Zeus è arrabbiato. Ho già visto Zeus arrabbiato, ma stavolta è molto, molto, molto arrabbiato.
Quando il padre degli dèi entra maestosamente nella semidistrutta sala di guarigione, osserva i danni, fissa il pallido corpo di Afrodite disteso in un nido di vermi verdi che si torcono sul pavimento bagnato e si gira nella mia direzione… sono sicuro che mi vede, che trapassa con lo sguardo il potere d’invisibilità dell’Elmo di Ade e mi vede! Ma anche se mi fissa per parecchi secondi e batte le palpebre su quei suoi occhi glaciali come se fosse sul punto di prendere una decisione, distoglie di nuovo lo sguardo e a me, Thomas Hockenberry, ex professore dell’Indiana University e, più di recente, ex occupante del letto di Elena di Troia, è permesso di continuare a vivere.
Ho brutti tagli al braccio destro e alla gamba sinistra, ma niente di rotto; ancora nascosto dall’Elmo di Ade alle decine di dèi che accorrono nella sala di guarigione, mi allontano dall’edificio e mi telequanto nell’unico posto cui riesco a pensare, a parte la camera da letto di Elena, dove posso stare nascosto e ricuperare: i dormitori degli scoliasti ai piedi di Olimpo.
Per vecchia abitudine vado nel mio stanzino e mi lascio cadere sul letto, ma tengo in funzione l’Elmo di Ade e dormicchio a spizzichi. È stata una lunga giornata infernale, notte e mattino compresi. L’Uomo Invisibile dorme.
Mi sveglio al rumore di grida e di tuoni al piano di sotto. Mi precipito nel corridoio. Passa di corsa lo scoliaste Blix (in realtà sono quasi travolto, perché a lui sono invisibile) e spiega col fiatone a un altro scoliaste, Campbell: «La Musa è qui e sta ammazzando tutti!».
È vero. Mi rannicchio in un angolo della scalinata, mente la Musa (la nostra Musa, quelle che Afrodite ha chiamato Melete) abbatte i pochi scoliasti rimasti in vita nei dormitori in fiamme. La dea scaglia dalle mani saette di pura energia… cliché fritto e rifritto, ma molto efficace su semplice carne umana. Blix è condannato e non c’è niente che possa fare o escogitare per lui o per gli altri.
"Nightenhelser" penso. Il flemmatico scoliaste è stato l’unico mio vero amico negli ultimi anni. Ansando, corro nella sua stanza. Il marmo è sfregiato, il legno è in fiamme, il vetro della finestra è fuso, ma non c’è alcun cadavere carbonizzato come quelli sparsi nei corridoi e nelle salette. Nessuno di quei cadaveri mi è sembrato abbastanza grosso da appartenere al massiccio Nightenhelser. All’improvviso odo grida di morte dal secondo piano, poi silenzio, a parte il crescente ruggito delle fiamme. Guardo da una finestra e vedo la Musa passare volteggiando nel cocchio, cavalli olografici al gran galoppo. Sull’orlo del panico, tossendo per il fumo (se la Musa fosse ancora nei dormitori ora mi sentirebbe) mi costringo a visualizzare Ilio e la taverna dove ho visto per l’ultima volta Nightenhelser. Aziono il medaglione TQ e me la svigno.
Nightenhelser non è nella taverna dove abbiamo fatto colazione stamattina. Passo sul campo di battaglia: Nightenhelser non è nel solito posto sulla cresta che sovrasta le linee troiane. Trovo appena il tempo di notare che Ettore e Paride guidano con successo le truppe troiane in un attacco contro gli argivi in fuga e mi telequanto in un posto ombreggiato dietro le linee greche, vicino al fossato e alla fila di picchetti, dove in passato mi sono imbattuto nel mio amico.
Nightenhelser è lì, morfizzato in Dolope, figlio di Clito, un acheo cui resta qualche giorno di vita, prima di cadere per mano di Ettore, se Omero ha ragione. Senza prendermi la briga di morfizzarmi in una figura che non sia il goffo Hockenberry, mi tolgo l’Elmo di Ade e corro incontro al mio amico.
«Hockenberry, cosa…» dice Nightenhelser, sconvolto dal mio comportamento poco professionale e dalla reazione di altri achei nei pressi. Attirare l’attenzione su di sé è l’ultima cosa che uno scoliaste vuole. A parte, forse, essere incenerito da una Musa vendicativa. Non ho la minima idea del perché la nostra Musa oggi spazzava via tutti gli scoliasti, ma sospetto d’essere stato proprio io a causare quella strage d’innocenti.
«Dobbiamo andarcene via di qui» dico, gridando per superare il frastuono di rinforzi in arrivo, di nitriti di cavalli, di rombo di cocchi. Da quel polveroso punto d’osservazione pare che l’intero centro delle linee greche abbia ceduto.
«Ma cosa dici? Oggi è una giornata importante. Ettore e Paride stanno per…»
«’Fanculo Ettore e Paride!» dico. Non in greco.
La Musa si è materializzata in alto sopra le linee troiane dove Nightenhelser e io spesso prendiamo posizione, aiutata da un’altra Musa che guida il cocchio mentre lei si sporge a esaminare con la vista potenziata le truppe. Nemmeno morfizzati noi scoliasti mortali ci salveremmo, oggi.
Quasi a dimostrarlo, la Musa detta Melete, la "mia" Musa, alza le mani e scaglia verso terra un raggio di energia coerente che colpisce un fante troiano di nome Dio, che secondo Omero dovrebbe essere vivo per essere comandato a bacchetta nel Libro ventiquattresimo, ma che muore oggi in un lampo di fuoco e in un turbine di fumo e di calore. Altri troiani si ritraggono, alcuni fuggono verso la città, perché non capiscono l’ira della dea in un giorno di vittoria ordinato da Zeus; ma Ettore e Paride sono quattrocento metri a sudovest, guidano la carica e nemmeno si girano a guardare.
«Quello non era Dio» ansima Nightenhelser. «Era Houston.»
«Lo so» dico, riportando al normale la vista potenziata. Houston era lo scoliaste più giovane e l’ultimo arrivato. Gli avevo appena rivolto la parola. Probabilmente oggi si trovava fra le linee troiane perché io ero assente.
Il cocchio della Musa vira bruscamente e vola dritto su di noi. Non penso che la porca Musa ci abbia già visto, ci troviamo fra centinaia di uomini e cavalli in movimento, ma ci vedrà in pochissimi secondi.
Non so che cosa fare. Posso mettermi l’Elmo di Ade e scappare di nuovo come un codardo, lasciando Nightenhelser a morire come Blix e gli altri, uccisi per colpa mia. Il cappuccio di cuoio e metallo non può nascondere entrambi alla visione divina della dea. "Possiamo scappare verso le nere navi" penso. Ma so già che non faremmo venti metri.
Il cocchio si abbassa e si ammanta in modo da non essere visibile ai greci al contrattacco e ai troiani. Con la nostra vista potenziata, Nightenhelser e io lo vediamo arrivare.
«Che diavolo fai?» grida Nightenhelser. Lascia cadere il bastone registratore, mentre lo circondo con le braccia e una gamba, come un fante striminzito che voglia stuprare quel ciccione d’un orso.
Tenendo il braccio intorno al robusto collo di Nightenhelser, prendo il medaglione e lo uso.
Non so se funzionerà. Non dovrebbe. Il medaglione è chiaramente fatto per teletrasportare solo la persona che lo tiene al collo. Ma quando mi telequanto, i vestiti vengono con me; e più di una volta ho portato varie cose da un posto all’altro nello spazio di Planck, perciò forse il campo quantico creato per il teletrasporto include gli oggetti a contatto col mio corpo o circondati dalle braccia.
"Già, che diavolo faccio?" penso. Il tentativo vale la pena.
Ci materializziamo nel buio, rotoliamo giù per un pendio e ci stacchiamo. Frenetico, mi guardo intorno per stabilire dove siamo. Non ho avuto il tempo di visualizzare correttamente la destinazione, mi sono limitato a desiderare d’essere altrove e a telequantarmi… da qualche parte.
Dove?
C’è chiaro di luna, quanto mi basta per vedere che Nightenhelser mi fissa, allarmato, come per paura che gli salti di nuovo addosso da un momento all’altro. Senza badargli, guardo il cielo (stelle, una falce di luna, la Via Lattea) e poi la terra: alti alberi, un pendio erboso, un fiume che scorre nei pressi.
Siamo senz’altro sulla Terra, almeno l’antica Terra di Ilio, ma il posto non ha l’aria del Peloponneso o dell’Asia Minore.
«Dove siamo?» chiede Nightenhelser. Si tira in piedi e si spazzola le vesti. «Cosa succede? Perché è notte?»
"Il lato opposto al Vecchio Mondo" penso. Dico: «Credo che siamo nell’Indiana».
«Indiana?» ripete, stupito, Nightenhelser. Si allontana di un altro passo.
«L’Indiana del 1200 e rotti avanti Cristo» dico. «Secolo più, secolo meno.» Mi sono di nuovo fatto male al braccio e alla gamba, rotolando per il pendio.
«Come ci saremmo arrivati?» chiede Nightenhelser. È sempre stato un tipo placido, un po’ brontolone nei suoi modi da orso, ma mai davvero arrabbiato per qualcosa. Adesso pare arrabbiato.
«Ho telequantato tutt’e due.»
«Ma di che diavolo parli, Hockenberry? Eravamo lontano da qualsiasi portale TQ.»
Non gli rispondo, mi siedo su una piccola roccia e mi sfrego il braccio. Non ci sono molte montagne, nell’Indiana, nemmeno nell’altra mia vita qui, ma c’erano zone collinari, boscose, sassose, intorno a Bloomington, dove vivevo con Susan. Preso dal panico, credo d’avere visualizzato… be’, casa mia! Mi auguro ardentemente che il medaglione TQ ci abbia trasportato anche nel tempo, oltre che nello spazio, e che questa sia l’Indiana del tardo ventesimo secolo, ma qualcosa nella purezza del cielo notturno e nell’odore di pulito dell’aria mi dice che non è così.
"Chi c’è qui nel 1200 avanti Cristo?" penso. Indiani. Sarebbe una vera ironia, se il medaglione TQ ci avesse strappato all’imminente morte per mano (alla lettera) della nostra Musa solo per portarci nel Nuovo Mondo e farci scotennare dagli indiani. "Molte tribù non scotennavano le vittime prima dell’arrivo dell’uomo bianco" mi mormora la parte pedante del cervello di professore. "Anche se mi pare d’avere letto da qualche parte che tagliavano le orecchie, come prova d’avere ucciso un nemico."
Be’, questo ricordo mi fa sentire meglio. Puoi sempre confidare sul fatto che un assassino abbia una bella prosa, così si dice, e che un professore dica qualcosa di deprimente quando già sei depresso.
«Hockenberry?» dice Nightenhelser. È seduto su un sasso grosso come uno sgabello (non troppo vicino a me, noto) e si massaggia il gomito e le ginocchia.
«Sto pensando, sto pensando» rispondo, nella mia migliore imitazione della voce di Jack Benny.
«Be’, quando hai finito di pensare, forse puoi dirmi perché la Musa ha appena ucciso il giovane Houston.»
Torno sobrio, ma non so come rispondere. «Ci sono cose in ballo, fra gli dèi» dico infine. «Intrighi. Macchinazioni. Accordi.»
«Parlamene» dice Nightenhelser, ironico e serio insieme.
Alzo le mani, palme in alto. «Afrodite voleva usarmi per uccidere Atena.»
Nightenhelser mi fissa. Riesce, a stento, a non restare a bocca aperta.
«So cosa pensi» dico. «"Perché proprio lui? Perché Hockenberry? Perché dargli il potere di telequantarsi e l’Elmo di Ade per rendersi invisibile?" E sono d’accordo: non ha senso.»
«Non pensavo questo» dice Nightenhelser. Un meteorite taglia il cielo stellato sopra di noi. Da qualche parte nella foresta al di là della collina una civetta emette un verso che non sembra proprio il suo tìpico chiurlare. «Mi chiedevo qual era il tuo nome proprio» soggiunge Nightenhelser.
Ora sono io, a fissarlo. «Perché?»
«Perché gli dèi ci hanno scoraggiato a usare il nome proprio e noi avevamo timore di fare amicizia, perché gli scoliasti non fanno che… sparire ed essere sostituiti dagli dèi» dice il robusto Nightenhelser, che pare un orso anche nel buio quasi totale. «Così voglio sapere come ti chiami.»
«Thomas» rispondo dopo un secondo. «Tom. E tu?»
«Keith» risponde l’uomo che conosco ormai da quasi un anno.
Si alza e guarda i boschi bui. «E ora, Tom?»
Insetti, rane e altre creature della notte fanno rumore nei boschi bui. A meno che non siano davvero indiani che si avvicinano, furtivi.
«Sai come… voglio dire, hai fatto vita da campeggiatore per un mucchio di tempo… cioè…» balbetto.
«Insomma, vuoi sapere se morirò, se mi lasci qui da solo?» dice Nightenhelser… Keith.
«Già.»
«Non lo so. Probabilmente. Ma sospetto di avere maggiori possibilità qui che non nella piana di Ilio. Almeno finché la Musa è sul sentiero di guerra…»
Sospetto che pure Keith sia fissato con gli indiani, ora.
«E poi ho tutti i piccoli giocattoli tecnologici e le attrezzature da scoliaste. Posso accendere il fuoco, usare la bardatura di levitazione per volare, se obbligato, morfizzarmi in un Apache, se necessario. Perciò ti puoi telequantare dove devi andare e fare ciò che devi fare» dice Nightenhelser. «Mi racconterai i particolari più tardi… se ci sarà un più tardi.»
Annuisco e mi alzo. Pare strano… sbagliato… lasciarlo qui da solo, ma non vedo altre possibilità.
«Sai trovare la strada?» chiede Nightenhelser. «Per tornare qui, voglio dire. A prendermi.»
«Credo di sì.»
«Credi? Credi solo?» Si passa le dita nei capelli arruffati. «Spero che tu non sia stato il direttore del tuo dipartimento, Hockenberry.»
Suppongo che l’era del nome proprio sia già finita.
Non c’è luogo dell’universo dove non preferirei trovarmi, anziché su Olimpo. Quando arrivo, gli abitanti di questa montagna sono radunati nella Grande Sala degli Dèi. Mi accerto di avere calzato bene l’Elmo di Ade e di non gettare ombra, poi entro di soppiatto nell’enorme edificio stile Partenone.
Nei nove e passa anni da scoliaste non ho mai visto tanti dèi nello stesso luogo. Su un lato della grande piscina in ologramma siede Zeus, più imponente che mai nell’alto trono d’oro. Come ho già detto, gli dèi sono in genere alti da due metri e mezzo a tre, tranne quando assumono forma mortale, e Zeus solitamente torreggia su di loro di almeno un metro, un divino adulto per quei cosmici bambini. Ma oggi Zeus è alto sette metri e mezzo, forse più, e un suo muscoloso avambraccio è più lungo del mio tronco. Mi chiedo fuggevolmente come ciò si accordi con la conservazione della massa e dell’energia che quell’altro scoliaste cercò d’insegnarmi anni fa, ma al momento non è importante. Mi tengo più indietro, contro la parete, lontano dagli dèi in movimento, e non faccio rumore, mossa, starnuto che mi tradirebbero ai loro raffinati sensi da supereroi: questo sì che è importante.
Pensavo di conoscere per nome tutti gli dèi e le dee, ma qui ce ne sono decine e decine che non riconosco. Quelli a me noti, gli dèi e le dee che sono stati più coinvolti nella guerra di Troia, risaltano nella folla come stelle del cinema a una riunione di politici di secondo piano; ma anche il minore di questi dèi è più alto, più bello e più perfetto di qualsiasi star umana ricordi dall’altra mia vita. Più vicino a Zeus, di fronte a lui al di là dell’ologramma della piscina (che ora divide la sala come un lungo fossato) vedo Pallade Atena, il dio della guerra Ares (evidentemente uscito dalla vasca di guarigione, rimasta intatta quando ho distrutto quella di Afrodite) e i fratelli più giovani di Zeus: il dio del mare Poseidone (che di rado viene su Olimpo) e Ade, sovrano dei morti. Il figlio di Zeus, Ermes, è in piedi vicino alla piscina e il messaggero degli dèi e uccisore di giganti è magro e bello come lo raffigurano le statue. Un altro figlio di Zeus, Dioniso, il dio dell’estatico sollievo, parla a Era e, contrariamente alla sua classica immagine, non ha in mano una coppa di vino. Per un dio dell’estatico sollievo, Dioniso pare pallido, debole e accigliato, come un uomo alla terza settimana appena di un programma di dodici. Più in là c’è Nereo, il vero dio del mare, e sembra più vecchio del tempo. Ha dita palmate alle mani e ai piedi e branchie visibili sotto le ascelle.
I Fati e le Furie sono presenti in forze, si mescolano per caso o di proposito fra gli dèi e le dee. Costoro sono dèi, più o meno, tuttavia a volte hanno potere regolatore sugli altri dèi. D’aspetto non sono tanto umani come gli dèi soliti e di loro, lo confesso, non so quasi nulla, tranne che non vivono su Olimpo, ma lontano, in uno dei tre vulcani verso sudest, vicino alla residenza delle Muse.
La mia Musa, Melete, è presente, insieme con le sorelle, Mneme e Aoide. Anche le Muse più "moderne" sono tra la folla: Calliope, Polimnia, Urania, Erato, Clio, Euterpe, Melpomene, Tersicore e Talia. Appena al di là delle Muse ci sono le dee di serie A. Afrodite non è fra loro, è la prima cosa che noto. Se ci fosse, sarei visibile a lei come quelle divinità sono visibili a me. Ma sua madre, Dione, è presente, parla con Era ed Ermes e pare davvero molto seria. Accanto a quel gruppo ci sono Demetra, dea delle messi, e sua figlia Persefone, moglie di Ade. Dietro di loro scorgo Pasitea, una delle Cariti. Più in là, come si conviene alla loro condizione inferiore, ci sono le Nereidi, nude fino alla cintola, belle e dall’aria infida.
La meta-dea chiamata Notte sta da sola. Ha veste e velo di un viola così scuro da sembrare nero e perfino gli altri dèi si tengono lontano da lei. Non so nulla di Notte, a parte voci secondo le quali perfino Zeus ha paura di lei, e non l’ho mai vista prima su Olimpo.
Come un fanatico di film che guardi allocchito tra la folla attorno alla passerella su cui sfilano gli attori candidati agli Oscar, cerco di distinguere gli dèi importanti da quelli minori. Là, per esempio, c’è Ebe, in piedi accanto ai maschi (la dea della gioventù, figlia di Zeus e di Era, è solo una serva degli dèi) e laggiù Efesto, il grande fabbro, dai capelli rossi come fiamme, parla alla moglie Charis, che è solo una delle Cariti. La gerarchia sociale fra gli dèi e le dee, noto non per la prima volta, è complicata.
All’improvviso la dea Iride, messaggera di Zeus, avanza in volo… sì, in volo… e batte le mani. «Il Padre parlerà» annuncia, con voce chiara e tersa come un assolo di flauto.
Immediatamente le conversazioni sottovoce di decine di capannelli cessano e nella grande sala piena d’echi scende il silenzio.
Zeus si alza. Il trono d’oro e i gradini d’oro mandano un bagliore che lo inonda di luce divina. «Ascoltatemi, tutti voi dèi e anche dee» attacca Zeus, con voce dolce, ma così forte che la sento vibrare contro le alte pareti di marmo. «Oggi un dio o una dea ha tentato di far male ad Afrodite, che era in cura nella nostra sala di guarigione; Afrodite vivrà, c’è mancato poco, ma occorreranno molti giorni perché guarisca. Un dio o una dea ha tentato oggi di uccidere una immortale, di uccidere una di noi che non è destinata a morire!»
I brontolii e le esclamazioni sconvolte cominciano come un brusio e aumentano fino a diventare un rombo nella grande sala.
«SILENZIO!» tuona Zeus e stavolta la sua voce è così forte che mi sbatte a terra e mi fa scivolare sul pavimento di marmo come erba mobile in un tornado. Per fortuna non vado a sbattere contro nessuno e il rumore della scivolata è soffocato dagli echi del grido di Zeus.
«Ascoltatemi ora, o dèi e dee» prosegue Zeus, con voce amplificata come dal più perfetto sistema d’altoparlanti. «Che una bella dea o un dio non tentino di sfidare il mio rigido decreto. Vi sottometterete alla mia volontà… SUBITO!»
Stavolta sono pronto per resistere alla forza d’uragano della sua voce e mi tengo aggrappato a una colonna finché non passa.
«Ascoltatemi» dice Zeus, quasi bisbigliando ora, con una sensazione di potere resa ancora più terribile dal tono dolce. «Ogni dio che violi il mio decreto e aiuti i troiani o gli achei, come ho visto fare questo mese, al ritorno su Olimpo sarà frustato dal mio fulmine e sferzato dal mio tuono, cadrà in disgrazia per l’eternità e sarà bandito da Olimpo. Sfidatemi e scoprirete cosa significa essere gettati nelle tenebre del Tartaro distante mezzo universo in spazio e tempo, nel più profondo abisso che si spalanca sotto noi quantici.»
Mentre parla, la lunga piscina bolle e gorgoglia, diventa nera come pece e poi una cosa del tutto diversa; il pozzo rettangolare (che pare una decina di piscine olimpiche poste una di seguito all’altra, ora ribollenti e piene di gorgogliante olio nero) a un tratto emette un rombo e diventa un buco che si apre in chissà quale altro luogo, scuro e infuocato e profondissimo. Rotolano fuori ondate di puzzo sulfureo; dèi e dee vicino al bordo arretrano.
«Ecco il Tartaro» tuona Zeus. «L’infimo abisso della casa di Ade, un luogo nelle profondità dell’inferno quanto la casa di Ade è nelle profondità della terra stessa. Ricordate, dèi e dee più anziani fra noi, quando mi avete seguito nella decennale guerra contro i Titani che regnavano prima di noi? Ricordate che gettai Crono e Rea, i miei stessi genitori, al di là di quelle porte di ferro e delle soglie di bronzo? Sì, e Giapeto, anche, malgrado il suo potere divino?»
La sala è silenziosa, a parte i rombi soffocati e gli ansiti e le grida che salgono dal Tartaro spalancato. Non ho il minimo dubbio che quel buco porti dritto all’inferno: non è un ologramma e si apre a meno di dieci metri da dove sono rincantucciato.
«SE HO GETTATO I MIEI GENITORI IN QUESTO ABISSO PER L’ETERNITÀ» tuona Zeus «AVETE DUBBI CHE CI METTERÒ UN SECONDO A SCAGLIARE LÀ DENTRO LA VOSTRA ANIMA URLANTE?»
Dèi e dee non rispondono, però arretrano di parecchi passi da quel fetido vuoto.
Zeus ha un sorriso terribile. «Su, mettetemi alla prova, immortali, così tutti potranno imparare.»
Un enorme cavo d’oro cade dal soffitto della sala, di traverso sul buco dell’inferno. Dèi e dee si affrettano a togliersi di mezzo. Il cavo colpisce sonoramente il marmo. È più spesso di una gomena di nave e pare ottenuto intrecciando migliaia di fili d’oro fino spessi un pollice. Peserà di sicuro varie tonnellate.
Zeus scende i gradini d’oro e alza il cavo, tenendolo con facilità nelle mani enormi. «Prendete l’altro capo» dice in tono quasi allegro.
Dèi e dee si scambiano occhiate e non si muovono.
«PRENDETELO!»
Centinaia d’immortali e di loro servi immortali si precipitano a ubbidire, si azzuffano per afferrare il lungo cavo d’oro come bambini a un piacevole tiro alla fune. Nel giro di un minuto c’è Zeus, da solo da un lato del Tartaro, a reggere con noncuranza il cavo e l’innumerevole folla di dèi e dee dal lato opposto, mani serrate sulla gomena d’oro.
«Trascinatemi dentro» dice Zeus. «Trascinatemi giù dai cieli alla terra e all’Ade e ancora più in basso, nei mefitici abissi del Tartaro. Trascinatemi giù, dico.»
Non un dio muove muscolo.
«TRASCINATEMI GIÙ, VI ORDINO!» tuona Zeus. Afferra il cavo d’oro e comincia a tirare. Sandali di dèi scivolano e cigolano e strusciano sul marmo. Parecchie centinaia di dèi e dee, tutti in fila, sono tirati più vicino all’abisso; alcuni inciampano, alcuni cadono sulle ginocchia.
«TIRATE, MALEDETTI!» tuona Zeus. «TIRATE O SARETE TRASCINATI NEL PUZZOLENTE TARTARO FINCHÉ IL TEMPO STESSO NON CADRÀ PUTREFATTO DALLE OSSA DELL’UNIVERSO!»
Zeus dà uno strattone e venti metri di cavo d’oro si ammucchiano in spire dietro di lui. Sull’altro lato, la fila di dèi e dee, Cariti e Furie, Nereidi e altre ninfe e chi più ne ha più ne metta (tutti tirano, tranne la Notte dalla veste viola) striscia e stride più vicino all’abisso. Atena, la prima, a soli dieci metri dal bordo, grida: «Tirate, dèi! Tirate dentro il vecchio bastardo!».
Ares e Apollo, Ermes e Poseidone e il resto degli dèi più potenti fanno forza. Smettono di scivolare. Il cavo si tende al massimo, si sfilaccia e scricchiola per la tensione. Le dee gridano e tirano all’unisono; Era, moglie di Zeus, tira anche più forte delle altre. Il cavo d’oro si tende e geme.
Zeus scoppia a ridere. Li tiene tutti in scacco, con una mano sola. Ora afferra il cavo anche con l’altra mano e tira di nuovo.
Gli dèi strillano come bambini sulle montagne russe. Atena e quelli accanto a lei scivolano sul marmo come su ghiaccio, sempre più vicino al ribollente abisso del Tartaro, mentre decine d’immortali minori si arrendono e lasciano la presa. Ma Atena non molla. È tirata senza sosta verso il bordo della fumante botola per l’inferno. L’intera fila di immortali che si sforzano, sudano, imprecano è trascinata verso l’abisso.
Con una risata Zeus lascia andare il cavo. Decine e decine di dèi e di dee volano all’indietro e finiscono scompostamente sull’immortale fondoschiena.
«Voi, dèi e dee, bambini, fratelli, sorelle, figli, figlie, cugini e servi… non potete trascinarmi sotto» dice Zeus. Torna al trono e si siede. «Neanche a costo di slogarvi le braccia, di sfiancarvi a morte, potreste smuovermi, se non volessi farlo io stesso. Sono Zeus, il più grande, il più potente dei re.» Alza un enorme dito. «Ma… se decido di trascinarvi sul serio, vi isso da questo Olimpo, vi spenzolo nel nero spazio sopra il Tartaro, vi lego a terra e mare insieme, aggancio il capo al corno di questa montagna detta Olimpo e vi lascio lì sospesi nelle tenebre finché il sole non diventi freddo.»
Se non avessi appena visto la scena, avrei pensato che il vecchio bastardo bluffasse. Ora so come stanno le cose.
Atena si rialza, a non più di un metro dal bordo del Tartaro, e dice: «Padre nostro, figlio di Crono, che sei nel più alto trono dei cieli, conosciamo il tuo potere. Chi può resisterti? Non noi…».
Tutti gli immortali sembrano trattenere il fiato. L’umore di Atena è leggendario, come la sua frequente mancanza di diplomazia: se ora dice la cosa sbagliata…
«Tuttavia» continua la glaucopide figlia di Zeus «ci muoviamo a pietà per quei mortali, io per i miei condannati lancieri argivi, che recitano la loro piccola parte sul loro piccolo palcoscenico, muoiono di orribile morte, annegano nel proprio sangue alla fine della loro piccola vita.»
Muove altri due passi, tanto che la punta dei sandali sporge sopra il nero abisso. Da qualche parte, migliaia di metri sotto di lei, nelle tenebre lacerate da fulmini del Tartaro, una grossa creatura mugghia di dolore e di paura. «Sì, Zeus» continua Atena «ci terremo alla larga dalla guerra, come tu ordini. Ma concedici almeno il permesso di consigliare ai nostri mortali preferiti le tattiche che potrebbero salvarli, in modo che non cadano sotto il fulmine della tua immortale collera.»
Zeus guarda a lungo la figlia. Non riesco a interpretare la sua espressione: è infuriato? divertito? spazientito?
«Cara tritogeneia… figlia terzogenita» dice Zeus «il tuo coraggio mi ha sempre fatto venire il mal di testa. Ma non perderti d’animo, perché la lezione che vi ho dato oggi non proviene affatto dalla collera, ma vuole solo mostrare a tutti i presenti quali risultati avrà la loro disobbedienza.»
Detto ciò, Zeus scende dal trono; fra le gigantesche colonne entra in volo il suo cocchio personale, con una pariglia di cavalli dagli zoccoli di bronzo, criniera dorata svolazzante (cavalli veri, vedo, non ologrammi) e atterra accanto a lui. Zeus si affibbia la corazza dorata, prende dal sostegno la frusta, sale sul carro da guerra, fa schioccare lo sverzino; pariglia e cocchio corrono sul marmo, si alzano in aria, fanno un giro della sala, trenta metri sopra la testa di dèi e dee, poi passano fra le colonne e scompaiono in un rombo di tuono quantico.
A poco a poco gli dèi e le dee e gli immortali di minore importanza escono dalla sala, mormorando e tramando fra loro, senza (ci potrei giurare) la minima intenzione di ubbidire al loro signore e sovrano.
E io… io me ne sto lì per un poco, invisibile e ben felice di esserlo. Sono ancora a bocca aperta e con il fiato corto, come un cane frustato in un giorno troppo caldo. Ho l’impressione di sbavare un poco.
A volte, qui su Olimpo, è difficile credere del tutto al rapporto di causa ed effetto e al metodo scientifico.