29 CANDOR CHASMA

Per otto giorni e otto notti di Marte la tempesta di polvere sollevò onde alte dieci metri, ululò fra il sartiame e spinse la piccola feluca a nord, verso il lato sottovento della costa e verso la morte di tutto il suo equipaggio, moravec compresi.

I piccoli omini verdi a bordo erano bravi marinai, ma di notte cessavano di funzionare e ora restavano inerti anche per gran parte del giorno, perché le nubi di polvere oscuravano il sole. Mahnmut, quando i POV si ritiravano in cantucci bui sotto i ponti e si raggomitolavano in una nicchia per non essere sballottati da tutte le parti, aveva l’impressione di navigare in una nave di morti, come nel Dracula di Bram Stoker, dove la nave giunge in porto con un equipaggio di cadaveri.

Le vele della feluca, di un polimero leggero e resistente, non di tela, si erano ridotte a brandelli per la violenza del vento da sudest e per la sabbia scagliata a forte velocità. Il ponte non era più un luogo sicuro dove trattenersi; durante un breve intervallo di luce, Mahnmut, con l’aiuto di venti POV, praticò un buco nella tolda, calò Orphu sul ponte inferiore e costruì per l’amico uno schermo di legno e di tela cerata che lo riparasse dal vento insistente. Anche lui, quando trascorreva troppo tempo ad aiutare i POV sulla tolda, sentiva la sabbia portata dal vento entrargli nelle commessure e nei meccanismi, perciò, appena poteva, scendeva sul ponte inferiore e stava a fianco di Orphu, accertandosi che il suo amico fosse ben legato e fissato, mentre la feluca s’inclinava di quaranta gradi da una parte e dall’altra e l’acqua, ora mista a sabbia e rossa come sangue, penetrava in ogni fessura. Dieci o dodici dei quaranta POV a bordo azionavano le pompe a mano, ogni volta che erano coscienti, per prosciugare la sentina e i ponti inferiori, mentre nelle lunghe notti Mahnmut lavorava da solo a una pompa.

Prima che le vele, il sartiame e l’ancora restassero danneggiati, i POV avevano sfruttato al meglio la burrasca: avevano lavorato duramente, bordeggiando, navigando contro vento, con le onde che si abbattevano sulla prua, per avanzare il più possibile nel mare interno centrale, chiaramente preoccupati per le scogliere alte un migliaio di metri alle loro spalle a nord, e avevano coperto centinaia di chilometri nei primi due giorni di tempesta. Adesso si trovavano più o meno fra Coprates Chasma e le isole di Melas Chasma, con l’enorme complesso di canyon di Candor Chasma da qualche parte più avanti a dritta.

Poi la burrasca era peggiorata e il cielo era divenuto più scuro; i POV si erano rifugiati, legandosi in posti sicuri sotto coperta e avevano smesso di funzionare nel buio della tempesta di sabbia; le ancore di prua e di poppa (due complesse strutture curve di polimero sintetico fissate a cavi al traino centinaia di metri sotto la nave) avevano ceduto nello stesso giorno. Mahnmut sapeva, avendole viste in precedenza, che a nord c’erano scogliere alte un migliaio di metri e, da qualche parte, l’ampia apertura dei canyon allagati di Candor Chasma; ma per la carica elettrostatica della tempesta di sabbia non poteva usare il localizzatore e da due giorni non aveva più visto una stella o il sole per fare il punto. Per quel che ne sapeva, le scogliere e la fine della loro corsa potevano trovarsi anche solo a mezz’ora di distanza.

«C’è il rischio di colare a picco?» chiese Orphu, il pomeriggio del quarto giorno.

«Le probabilità sono buone» rispose Mahnmut. Non voleva mentire all’amico, perciò aveva cercato di formulare la frase nel modo più ambiguo possibile.

«Puoi nuotare in questa burrasca?» chiese Orphu. Aveva capito che quel "buone" era una cattiva notizia per tutti e due.

«Non proprio» disse Mahnmut. «Però posso nuotare sotto le onde.»

«Andrò a fondo come il proverbiale sasso» disse Orphu, con il leggero rombo che equivaleva a una risatina. «Quanto hai detto che è profonda, qui, la Valles Marineris?»

«Non l’ho detto.»

«Be’, dimmelo ora.»

«Circa sette chilometri» rispose Mahnmut, che l’aveva scandagliata col sonar proprio un’ora prima.

«Rimarresti schiacciato, a quella profondità?»

«No. Ho lavorato a pressioni superiori. Sono fatto apposta.»

«E io rimarrei schiacciato?»

«Ah… non so» rispose Mahnmut. Era la verità, tuttavia sapeva che la serie di moravec come Orphu era stata progettata per lo spazio privo di pressione e per occasionali incursioni nelle zone superiori di un gigante gassoso o nei pozzi sulfurei di Io, non per le micidiali pressioni di un mare salato profondo settemila metri. Era molto probabile che il suo amico sarebbe rimasto schiacciato come una lattina accartocciata oppure sarebbe semplicemente imploso molto prima di scendere ai tremila metri.

«C’è qualche possibilità di arrivare alla costa?» chiese Orphu.

«Non credo» rispose Mahnmut. «Le scogliere sono enormi, ripide, con massi giganteschi alla base. Le onde che vi si schiantano raggiungono ora i cinquanta o i cento metri di altezza.»

«Un’immagine interessante» disse Orphu. «C’è qualche possibilità che i POV ci portino al sicuro in un porto?»

Mahnmut lanciò un’occhiata in giro nel buio dei ponti inferiori. I POV erano al riparo, legati alle travi come tante bambole di clorofilla, braccia e gambe che sbattevano a tempo col violento rollio della nave. «Non lo so» disse e lasciò che dal tono trasparisse tutto il suo scetticismo.

«Allora sta a te farci superare questa situazione» disse Orphu.

Mahnmut s’impegnò al massimo per salvare tutti loro. Il quinto giorno, con il cielo di una tenebra sanguigna e col vento che ululava tra i brandelli delle vele, con i POV impilati come cataste di legno sotto coperta e la doppia ruota sul ponte posteriore legata per tenere dritto il timone, Mahnmut ammainò ciò che restava delle vele e prese lo spago e i grossi aghi che aveva visto usare dai POV per rammendare il polimero; solo che ora lui cuciva mentre la nave rollava di qua e di là, con onde di quindici metri che la colpivano di lato, facendola girare su se stessa, e con l’acqua che inondava la tolda.

Preparò per prima cosa un’ancora di fortuna, più piccola, e la dispiegò dal cavo dell’ancora prodiera per riportare la prua al vento, nel tentativo di evitare l’invisibile ma sempre presente costa sottovento dietro di loro. Aveva iniziato a rammendare la randa triangolare, quando i cavi del timone sotto il ponte si spezzarono. La feluca traballò, imbarcò parecchie enormi ondate d’acqua rossastra, si strappò da sopravvento, poi girò su se stessa e corse di nuovo a favore di vento, con alte onde che si abbattevano sul ponte di poppa. Quando il timone era partito, solo l’ancora di fortuna aveva impedito che la feluca si capovolgesse. Mahnmut andò a prua e lì, mentre le rosse nubi si squarciavano per un attimo e la feluca sormontava l’onda successiva, vide tra la spuma e l’oscurità le alte scogliere del lato nord della Valles Marineris. La nave sarebbe finita sulle rocce in meno di un’ora, se il sistema di governo non fosse stato aggiustato… e presto.

Mahnmut si procurò una fune, andò a poppa per accertarsi che il timone fosse ancora attaccato alla nave (lo era, ma oscillava liberamente sul massiccio cardano) e poi si arrampicò sulla gomena bagnata, fra le onde battenti, attraversò il ponte di mezzo, scivolò giù per le scalette fino al secondo ponte, trovò il centro di governo d’emergenza, una semplice piattaforma con carrucole dove i POV potevano manovrare la nave tirando le gomene della barra se, sopra, il meccanismo di governo era danneggiato, scoprì che le due grosse gomene erano allentate, scese un’altra scaletta nel buio del terzo ponte, accese i fari che aveva sul petto e sulle spalle per illuminare il cammino, cambiò i manipolatori in arnesi da taglio e aprì un foro nel ponte dove pensava che le gomene della barra si fossero rotte. Non aveva idea se era questo il modo in cui erano attrezzate le antiche feluche terrestri (immaginava di no) ma questa grossa feluca marziana era governata da una doppia ruota nell’alto ponte di poppa, che faceva girare due grosse funi di canapa che si dipartivano, correvano lungo ciascuna fiancata mediante un sistema di carrucole e poi si univano di nuovo per scorrere in quel lungo condotto di legno fino alla barra vera e propria che muoveva il timone. Nelle settimane di viaggio, Mahnmut aveva girato per la nave e studiato il sartiame e la disposizione dei vari sistemi di cavi. Se i grossi cavi, uno o tutt’e due, si erano rotti, sfilacciati dalla tensione della tempesta, forse sarebbe riuscito a saldarli, ma prima doveva arrivarci. Se si erano rotti più avanti verso la barra, dove non sarebbe potuto arrivare, tutti a bordo della feluca erano condannati. Mahnmut si domandò se sarebbe saltato giù all’ultimo momento, nuotando sotto i frangenti per superare le alte scogliere, cercando una zona più calma, da qualche parte lungo le migliaia di chilometri della costa di Candor Chasma, dove tirarsi all’asciutto. Una cosa era sicura: non avrebbe potuto portare con sé Orphu. Si infilò nel condotto delle funi della barra, accese i fari e guardò a prua e a poppa. Non riuscì a vedere i cavi.

«Va tutto bene?» chiese Orphu.

Mahnmut sobbalzò al suono della voce via radio nelle orecchie. «Sì» rispose. «Faccio una piccola riparazione al timone.» "Eccoli!" pensò. I cavi gemelli si erano spezzati, i segmenti di poppa erano a circa sei metri nello stretto condotto guida, quelli di prua si vedevano appena, dieci metri più in là. Mahnmut corse avanti e indietro, fracassando il fasciame di legno duro, estraendo dal condotto le sezioni dei cavi grossi come una coscia e tirandole verso il centro, usando ogni erg di energia dei suoi sistemi.

«Sei sicuro che vada tutto bene?» chiese Orphu.

Mahnmut ritrasse le lame da taglio ed estese tutti i manipolatori, commutando su "Massima precisione" il controllo dei motori. Cominciò a intrecciare i capi di spessa canapa, così velocemente che le dita metalliche divennero una macchia confusa nei raggi di fari alogeni che tagliavano il buio del terzo ponte. L’acqua sciaguattava avanti e indietro intorno a lui e su di lui, mentre la nave rollava all’indietro su ogni tremenda onda e poi scivolava lungo la parte posteriore di essa e straorzava nel cavo d’onda. Allora Mahnmut si preparava all’onda successiva che si abbatteva di nuovo sulla poppa, col fragore e la forza di un colpo di cannone. E sapeva che ogni onda indicava che la nave era molto più vicino alle rocce e alla scogliera.

«È tutto a posto» disse, con le dita che volavano, intrecciavano fili, usando i laser a bassa potenza nei polsi per saldare le fibre metalliche che correvano lungo la canapa logora. «Sono impegnatissimo.»

«Ti chiamerò per controllo fra qualche minuto» gli disse Orphu.

«Bene» fece Mahnmut, pensando: "Se non riesco a ripristinare il governo della feluca, fra una trentina di minuti saremo contro le rocce. Glielo dirò quindici minuti prima che succeda". «Sì, è una buona idea» trasmise. «Una chiamata di controllo fra qualche minuto.»


La rozza feluca (non aveva un nome) non era il Dark Lady, ma era di nuovo in grado di navigare e di essere pilotata. Sul ponte di poppa, gambe e piedi ben piantati per resistere al rollio e al beccheggio, Mahnmut si mise alla ruota, con le scogliere battute dalla tempesta visibili a meno di un chilometro dritto a prua, con le vele a brandelli da lui stesso rammendate tese sui due alberi. Il cavo della barra resse e il timone rispose. Mahnmut costrinse la nave a girarsi nel vento e chiamò Orphu per informarlo della situazione. Gli disse la verità: avevano corso il rischio che la feluca fosse sbattuta sugli scogli nel giro d’un quarto d’ora o forse meno, ma ora lui pilotava quella porca di nave, ammesso che ne valesse la pena.

«Bene, apprezzo la tua sincerità» disse Orphu. «Posso aiutarti in qualche modo?»

Mahnmut, caricando tutto il proprio peso sulla grossa ruota in modo che la nave puntasse verso l’onda in arrivo e non si capovolgesse, rispose: «Anche i suggerimenti mi farebbero comodo».

La nube di polvere non dava segno di sollevarsi né il vento pareva prossimo a diminuire di intensità. Gomene vibravano, pezzi di tela sbattevano e la prua scompariva in una muraglia di spuma bianca che colpiva anche Mahnmut, venti metri più indietro. Orphu disse: «"Di nuovo qui? Ma che ci avete a fare? Volete proprio che molliamo tutto e che coliamo a picco tutti quanti? Vi siete messi in testa di affogare?"».

Mahnmut impiegò qualche secondo a cogliere la citazione. Cavalcando l’onda successiva quasi a gravità zero, guardandosi indietro e vedendo le scogliere più vicino, richiamò alla memoria secondaria la Tempesta ed esclamò: «"Un accidente a quella tua golaccia, cane ringhioso, blasfemo, spietato!"».

«"Fatela voi, allora, la manovra!"»

«"Vatti a impiccare, rognoso cagnaccio! Alla forca, figliaccio di puttana, con questo tuo sbraitare da villano!"» disse Mahnmut, gridando per superare il rumore del vento e dell’onda, anche se per radio non serviva a niente gridare. «"Scommetto che paura d’affogare ce n’hai assai più tu, che tutti noi."»

«"Ma quello non s’affoga, garantito"» continuò Orphu ridendo «"fosse pur questo scafo men robusto e resistente d’un guscio di noce e facesse acqua come una baldracca che non può contenersi…" Mahnmut? Che cosa significa esattamente "una baldracca che non può contenersi"?»

«Una donna con le mestruazioni» rispose Mahnmut, tutto piegato sulla ruota per girarla a sinistra. Tonnellate d’acqua lo travolsero. Mahnmut non vedeva più le scogliere, dietro di lui, per la turbinante foschia rossa e per le onde alte, ma sentiva la presenza delle rocce.

«Oh!» disse Orphu. «Davvero imbarazzante. Dov’ero?»

«"Su, sottovento!"» suggerì Mahnmut.

«"Su, sottovento! Su, coi due velacci! Al largo ancora, via! Tenersi al largo!"»

«"Tutto è perduto! Tutto!"» recitò Mahnmut. «"Alle preghiere! Ormai non ci rimane che pregare! Perduto, tutto!"… Aspetta un momento!»

«Non ricordo: "Aspetta un momento!"» disse Orphu.

«No, aspetta tu un momento. Più avanti c’è un varco nella scogliera, un’apertura nella linea della costa.»

«Abbastanza grande da navigarvi?» chiese Orphu.

«È l’inizio del Candor Chasma» disse Mahnmut. «Una massa d’acqua più grande di Conamara Chaos su Europa.»

«Non ricordo quanto fosse grande Conamara Chaos» ammise Orphu.

«Più ampio di tutt’e tre i Grandi Laghi americani e la baia di Hudson messi insieme» disse Mahnmut. «Candor Chasma è in pratica un altro enorme mare interno che si apre a nord. Ci dovrebbero essere migliaia di chilometri quadrati dove manovrare. Niente spiaggia sottovento!»

«È un bene?» disse Orphu, chiaramente restio a sperarci troppo.

«Una possibilità di sopravvivenza» disse Mahnmut, tirando gomene per gonfiare di vento i resti della vela maestra. Attese che la nave fosse sulla cresta dell’onda successiva e mosse la ruota, facendo girare la pesante nave lentamente a dritta, spostando la prua verso l’apertura sempre più ampia nella scogliera. «Una possibilità di sopravvivenza» ripeté.


Tutto finì nel pomeriggio dell’ottavo giorno. Fino a una certa ora le nubi di polvere rimasero basse, correndo via a poppa; il vento continuò a infuriare e nel grande bacino di Candor Chasma l’acqua rimase bianca e mossa; l’ora seguente, dopo un’ultima pioggia color sangue, il cielo divenne azzurro, il mare tornò placido e i piccoli omini verdi emersero dalle nicchie e salirono sul ponte, come bambini che si sveglino da un riposante sonnellino.

Mahnmut era sfinito. Anche con un filo di ricarica che gli giungeva dalle celle solari portatili e di tanto in tanto una scarica dei loro cubi d’energia in esaurimento, era esausto dal punto di vista organico, mentale, cibernetico ed emotivo.

I POV parvero meravigliarsi per i resti delle vele rattoppate, per i cavi della barra saldati e per le altre riparazioni fatte da Mahnmut negli ultimi tre giorni. Poi si misero al lavoro, facendo funzionare le pompe della sentina, pulendo i ponti che parevano insanguinati, rattoppando altre vele, calafatando le tavole svergolate dello scafo e delle paratie, riparando alberi spezzati, sbrogliando cavi ingarbugliati e pilotando la nave. Mahnmut andò nel ponte di mezzo e controllò le operazioni di sollevamento di Orphu dal ponte inferiore fradicio d’acqua; aiutò a fissare il suo amico sul ponte e gli sistemò sopra un telone; poi trovò sul ponte di mezzo un posto caldo e soleggiato, appartato, con una paratia alle spalle e una matassa di corda di fronte che gli alleviavano un poco l’agorafobia, e lì si concesse di galleggiare in un mezzo torpore. Quando chiuse gli occhi, vedeva ancora le alte onde avvicinarsi, sentiva il ponte beccheggiare e udiva l’ululato del vento, anche se adesso intorno alla nave c’era mare calmo. Lanciò furtivamente un’occhiata. La nave navigava di nuovo a sud, bordeggiava nel calmo vento di sudovest e puntava verso l’ampia apertura dove il Candor Chasma sfociava nella Valles Marineris, nel punto detto Melas Chasma. Mahnmut spense di nuovo gli apparati visivi e si concesse un pisolino.

Si svegliò di colpo, perché aveva sentito un tocco sulla spalla. I quaranta POV sfilarono davanti a lui e ciascuno di loro, nel passare, lo sfiorò sulla spalla. Mahnmut usò il canale subvocale e riferì a Orphu il bizzarro comportamento degli omini verdi.

«Forse ti esprimono gratitudine per averli salvati» disse Orphu. «Io lo farei, se avessi ancora gambe e braccia per darti una pacca.»

Mahnmut rimase in silenzio, ma non era sicuro che fosse quella la ragione del contatto. Non aveva mai visto emozioni nei POV, nemmeno quando il loro interprete si era avvizzito ed era morto dopo la conversazione con lui, e trovava difficile credere che gli fossero grati, anche se erano marinai abbastanza esperti da capire che, senza il suo intervento, la loro nave sarebbe colata a picco.

«O forse pensano solo che sei fortunato e cercano di procurarsi un po’ di fortuna toccandoti» soggiunse Orphu.

Prima che Mahnmut potesse esprimere la sua opinione su quella ipotesi, l’ultimo POV della fila, anziché dare un colpetto sulla spalla del moravec e passare oltre, si mise in ginocchio, prese la destra di Mahnmut e se la posò sul petto.

«Oh, no» gemette Mahnmut, rivolto a Orphu. «Vogliono di nuovo comunicare.»

«Bene» disse Orphu. «Abbiamo domande da fare.»

«Le risposte non valgono la morte di un altro di loro» replicò Mahnmut. Ritirò la mano con la stessa forza con cui il piccolo omino verde la tirava verso di sé.

«Potrebbe valerne la pena» disse Orphu «anche se l’unità POV subisce qualcosa di simile alla tua idea di morte, cosa della quale dubito. E poi, lo fa di sua iniziativa. Lasciagli stabilire il contatto.»

Mahnmut smise di opporsi e lasciò che il POV gli tirasse la mano verso il petto, dentro il petto.

Di nuovo provò la sconcertante sensazione di dita che penetravano nella carne e s’immergevano nella calda e densa soluzione salina, della mano che si chiudeva intorno al pulsante organo delle dimensioni di un cuore umano.

«Prova a stringere un po’ meno, stavolta» suggerì Orphu. «Se la comunicazione avviene davvero mediante pacchetti molecolari di nanobyte organici, forse una superficie di contatto inferiore limita il volume dei loro pensieri.»

Mahnmut annuì, anche se si rendeva conto che Orphu non poteva vedere il suo cenno; poi si concentrò solo sulla bizzarra vibrazione che dalla mano gli risaliva lungo il braccio fino al cervello, mentre il piccolo omino verde iniziava la conversazione.


TI ESPRIMIAMO
GRATITUDINE
PER IL SALVATAGGIO
DELLA NOSTRA NAVE.

«Non c’è di che» disse a voce Mahnmut, concentrando i pensieri nel linguaggio parlato nello stesso tempo in cui condivideva lo scambio con Orphu sul canale a fascio compatto. «Ma voi chi siete? Come vi chiamate?»

ZEK.

Mahnmut non sapeva che cosa significasse quella parola. Sentì pulsare fra le dita l’organo di comunicazione del POV e provò l’impulso di lasciarlo, di estrarre la mano dal petto di quella creatura già condannata… ma ormai il gesto non sarebbe stato utile a nessuno dei due. Conosci questa parola… "Zek"? chiese a Orphu.

Un momento, trasmise Orphu. Accedo al terzo livello dii memoria. Ecco qui… da Una giornata di Ivan Denisovic. Termine dialettale collegato alla parola russa "sharashka": "uno speciale istituto scientifico o tecnico equipaggiato con prigionieri"; i prigionieri di quei campi di lavoro sovietici erano detti "zek".

Be’, trasmise Mahnmut, non credo che questi POV marziani a base clorofilliana siano prigionieri di un regime terrestre che ebbe vita breve più di duemila anni fa. Lo scambio di battute con Orphu era avvenuto in meno di due secondi. Mahnmut si rivolse al piccolo omino verde: «Vuoi dirci da dove provenite?».

Stavolta la risposta non fu in parole, ma in immagini: campi verdi, cielo azzurro, un sole molto più grande di quello nel cielo marziano, una lontana e indistinta catena di montagne nell’aria densa. «La Terra?» disse Mahnmut, sorpreso.


NON LA STELLA NEL CIELO NOTTURNO DI QUI.
UNA TERRA DIVERSA.

Mahnmut rifletté sulla risposta, ma non seppe come formulare una domanda chiarificatrice, se non con un goffo: «Quale Terra, allora?».

Il piccolo omino verde rispose solo con le stesse immagini di campi verdi, di lontane montagne, di un sole come quello che si vede dalla Terra. Mahnmut sentiva che l’energia del POV si riduceva, che l’organo simile al cuore pulsava con minore vitalità. "Lo sto uccidendo" pensò, in preda al panico.

Chiedigli delle facce di pietra, trasmise Orphu.

«Chi è l’uomo raffigurato nelle facce di pietra?» chiese Mahnmut, obbediente.


IL MAGO.
QUELLO DEI LIBRI.
SIGNORE DEL FIGLIO DI SICORACE, CHE CI PORTÒ QUI.
IL MAGO È PADRONE PERFINO DI SETEBO,
DIO DELLA MADRE DEL NOSTRO SIGNORE.

Il mago! trasmise Mahnmut a Orphu.

Significa "sacerdote", "indovino" o "stregone"… come i tre Re magi…

Maledizione! esclamò rabbiosamente Mahnmut: sprecava il tempo del piccolo omino verde moribondo. Sentiva il battito del cuore farsi più lento a ogni secondo. So cosa significa "mago", ma non credo nella magia e nemmeno tu ci credi, Orphu.

Pare però che i nostri POV ci credano, replicò Orphu. Chiedigli degli abitanti di Olympus Mons.

«Chi sono quelle persone che volano su cocchi e stanno su Olympus?» chiese Mahnmut. Aveva l’impressione di fare le domande sbagliate, ma non riusciva a pensarne di migliori.


SEMPLICI DÈI

rispose il piccolo ornino verde, fra esplosioni di immagini di nanobyte che si risolsero in parole:


TENUTI QUI IN SCHIAVITÙ
DA UN AMARO CUORE CHE IL MOMENTO ASPETTA E MORDE.

«Chi è…?» cominciò Mahnmut, ma troppo tardi: il piccolo omino verde si rovesciò di colpo all’indietro e nella mano del moravec rimase solo un involucro secco, anziché un cuore pulsante. Appena toccò il ponte, il POV cominciò ad avvizzire e a contrarsi. Un liquido chiaro fluì sulle tavole, mentre gli occhi color antracite della piccola creatura sprofondavano nella faccia cadente, verde e poi marrone, e la pelle cambiava colore, si raggrinziva, non era più la sagoma di un uomo. Altri POV si avvicinarono e portarono via l’accartocciato involucro scuro.

Mahnmut cominciò a tremare in modo incontrollabile.

«Dobbiamo trovare un altro interprete e terminare la conversazione» disse Orphu.

«Non ora» rispose Mahnmut fra un tremito e l’altro.

«"Un amaro cuore che il momento aspetta e morde"» ripeté Orphu. «Non puoi non avere riconosciuto questa citazione.»

Mahnmut scosse fiaccamente la testa, ricordò che l’amico era cieco e disse: «No».

«Ma sei tu lo studioso di Shakespeare!»

«Non è di Shakespeare.»

«No» riconobbe Orphu «è di Browning, Calibano su Setebos.»

«Non l’ho mai sentita» disse Mahnmut. Riuscì a tirarsi in piedi — due piedi, non quattro zampe — e barcollò fino alla murata. L’acqua che s’increspava lungo le fiancate della feluca adesso era più blu che rossa. Mahnmut capì che, se fosse stato una persona, avrebbe vomitato dalla murata.

«Calibano!» quasi gridò Orphu. «"Un amaro cuore che il momento aspetta e morde." La creatura deforme, parte animale marino e parte uomo, aveva per madre una strega, Sicorace, e il dio di sua madre era Setebo.»

Mahnmut ricordò che il POV morente aveva usato quelle parole, ma non riusciva a concentrarsi sul significato, ora. Tutta la conversazione era stata come infilare perle di sangue su uno spago di tessuto vivo.

«I POV non potrebbero averci sentito recitare la Tempesta tre giorni fa, quando hai ripreso il controllo della feluca?» chiese Orphu.

«Averci sentiti?» ripeté Mahnmut. «Non hanno orecchie.»

«Allora siamo noi, non loro, a fare eco a questa bizzarra realtà nuova» disse Orphu ridendo, ma con un rombo più malaugurante della sua solita risata.

«Di cosa parli?» chiese Mahnmut. A ovest erano adesso visibili rosse scogliere. Si alzavano sette, ottocento metri sull’acqua del delta sempre più ampio del Candor Chasma.

«Pare che siamo in un folle sogno» disse Orphu. «Ma la logica è coerente… in un folle modo tutto suo.»

«Ma di cosa parli?» ripeté Mahnmut. Non era dell’umore giusto per altri giochetti.

«Ora conosciamo l’identità della faccia riprodotta nelle teste di pietra» disse Orphu.

«Davvero?»

«Sì. Il mago. Quello dei libri. Signore del figlio di Sicorace.»

La mente di Mahnmut non ce la faceva nemmeno a collegare con un tratto di matita virtuale quegli evidenti puntini numerati. Aveva il sistema ancora intasato dall’ondata di nanobyte alieni, una quieta ma moribonda lucidità a lui estranea, ma gradita… davvero gradita. «Chi?» chiese a Orphu, senza curarsi se il suo amico l’avesse ritenuto lento di comprendonio.

«Prospero» rispose Orphu.

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