38 ATLANTIDE E ORBITA TERRESTRE

«Non capisco perché i post-umani chiamarono "Atlantide" il luogo dove siamo diretti» disse Harman.

Savi, alla guida del crawler, rispose: «Confesso di non avere mai capito granché delle azioni dei post».

Daeman, che masticava lentamente il suo pezzo dell’ultima tavoletta nutritiva, alzò gli occhi. «Che cosa c’è di strano nel nome "Atlantide"?»

«Nelle carte geografiche dell’Età Perduta» spiegò Harman «l’oceano Atlantico è la grande massa d’acqua a ovest di qui, al di là delle Mani d’Ercole. Noi siamo nel bacino che un tempo era il mar Mediterraneo. Non è l’Atlantico.»

«No?» disse Daeman.

«No.»

«E allora?»

Harman scrollò le spalle e rimase in silenzio, ma Savi disse: «È possibile che i post abbiano fatto una scelta eccentrica, quando hanno battezzato la loro base qui. Ma mi par di ricordare che uno scrittore dell’epoca precedente l’Età Perduta, un certo Plato o Platone, parlasse di una città o di un regno chiamato Atlantide in questa regione, quando ancora qui c’era l’acqua».

«Plato» rifletté Harman. «Ho incontrato riferimenti a lui nei libri che ho letto. E una volta ho visto anche un bizzarro disegno con questo nome. Un cane.»

Savi annuì. «Moltissimi significati dell’iconografia di quell’epoca sono perduti per sempre.»

«Cos’è un cane?» chiese Daeman. Bevve qualche sorso dalla bottiglia d’acqua di Savi. Un terzo della tavoletta nutritiva non era bastato a soddisfare la sua fame, ma nel crawler non c’era più cibo.

«Un piccolo mammifero molto comune come animale da compagnia» rispose Savi. «Non so perché i post hanno lasciato che si estinguesse. Forse il virus rubicon colpiva anche i cani.»

«Come i cavalli?» domandò Daeman. Fino a poco tempo prima aveva pensato che i grossi animali che incutevano paura, visti nel dramma del lino, fossero pura fantasia.

«Più piccoli e più pelosi dei cavalli» disse Savi. «Ma ugualmente estinti.»

«Perché i post hanno riportato in vita i dinosauri» chiese Daeman, con un vero brivido «e non quei fantastici cavalli del lino e i cani?»

«Come ho già detto, non è facile capire il comportamento dei post.»

Si erano svegliati poco dopo l’alba e avevano viaggiato in direzione nord-nordovest per tutto il giorno, rombando lungo la strada d’argilla rossa fra i campi ricchi di ogni sorta di colture che Daeman conosceva e di molte altre che lui non aveva mai visto. Due volte avevano incontrato un corso d’acqua poco profondo e una volta un ripido, profondo canale di permacemento, asciutto: il crawler, con le enormi ruote e i montanti bizzarramente articolati, non aveva avuto difficoltà ad attraversarli.

Nei campi c’erano servitori e Daeman si sentì rassicurato dal loro aspetto familiare, finché non si rese conto che quei servitori erano enormi, alti quattro metri o più, molto più larghi delle macchine cui era abituato; e più si inoltravano nel bacino, più colture e servitori avevano un aspetto alieno.

Il crawler procedeva rumorosamente fra alte pareti verdi di quella che Savi chiamò canna da zucchero, perché la strada non era abbastanza larga e le canne scricchiolavano sotto le ruote, quando Harman notò le creature umanoidi, di colore grigio verdastro, scivolare fra le canne, a destra e a sinistra. Si muovevano con tale fluidità e velocità da non disturbare le canne strettamente ammassate, come spettrali cadaveri che passassero fra gli alti steli.

«Calibani» disse Savi. «Non credo che attaccheranno.»

«Non avevi detto d’avere sistemato le cose in modo che non ci attaccassero?» ribatté Daeman. «Sai, quella roba D A nei capelli che hai rubato a Harman e a me.»

Savi sorrise. «Gli accordi con Prospero non sono mai certi. Ma penso che se i calibani avessero voluto fermarci, l’avrebbero già fatto ieri notte.»

«Il campo di forza intorno alla sfera non li terrebbe fuori?» chiese Daeman.

Savi si strinse nelle spalle. «I calibani sono più furbi dei voynix. Potrebbero riservarci delle sorprese.»

Daeman rabbrividì e tenne d’occhio i campi, cogliendo solo rapide immagini delle pallide creature. Il crawler si spostò dal viottolo fra i campi di canna da zucchero e risalì una bassa collina. La strada continuava fra larghi campi di grano invernale, steli alti non più di trenta o quaranta centimetri, terreni increspati dalla brezza che soffiava da ovest. I calibani, almeno una decina per lato, uscirono dai campi di canna da zucchero dietro di loro e continuarono a salti fra il grano, tenendosi a una sessantina di metri. All’aperto, correvano a quattro zampe.

«Non mi piace il loro aspetto» disse Daeman.

«Probabilmente ti piacerebbe ancora meno quello di Calibano» disse Savi.

«Credevo che quelli fossero calibani» replicò Daeman. Gli pareva che la vecchia non riuscisse a parlare sensatamente a lungo.

Savi sorrise, guidando il crawler sopra una fila di sei tubi che portavano chissà cosa da ovest a est e viceversa. «Si dice che i calibani siano cloni di Calibano, il terzo elemento, con Ariele e Prospero, della Trinità di Gaia.»

«Si dice…» ripeté Daeman, in tono sfottente. «Sono tutte dicerie, secondo te. Non sai niente per conoscenza di prima mano? Queste vecchie storie sono assurde.»

«Alcune, sì» riconobbe Savi. «E anche se ho vissuto millecinquecento anni e più, non significa che sia stata in giro per tutto il tempo. Perciò parlo anche di cose di seconda mano, sentite e lette.»

«Cosa significa che non sei stata in giro tutto quel tempo?» chiese Harman. Pareva molto interessato.

Savi rise, senza molta allegria, almeno così parve a Daeman. «Sono nanocostruita meglio di voi eloi» rispose. «Ma nessuno vive per sempre. O per quattordici secoli. O anche solo per mille anni. Passo gran parte della vita come Dracula, a dormire nelle crioculle a lungo termine in luoghi come il ponte Golden Gate. Salto fuori di tanto in tanto, cerco di scoprire cosa succede, tento di trovare un modo per sottrarre al raggio azzurro i miei amici. Poi torno al freddo.»

Harman si sporse verso di lei. «Quanti anni sei stata… sveglia?»

«Meno di trecento» rispose Savi. «E anche quelli bastano a stancare un corpo. E una mente. E uno spirito.»

«Chi è Dracula?» chiese Daeman.

Savi non rispose e continuò a guidare il crawler in direzione nord-nordovest.


Savi aveva detto che erano diretti in un posto a circa cinquecento chilometri dal tratto di linea costiera dal quale erano entrati nel bacino e che faceva parte di un paese che lei aveva chiamato Israele, parola mai sentita da Daeman. Ma anche le parole "cinquecento chilometri" significavano poco per Harman e niente per Daeman, dal momento che i viaggi in calessino o troika tirati da voynix non superavano mai un paio di chilometri. Per posti più lontani, Daeman si sarebbe faxato. Chiunque si sarebbe faxato.

Eppure a mezzogiorno avevano coperto metà di quella distanza; ma poi la strada di argilla rossa terminò, il terreno divenne più accidentato e il crawler fu costretto a procedere molto più lentamente, a volte con deviazioni di chilometri, prima di riprendere la giusta direzione. Savi la manteneva grazie a un piccolo strumento preso dallo zaino e controllava le distanze su una cartina tracciata a mano e molto sgualcita.

«Perché non usi la funzione palmare?» chiese Daeman.

«Qui, nel bacino, farnet e allnet funzionano, ma proxnet no» rispose Savi. «E il posto dove siamo diretti non compare nella banca dati di nessuna rete. Uso bussola, mappa e un antico strumento detto GPS. Però è efficace.»

«Come funziona?» chiese Harman.

«Per magia» rispose Savi.

Fu risposta sufficiente, per Daeman.

Continuarono in discesa, con il pendio concavo del bacino che si allontanava dietro di loro, le ordinate file di colture sostituite ora da campi di sassi, da burroni e di tanto in tanto da boschetti di bambù o di alte felci. I calibani non erano in vista, ma si era messo a piovere, poco dopo essere entrati nella zona accidentata, e quelle creature si potevano anche trovare appena al di là della cortina di pioggia.

Il crawler oltrepassò bizzarri manufatti: gli scafi di numerose navi di legno e di ferro, una città di colonne ioniche crollate, antichi oggetti di plastica che luccicavano in sedimenti grigi, le ossa sbiancate di numerose creature marine e parecchie grandi cisterne arrugginite che Savi chiamò "sottomarini".

Nel pomeriggio la pioggia diminuì un poco e a nordest comparve una mesa. Era elevata e ampia, ondulata anziché con dei picchi, più montagna che mesa, verde in cima, bordata di precipizi ripidi e percorsi da rivoli.

«È la nostra meta?» chiese Daeman.

«No» rispose Savi. «Quella è Cipro. Vi perdetti la verginità, millequattrocentottantadue anni il prossimo martedì.»

Di nascosto Daeman scambiò con Harman un’occhiata. Tutt’e due ebbero il buonsenso di non fare commenti.

Nel tardo pomeriggio il terreno divenne più basso e acquitrinoso e i campi di colture cominciarono a comparire ai lati di un’altra strada accidentata di argilla rossa. Servitori dalla forma insolita lavoravano nei campi, ma nessuno alzò gli occhi a guardare il crawler che passava pesantemente. Molte macchine, pareva, non avevano occhi. Una volta trovarono la strada bloccata da un fiume largo almeno duecento metri e abbastanza profondo. Savi sigillò il finestrino, chiudendo fuori l’aria fresca di cui godevano, si assicurò che il campo di forza della sfera fosse in funzione e spinse il crawler giù dalla riva. L’acqua era alta dodici metri o più, al centro del canale, e perfino i fari del crawler avevano difficoltà a penetrare nei sedimenti fangosi e nel buio. La corrente era più forte di quanto Daeman non avrebbe immaginato per un fiume così largo e profondo e il crawler fu sballottato violentemente, tanto che Savi azionò i comandi virtuali e lottò per mantenere il veicolo nella giusta direzione. Daeman pensò che una macchina con ruote più piccole, montanti meno flessibili o motore meno potente sarebbe stata portata via, verso ovest.

Quando emersero sulla riva nord, con il crawler che lanciava fango a dieci metri dietro di loro e l’acqua che ruscellava giù dai montanti come una cascata, Harman disse: «Non sapevo che il crawler andasse anche sott’acqua».

«Nemmeno io» rispose Savi. Deviò fra nord e nordovest e proseguì il viaggio.

Poco dopo comparvero i primi costrutti d’energia e Harman li notò subito.

Il primo congegno luccicava e si spostava una trentina di metri a sinistra della strada d’argilla, in una zona aperta, al di là di un boschetto di bambù. Savi fermò il veicolo, per uscire e guardare da vicino; Daeman era diffidente ad allontanarsi dal crawler, anche se da parecchie ore non avevano più visto calibani. Ma Harman era intenzionato a dare un’occhiata e Daeman non voleva restare nella sfera da solo, così finì per seguire gli altri due giù per la scaletta e nel campo, verso l’oggetto luccicante. Gli parve strano camminare di nuovo, dopo tante ore passate da seduto.

Il primo costrutto d’energia era piccolo, circa sei metri per tre, giallo e arancione, grosso modo sferico, con mobili vene verdi, pseudopodi che spuntavano dalle parti superiore e inferiore e dalle estremità, forme che si agglomeravano in sagome proprie e poi erano riassorbite dalla massa centrale. L’oggetto si librava a circa un metro dal suolo e Daeman non si volle avvicinare a meno di venti passi, anche se Savi e Harman vi si accostarono.

«Che cos’è?» chiese Harman, la cui testa e le spalle scomparvero per un minuto dietro la cosa lentamente fluttuante.

«Siamo alla periferia di Atlantide» disse Savi «anche se distiamo ancora un centinaio di chilometri. I post costruirono con quel materiale le loro stazioni a terra.»

«Che materiale?» disse Harman. Tese la mano verso l’ovoide giallo. «Posso toccarlo?»

«Alcune forme danno la scossa. Altre no. Nessuna uccide. Prova. Non ti fonderà la mano.»

Harman posò le dita sulla forma curva e lucente. La mano scomparve all’interno. Quando lui si affrettò a ritirarla, grumi liquidi gialli e arancione gli gocciolarono dalle dita e poi tornarono in volo alla sagoma. «Fredda» disse Harman. «Molto fredda.» Piegò le dita e trasalì.

«In pratica è una sola grossa molecola» disse Savi. «Anche se non so come sia possibile.»

«Cos’è una molecola?» gridò Daeman. Nel veder scomparire la mano di Harman, era indietreggiato di qualche passo e ora doveva alzare la voce per farsi sentire. Continuava anche a guardarsi alle spalle. Savi aveva la pistola nella cintura, ma il boschetto di bambù era troppo vicino perché lui si sentisse a suo agio. Era quasi buio.

«Le molecole sono le piccole parti di cui è fatta ogni cosa» disse Savi. «Non si possono vedere senza lenti speciali.»

«Quella lì la vedo benissimo» disse Daeman. A volte, pensò, parlare con Savi era come parlare con un bambino, anche se lui non aveva grande esperienza di bambini.

I tre tornarono al crawler. Il sole intenso della sera scomponeva la luce sulla sfera passeggeri e faceva brillare gli alti montanti snodati. La parte superiore degli stratocumuli, lontano a ovest, verso l’altura detta Cipro, rifletteva la luce dorata.

«Atlantide è fatta in gran parte di queste macromolecole di energia congelata» disse Savi. «Un esempio dei casini quantici che i post facevano in continuazione. Vi è mischiato del vero materiale, che gli scienziati dell’Età Perduta chiamavano "materia esotica", ma non so in quale percentuale. Non so neppure come funziona. So solo che rende di forma mutevole le loro città, stazioni, qualsiasi cosa siano, entrando in fase con la nostra realtà quantica e uscendone.»

«Non capisco» disse Harman, anticipando Daeman che già provava l’urgenza di dirlo.

«Capirete da soli abbastanza presto. Dovremmo scorgere la città, da quella grande altura all’orizzonte. Saremo lassù più o meno quando farà buio.»

Salirono nel crawler e si sedettero. Ma prima che Savi mettesse in moto il grosso veicolo, Harman disse: «Sei già stata qui». Non era una domanda.

«Sì.»

«Ma prima hai detto di non essere mai stata negli anelli orbitali. Per questo sei già venuta qui?»

«Sì» ammise Savi. «Penso ancora che la risposta per liberare i miei amici dal raggio di neutrini si trovi lassù.» Mosse la testa verso gli anelli equatoriale e polare, vividi nel cielo del tramonto.

«Ma l’altra volta non ci sei riuscita» disse Harman. «Perché?»

Savi si girò sul sedile e sorrise. «Ti dirò perché e come ho fallito se mi dirai perché in realtà vuoi andare lassù. Perché hai trascorso armi a cercare un modo per andare sugli anelli.»

Harman continuò a fissarla per un minuto, poi distolse lo sguardo. «Sono curioso» rispose.

«No» ribatté Savi. Aspettò.

Harman tornò a guardarla e Daeman capì di non averlo mai visto così emozionato. «Hai ragione» sbottò Harman. «Non si tratta di curiosità. Voglio trovare lo spedale.»

«Per vivere più a lungo» concluse piano Savi.

Harman serrò i pugni. «Sì. Per vivere più a lungo. Per continuare a esistere oltre la fottuta ultima Ventina. Perché sono avido di vivere. Perché voglio che Ada abbia mio figlio e voglio essere lì a vederlo crescere, anche se i padri non fanno cose del genere. Perché sono un avido bastardo… avido di vita. Contenta?»

«Sì» disse Savi. Guardò Daeman. «E quali sono le tue ragioni per partecipare a questo viaggio, Daeman Uhr

Daeman si strinse nelle spalle. «Salterei a casa in un secondo, se qui vicino ci fosse un portale fax.»

«Non ce ne sono. Mi spiace.»

Daeman non badò al sarcasmo e disse: «Perché ci hai condotto qui, vecchia? Ci sapevi venire anche da sola. Sapevi dove trovare il crawler. Perché portare noi?».

«Giusta domanda» constatò Savi. «L’ultima volta che sono venuta ad Atlantide, sono arrivata a piedi. Da nord. Un secolo e mezzo fa. E ho portato con me due eloi… scusa, è un termine insultante. Ho portato con me due giovani donne. Erano curiose davvero.»

«Cos’è accaduto?» chiese Harman.

«Sono morte.»

«Come?» chiese Daeman. «I calibani?»

«No. I calibani uccisero e divorarono l’uomo e la donna che vennero con me la volta precedente, quasi tre secoli fa. A quel tempo non sapevo come mettermi in contatto con la logosfera Prospero, non sapevo niente del DNA.»

«Perché venite sempre in tre?» chiese Harman.

Daeman lo ritenne uno strano quesito. Stava per domandare maggiori particolari sui defunti compagni di viaggio. La vecchia si riferiva a morte permanente? O a semplice morte riparabile nello spedale?

Savi rise. «Fai delle buone domande, Harman Uhr. Presto capirai. Capirai perché sono venuta con altre due persone, dopo la mia prima visita da sola ad Atlantide, più di un millennio fa. E non solo ad Atlantide, ma anche ad alcune altre loro stazioni. Sull’Himalaia. Nell’isola di Pasqua. Una al polo sud. Quelli sì che erano viaggi divertenti, perché un sonie non può entrare in un raggio di cinquecento chilometri da ogni stazione.»

Daeman non la seguiva più. Lui voleva maggiori particolari sulle vittime uccise e divorate.

«E non hai mai trovato un’astronave, uno shuttle, per andare lassù?» chiese Harman. «Malgrado tutti i tentativi?»

«Non ci sono astronavi» disse Savi. Accese i comandi virtuali, inserì bruscamente la marcia e guidò il veicolo fra nord e nordovest, mentre il sole inondava di rosso tutto il cielo occidentale.


La città dei post-umani si estendeva per chilometri sul letto marino asciutto, con lucenti torri di energia che si alzavano e ricadevano per centinaia di metri. Il crawler passò lentamente fra obelischi di energia, sfere fluttuanti e scalinate di energia rossa che non portavano da nessuna parte, rampe azzurre che comparivano e scomparivano, piramidi azzurre che si ripiegavano su se stesse, un gigantesco toro verde che si muoveva su e giù lungo gialle barre pulsanti e innumerevoli cubi e coni colorati.

Quando Savi si fermò e aprì il portello scorrevole, perfino Harman parve esitare. Savi controllò che i suoi compagni avessero indossato le termotute e prese dal portautensili del crawler tre maschere a osmosi.

Ormai era quasi buio, le stelle si erano unite agli anelli in rotazione nel cielo di un viola quasi nero. Il bagliore della città di energia illuminava, per più di un chilometro in ogni direzione, il letto marino e i campi coltivati. Savi condusse gli altri due su per una scalinata rossa. I gradini della macromolecola ressero il loro peso e Daeman ebbe l’impressione di camminare su una gigantesca spugna.

A una trentina di metri sopra il letto marino la scalinata terminò in una piattaforma nera di un metallo scuro e opaco che non rifletteva la luce. Al centro della piattaforma quadrata c’erano tre poltrone di legno che parevano molto antiche, con un alto schienale e un sedile imbottito, rosso. Le poltrone, equidistanti, erano disposte intorno a un foro nero al centro della piattaforma nera, a circa tre metri l’una dall’altra, rivolte verso l’esterno.

«Sedetevi» disse Savi.

«È uno scherzo?» replicò Daeman.

Savi scosse la testa e occupò la poltrona rivolta a ovest. Harman si sedette. Daeman percorse in tondo la piattaforma, tornò alla poltrona rimasta vuota. «E ora che facciamo? Dobbiamo aspettare qui che succeda chissà cosa?» Guardò l’alta torre gialla che si ergeva per una trentina di metri lì vicino, il cui materiale d’energia si ridisponeva continuamente come una nube gialla rettangolare.

«Siedi e vedrai» disse Savi.

Daeman si accomodò cautamente. La spalliera della poltrona e gli spessi braccioli presentavano complicati intagli; nel bracciolo sinistro c’era un cerchio bianco e nel destro uno rosso. Daeman non toccò nessuno dei due.

«Quando avrò contato fino a tre» disse Savi «premete il pulsante bianco. Quello di sinistra, Daeman, se sei daltonico.»

«Non sono daltonico, maledizione.»

«Bene. Uno, due…»

«Un momento, un momento!» disse Daeman. «Cosa mi succede se premo il cerchio bianco?»

«Proprio niente» rispose Savi. «Ma dobbiamo premerlo nello stesso istante. Lo scoprii quando venni qui da sola. Pronti? Uno, due, tre.»

Tutti e tre premettero il pulsante bianco.

Daeman schizzò dalla poltrona e corse al bordo della piattaforma nera e poi di una piattaforma rossa, trenta passi più in là, prima di girarsi a guardare. Era rimasto assordato dal getto di energia dietro la poltrona. «Merda santa!» gridò, ma i due ancora in poltrona non avrebbero potuto sentirlo.

Era come un fulmine, pensò Daeman. Un bruciante getto di energia, del diametro di un metro, che sgorgava dal foro al centro del triangolo di poltrone e saliva nel cielo buio. Salì, salì sempre più in alto, poi s’incurvò verso ovest come un impossibile filamento al calor bianco e descrisse un arco, finché l’estremità non scomparve alla vista; ma la parte finale era sempre visibile e si muoveva, come se il fulmine fosse collegato a…

Era davvero collegato — capì Daeman, con un diluvio di paura che rischiò di fargli svuotare l’intestino — all’anello-e in movimento migliaia di chilometri più in alto. Collegato a una delle stelle, a una delle luci mobili, che ora correvano da ovest a est in quell’anello.

«Torna indietro!» continuava a gridare Savi per superare il crepitio e il rombo del filamento d’energia.

Daeman impiegò diversi minuti a tornare, a raggiungere la poltrona vuota, schermandosi gli occhi, con la sua ombra e quella della poltrona proiettate per quindici metri sul tetto piatto nero e rosso dalla luce accecante e crepitante. In seguito non seppe mai spiegare, nemmeno a se stesso, come e perché fosse tornato alla poltrona e perché avesse fatto ciò che aveva fatto dopo.

«Al tre premete il cerchio rosso» gridò Savi. Aveva i capelli ritti, che le frustavano la testa come corti serpenti. Per farsi udire, doveva urlare e vincere il fragore dell’energia. «Uno, due…»

"No, non posso farlo" si ripeteva Daeman, come una litania. "Non lo farò proprio."

«Tre!» gridò Savi. Premette il pulsante rosso. Harman premette il pulsante rosso.

"No!" pensò Daeman. Ma premette con forza il cerchio rosso.

Le tre poltrone di legno saettarono verso il cielo, ruotando intorno al crepitante, mutevole ombelico del fulmine, sfrecciando in alto con tale velocità che un bang sonico echeggiò sul fondo marino, facendo vibrare sugli ammortizzatori il crawler. Un secondo più tardi, meno di un secondo, le tre poltrone furono fuori vista, in alto, mentre il filo di pura energia bianca si torceva e si piegava e si arcuava per seguire i punti di luce che correvano a tutta velocità nell’anello orbitale equatoriale.

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