompare, si telequanta via, tenendosi con le mani insanguinate le viscere, e il campo di battaglia rimane quasi immobile, come se gli dèi avessero di nuovo fermato il tempo. Ma no, gli uccelli continuano a volare, la polvere si posa, l’aria si muove. L’immobilità è ora stupore reverenziale, niente di più, niente di meno.
«Hai mai visto una cosa simile, Hockenberry?»
Trasalisco alla voce di Nightenhelser. Avevo dimenticato che è qui. «No» rispondo. Restiamo in silenzio per un momento e poi la mortale battaglia riprende, dopo che la sagoma di Atena scompare dal cocchio di Diomede; allora mi allontano dal mio collega. «Ora mi morfizzo e vado a vedere come reagisce la famiglia reale sulle mura di Ilio» gli dico, prima di scomparire alla sua vista.
Mi morfizzo, infatti, ma è solo uno stratagemma per coprire la mia effettiva scomparsa. Nascosto dalla polvere e dalla confusione neEe file troiane, mi metto in testa l’Elmo di Ade, attivo il medaglione, mi telequanto dietro il dio ferito e seguo la sua pista quantica nello spazio distorto, fino a Olimpo.
Emergo dalla traslazione quantica non sui prati di Olimpo e neppure nella Sala degli Dèi, ma in un vasto locale che assomiglia più all’ambulatorio di una clinica medica del tardo ventesimo secolo che a qualsiasi edificio o ambiente interno che abbia mai visto su Olimpo. Gruppi di dèi e altre creature si aggirano in un ambiente che pare sterile; per mezzo minuto, dopo la traslazione di fase, trattengo il fiato (di nuovo) con un forte batticuore, mentre aspetto di capire se gli dèi e i loro tirapiedi sono in grado di rilevare la mia presenza.
Non la rilevano, è chiaro.
Ares si trova su una sorta di tavolo operatorio, attorniato da tre entità o creature, umanoidi ma non completamente umane, che si occupano di lui. Potrebbero essere robot, ma più tirati a lustro e d’aspetto organico e "alieno" di qualsiasi robot mai sognato nel mio tempo; uno ha messo in funzione l’apparecchiatura per fleboclisi e un altro passa sul ventre squarciato di Ares un brillante raggio di luce che pare ultravioletta.
Il dio della guerra tiene ancora le viscere nelle mani insanguinate. Sembra sofferente, impaurito e incazzato. Umano, insomma.
Lungo la smisurata parete bianca ci sono enormi vasche alte più di sei metri, piene di un gorgogliante liquido viola, vari tubicini e fili e… dèi: perfette figure umane, alte, abbronzate, in vari stadi di quella che potrebbe essere ricostruzione o decomposizione. Vedo cavità organiche aperte, ossa bianche, rossa carne striata, il nauseante lampo di crani nudi. Non riconosco le altre figure divine, ma nella vasca accanto a quella a me più vicina galleggia Afrodite, nuda, occhi chiusi, capelli allargati, corpo perfetto tranne che per la perfetta mano quasi staccata dal polso del perfetto braccio. Un tumultuoso mucchio di vermi verdi si muove a spirale intorno a legamenti, tendini, ossa: o divora o sutura o tutt’e due. Guardo da un’altra parte.
Zeus entra nella lunga sala e incede fra monitor medici privi di quadrante, davanti a robot con quella che pare carne sintetica, fra dèi che s’inchinano e arretrano per rendergli onore. Per un istante il dio gira la testa dalla mia parte: due occhi inquietanti, sotto sopracciglia grigie, si puntano su di me e capisco d’essere stato scoperto.
Aspetto il fulmine di Zeus. Non giunge. Zeus si gira (si direbbe quasi che sorrida) e si ferma davanti ad Ares, ancora seduto e piegato in due sul tavolo, fra macchine affaccendate e creature robotiche che si occupano delle cure.
Rimane davanti al dio ferito, a braccia conserte, con la toga ben drappeggiata, testa china, barba grigia pareggiata con cura, grigie sopracciglia cespugliose, petto nudo irradiante luce bronzea e forza, espressione fiera: più preside irritato che padre preoccupato, direi.
Ares parla per primo. «Padre Zeus, non t’infuria vedere tale umana violenza, tale sanguinosa opera? Siamo gli eterni, immortali dèi, ma, dio li maledica, patiamo ferite e insulti, grazie alle nostre stesse divine dispute e volontà in conflitto, ogni volta che mostriamo a questi puzzolenti mortali un briciolo di gentilezza. È già dura che ci tocchi combattere quei mortali figli di puttana resi pazzi furiosi dalla nanotecnologia, signore Zeus, ma dobbiamo anche combattere te!»
Ares prende fiato, fa una smorfia di dolore e aspetta. Zeus rimane in silenzio, continua a guardare in cagnesco, pare riflettere sulle parole del dio della guerra.
«E Atena!» ansima il dio ferito. «Hai lasciato che quella ragazza passasse il segno, o figlio di Crono. Da quando l’hai messa al mondo dalla tua stessa testa — quella figlia del chaos e della distruzione — gliele hai sempre date tutte vinte, non hai mai arginato la sua sconsideratezza. E ora lei ha convertito il mortale Diomede in una delle sue armi, l’ha spronato a infuriare contro noi dèi.»
Ares adesso è furibondo. Volano schizzi di saliva. Vedo ancora le spire grigiastre dei suoi intestini in ciò che pare sangue dorato.
«Prima ha incitato quel… quel… mortale a colpire Afrodite, ferendola al polso, spargendo sangue divino. Gli assistenti del Guaritore dicono che per riprendersi dovrà stare nella vasca un giorno intero. Poi Atena sprona Diomede ad assalire me — me, il dio della guerra — e il greco, potenziato dalla nanotecnologia, era abbastanza veloce da mandare anche me nelle vasche per giorni o settimane, forse addirittura rendere necessaria la resurrezione, se non fossi stato ancora più veloce di lui. Se con la punta della lancia mi avesse preso il cuore, sarei ancora laggiù a torcermi fra cadaveri umani, soffrendo più di quanto già non soffra, cercando di tenere duro, ma battuto da semplice bronzo mortale, debole come un ansimante fantasma dei giorni della nostra vecchia Terra e…»
«BASTA!» tuona Zeus e non solo ferma la diatriba di Ares, ma blocca ogni dio e robot presente. «Non ascolterò più lamenti a vanvera da te, Ares, bugiardo, ipocrita, infida cacchetta di passero, miserabile burla d’uomo, altro che dio.»
Ares batte le palpebre, sorpreso, e apre la bocca, ma (saggiamente, ritengo) decide di non interromperlo.
«Quanti lamenti e gemiti per un piccolo taglietto!» lo deride Zeus. Allarga le possenti braccia e protende una mano gigantesca, come per prepararsi a eliminare con un ordine il dio della guerra. «Ti odio più di tutti i vermi scelti per diventare dèi, quando fu l’ora del nostro Cambiamento, miserabile ipocrita. Tu, cuore di vigliacco, che ami la morte e le sinistre battaglie e il sanguinoso mulino della guerra. Hai la cattiveria di tua madre, Ares, e anche la sua violenza… a stento riesco a tenere Era al suo posto, lo ammetto, soprattutto quando decide di attuare un piccolo progetto che le sta a cuore, come massacrare gli achei fino all’ultimo uomo.»
Ares si piega in due, come ferito dalle parole di Zeus, ma sospetto che la causa del dolore sia in realtà il robot sferico librato a mezz’aria che gli ricuce l’addome con quella che pare una cucitrice industriale portatile.
Zeus non bada all’attività dei medici e passeggia avanti e indietro, giungendo a due metri da me, prima di girarsi e tornare di fronte ad Ares, che si mantiene ingobbito, con smorfie di dolore.
«Mi auguro che sia il suggerimento di tua madre, la spinta di Era, a farti soffrire così, o dio della guerra…» Colgo benissimo il divino sarcasmo nella voce di Zeus. «Preferirei che tu morissi…»
Ares drizza la testa, ora davvero sorpreso e terrorizzato.
Zeus scoppia a ridere nel vedere l’espressione del dio della guerra. «Non sai che possiamo morire? Morire al di là della ricostruzione nelle vasche o della resurrezione ricombinante? Possiamo, figlio mio, possiamo!»
Ares abbassa gli occhi, confuso. La macchina ha quasi terminato di rimettere nell’addome le divine viscere e di applicare nella carne del muscolo gli ultimi punti di sutura.
«Guaritore!» tuona Zeus e una creatura alta e decisamente non umana emerge da dietro le vasche gorgoglianti. La creatura è un millepiedi, più che una macchina, con braccia multiple, ciascuna con giunture multiple, e rossi occhi da mosca in cima a quattro metri e mezzo di corpo dai multipli segmenti. Cinghie e congegni e bizzarri frammenti organici pendono da finimenti attaccati al gigantesco corpo d’insetto del Guaritore.
«Sei sempre mio figlio» dice Zeus, con voce più dolce, il Signore del Tuono al sofferente dio della guerra. «Sei mio figlio come io sono figlio di Crono. A me tua madre ti ha partorito.»
Ares alza la mano insanguinata, quasi a voler afferrare il braccio di Zeus, ma questi non bada al gesto. «Ma credimi, Ares. Se tu fossi nato dal seme di un altro dio e, crescendo, ti fossi rivelato una così merdosa delusione, stai tranquillo che da un bel pezzo ti avrei gettato in quel profondo pozzo buio dove i Titani si torcono ancora oggi.»
Con un gesto invita il Guaritore a occuparsi di Ares, poi si gira ed esce a grandi passi dalla sala.
Arretro, come gli altri dèi presenti, mentre il gigantesco Guaritore prende Ares in cinque delle molte braccia, lo porta alla vasca vuota, lo collega a vari fili e tubicini e cavetti e lo lascia cadere nel gorgogliante liquido viola. Appena sprofonda anche col viso, Ares chiude gli occhi; da varie aperture nel vetro sciamano i vermi verdi e si mettono al lavoro sul ventre devastato del dio.
Decido che è ora di andarmene.
Comincio a imparare il ritmo del teletrasporto quantico con questo congegno a forma di medaglione. Mi basta raffigurare con chiarezza nella mente il posto dove voglio andare e il congegno mi telequanta lì. Richiamo alla mente il campus della mia università nell’Indiana, ultimi anni del ventesimo secolo. Il congegno non reagisce. Con un sospiro richiamo alla mente il dormitorio degli scoliasti alla base di Olimpo.
Il medaglione mi ci porta subito. Mi materializzo (sono sempre invisibile, grazie all’Elmo di Ade) ai piedi dei rossi gradini di fronte alla verde porta del casermone di pietra rossa.
È stata una giornata maledettamente lunga e voglio solo trovare la mia branda, togliermi di dosso tutta questa roba e farmi un buon sonno. Ci pensi Nightenhelser a fare rapporto alla Musa.
Come se il mio pensiero l’avesse evocata, la Musa compare, a soli due metri da me, e spalanca la porta del casermone. Resto sorpreso. La Musa non è mai venuta nei dormitori; siamo sempre noi a prendere l’ascensore di cristallo e salire da lei.
Protetto dalla tecnologia dell’Elmo di Ade che mi rende invisibile, la seguo nella sala comune.
«Hockenberry!» grida la Musa, con la potente voce da dea.
Uno scoliaste più giovane di me, Blix, uno studioso di Omero del ventiduesimo secolo assegnato al turno di notte nella piana di Ilio, esce dalla sua stanza al pianterreno, sfregandosi gli occhi, con aria istupidita.
«Dov’è Hockenberry?» chiede la mia Musa.
Blix scuote la testa e resta a bocca aperta. Si è appena alzato dal letto e ha addosso un paio di boxer e una maglietta macchiata.
«Hockenberry!» ripete con impazienza la Musa. «Nightenhelser dice che è andato a Ilio, ma lì non c’è. Non ha fatto rapporto. Hai visto passare qualche scoliaste del turno di giorno?»
«No, dea» risponde il povero Blix, chinando la testa in una sorta d’approssimazione della deferenza.
«Tornatene a letto» ordina la Musa, disgustata. Esce, guarda giù verso la spiaggia dove gli omini verdi tirano con fatica le teste di pietra dalla cava; poi si telequanta e lascia un vuoto che l’aria riempie subito con un lieve schiocco.
Potrei seguire la sua pista nello spazio di traslazione di fase, ma per quale motivo? Evidentemente vuole farsi restituire l’Elmo di Ade e il medaglione. Con Afrodite nella vasca, sono per lei una potenziale causa di danni… Scommetto che, oltre ad Afrodite, solo la Musa sa che sono stato attrezzato per fungere da spia, con quei congegni.
E forse perfino lei non sa come Afrodite intende usarmi…
"Spiare Atena e poi ucciderla" ricordo.
Perché? Anche se le aspre parole di Zeus a suo figlio Ares sono vere (ossia che gli dèi possono morire della Vera Morte) è possibile per un semplice mortale farli fuori? Diomede ce l’ha messa tutta, oggi. "E ha tolto di mezzo due dèi, che galleggiano nelle vasche, mentre vermi verdi lavorano su di loro."
Scuoto la testa. All’improvviso sono molto stanco e molto confuso. Il mio tentativo di sfidare gli dèi, che al momento ha solo un giorno, è quasi terminato. Domani a quest’ora Afrodite mi farà eliminare.
"Dove vado?"
Non posso nascondermi a lungo agli dèi. E se diventa chiaro che ci provo, la dea dell’amore si farà con la mia pelle una giarrettiera anche prima. Non appena si sarà rimessa, domani, mi vedrà… mi troverà.
Posso telequantarmi sul campo di battaglia ai piedi di Ilio e lasciare che la Musa mi trovi. Forse questa rimane l’alternativa migliore. Si riprenderà i congegni, ma forse mi lascerà vivere finché Afrodite non sarà tolta dalla vasca. Cos’ho da perdere?
"Un giorno." Afrodite starà nella vasca un giorno e nessuno degli altri dèi può vedermi o trovarmi finché lei non sarà tornata. "Un giorno."
In realtà mi resta un giorno di vita.
Con questo pensiero in mente, decido alla fine dove andare.