Per le prime due settimane Daeman e Harman vissero di lucertole nella pozza inquinata. Persero tanto di quel peso che le termotute si ridussero di due misure per restare a contatto della pelle.
Erano rimasti sconvolti per la morte di Savi. Quando Calibano (che non aveva abbandonato il cadavere della loro amica) se n’era andato, per un minuto buono si erano limitati a stare seduti, intontiti, sulla colonna di roccia, tre metri sopra la fetida acqua. Daeman aveva in mente un unico pensiero: "Ora Calibano torna a prenderci. Ora Calibano torna a prenderci". Poi Harman aveva rotto l’incantesimo: si era tuffato, piedi in avanti, nell’acqua puzzolente ed era sparito.
Daeman avrebbe ululato di terrore, se ne avesse avuto la forza, ma era riuscito solo a fissare l’increspata pellicola d’impurità: Harman l’aveva abbandonato. Dopo quelli che gli erano parsi interminabili minuti, Harman era emerso, ansimando e sputacchiando e tenendo in mano tre oggetti: due maschere osmotiche e la pistola di Savi. Si era issato sul piano di roccia più basso e Daeman, finalmente libero dalla paralisi, era sceso accanto a lui.
«È profonda solo tre metri» aveva ansimato Harman. «Altrimenti non avrei mai trovato questa roba.» Aveva dato a Daeman una maschera osmotica e si era messo l’altra, sopra il cappuccio della termotuta, senza assicurarsela sul viso. Poi aveva soppesato la pistola.
«Funziona?» aveva chiesto Daeman, con voce tremante. Aveva paura di stare così vicino all’acqua, era sicuro che da un momento all’altro sarebbe spuntato il lungo braccio di Calibano che l’avrebbe tirato di sotto. Continuava a tornargli in mente il ripugnante schiocco delle fauci del mostro che squarciavano la gola di Savi e le spezzavano la spina dorsale.
«C’è solo un modo per saperlo» aveva mormorato Harman. Anche a lui tremava la voce: Daeman non avrebbe saputo dire se per il bagno nell’acqua gelida o per il terrore.
Harman aveva puntato l’arma come aveva visto fare a Savi, infilato il dito nel ponticello del grilletto e premuto. Un cerchio d’acqua sotto la parete più lontana si era sollevato in una fontana irregolare alta un metro, mentre centinaia di dardi fendevano la superficie.
«Sì!» aveva gridato Daeman, e la voce era echeggiata nella piccola caverna. «’Fanculo Calibano!»
«Dov’è lo zaino di Savi?» aveva chiesto sottovoce Harman.
Daeman aveva indicato dov’era caduto, dietro la colonna di roccia su cui stava la vecchia. Tutti e due erano strisciati fino allo zaino e avevano frugato dentro. La torcia elettrica funzionava ancora. C’erano altri tre caricatori per la pistola, ciascuno con sette pacchetti di plastica con i dardi. Harman aveva scoperto come staccare il caricatore già inserito e aveva contato le cariche che vi restavano. Due.
«Credi che lui… che il mostro… sia morto?» aveva bisbigliato Daeman, girando la testa a dare un’occhiata a entrambi i punti dove il corso d’acqua sotterraneo entrava nella piccola caverna. L’ambiente roccioso era illuminato solo da luminescenze di funghi. «Savi l’ha colpito in pieno petto da neanche un metro» aveva proseguito Daeman. «Forse è morto.»
«No» aveva detto Harman. «Calibano non è morto. Mettiti la maschera. Dobbiamo trovare un modo per uscire di qui.»
Il corso d’acqua sotterraneo passava di grotta in grotta, poi di grotta in caverna, ognuna più vasta della precedente. La parte superiore dell’asteroide, appena sotto la città di cristallo, pareva un alveare di grotte e di tubature. Nella seconda grotta in cui emersero, Harman e Daeman trovarono schizzi di sangue sulle rocce.
«Di Savi o di Calibano?» bisbigliò Daeman.
Harman si strinse nelle spalle. «Forse di tutt’e due» rispose. Mosse il raggio della torcia elettrica sulla pietra piatta che scompariva nell’ombra dieci metri a destra e a sinistra del puzzolente corso d’acqua. Vide casse toraciche, tibie, ossa pelviche e un teschio che pareva fissarlo.
«Oddio, Savi» ansimò Daeman. Si tirò in fretta sul viso la maschera osmotica, pronto a saltare di nuovo in acqua.
Harman lo fermò, posandogli con forza la mano sulla spalla. «Non credo sia lei» disse. Si avvicinò alle ossa e mosse il raggio della torcia da una parte e dall’altra. Altri resti ridotti a scheletro erano sparpagliati su tutti i piani di roccia ai lati del corso d’acqua. «Sono resti vecchi» disse Harman. «Di mesi o di anni, forse decine di anni.» Raccolse due costole e le tenne sotto la luce: ossa di un bianco sorprendente, contro il guanto azzurro della termotuta.
Daeman vide i segni dei denti che le avevano rosicchiate. Cominciò di nuovo a tremare. «Mi spiace» si scusò in un bisbiglio.
Harman scosse la testa. «Siamo tutti e due sotto shock e affamati. Da più di due giorni non mangiamo quasi niente.» Si distese carponi su una roccia a bordo d’acqua.
«Forse nella città c’è cibo…» cominciò Daeman.
Harman infilò di scatto la mano neE’acqua. Qualcosa si dibatté furiosamente. Daeman saltò indietro, sicuro che Calibano fosse tornato, ma quando girò la testa a guardare, Harman stringeva fra le mani una lucertola albina. Non priva d’occhi, come quella che aveva urtato la colonna e decretato la fine di Savi: questa aveva occhi come grani rosa.
«Vuoi scherzare» disse Daeman.
«No.»
«Non possiamo sprecare dardi per ammazzare questa…»
Harman afferrò saldamente la lucertola all’altezza delle zampe posteriori e la sbatté contro una pietra fino a farle schizzare fuori il cervello.
Daeman sollevò la maschera osmotica, sicuro di vomitare di nuovo. Non vomitò, solo conati e borbottii di stomaco.
«Peccato che Savi non avesse un coltello nello zaino» si lamentò Harman. «Ricordi quel bel coltello da spellare che Odisseo portava sempre con sé, quando eravamo al ponte del Golden Gate? Ora ci farebbe proprio comodo.»
Daeman, tanto inorridito da non provare nemmeno nausea, fissò Harman che scheggiava una pietra grossa come un pugno, trovata fra le ossa umane. Ottenuta una rozza punta, mozzò la testa alla lucertola e cominciò a spellarla.
«Non posso mangiare quella roba» ansimò Daeman.
«Hai detto tu stesso che in città non c’è cibo» replicò Harman, senza smettere di spellare la lucertola. Un lavoro, vide Daeman, abbastanza incruento.
«Come la cuciniamo?»
«Non credo che potremo cucinarla. Savi non ha portato fiammiferi, qui non c’è materiale combustibile e nella città non c’è aria.» Strappò un pezzo di carne rossa dalla coscia superiore della lucertola, la dondolò per un minuto nella luce della torcia e poi se la cacciò in bocca. Raccolse con la bottiglia di Savi un po’ d’acqua dal torrente e mandò giù il boccone.
«Com’è?» chiese Daeman, anche se avrebbe potuto rispondersi da solo, vedendo l’espressione di Harman.
Quest’ultimo strappò una striscia più sottile e la porse a Daeman. Passarono due minuti buoni, prima che Daeman si mettesse in bocca il pezzetto di carne e lo masticasse. Non lo vomitò. Sapeva, pensò, di muco salato e di pesce. Sentì lo stomaco chiederne ancora.
Harman gli porse la torcia. «Stenditi sul bordo dell’acqua. La luce attira le lucertole.»
"E Calibano?" pensò Daeman, ma si mise carponi sul bordo dell’acqua e con la sinistra illuminò la profonda pozza, mentre con la destra si preparò ad afferrare le bianche lucertole non appena si fossero avvicinate. «Diventeremo come Calibano» borbottò sottovoce. Sentiva Harman strappare pezzi di carne e masticare nella luminescenza alle sue spalle.
«No» disse Harman, tra un boccone e l’altro. «Non diventeremo come lui.»
Emersero dalle caverne due settimane più tardi: due uomini pallidi, barbuti, emaciati, con occhi sbarrati. Risalirono a nuoto la tubatura giusta, spezzarono il sottile strato di ghiaccio nello stagno in alto e galleggiarono nella relativa luminosità della città di cristallo.
Stranamente, fu proprio Daeman a insistere per salire.
«Qua sotto è più facile difendersi da Calibano» obiettò Harman. Con un pezzo dello zaino di Savi si era fatto una sorta di fondina per la pistola. Dormivano a turno contro una parete della grotta e, mentre uno sonnecchiava, l’altro montava la guardia, con la torcia e la pistola.
«Non importa» disse Daeman. «Dobbiamo andare via da questo sasso.»
«Forse Calibano è moribondo per le ferite» disse Harman.
«O forse è già guarito» replicò Daeman. I due si assomigliavano di più, ora che Daeman era dimagrito e che tutt’e due avevano la barba lunga. Quella di Daeman era un po’ più folta e più scura di quella di Harman. «Non importa» ripeté Daeman. «Dobbiamo trovare il modo di andarcene.»
«Non posso tornare nello spedale» disse Harman.
«Dobbiamo andarci. Potrebbe essere l’unico portale fax dell’anello orbitale.»
«Me ne frego» replicò Harman. «Non posso entrare di nuovo in quel mattatoio. E poi i portali fax sono per i corpi che transitano per essere riparati. I nodi fax devono avere il codice di quelle persone.»
«Cambieremo i codici, se necessario» disse Daeman.
«Come?»
«Non lo so. Guarderemo i servitori faxare la gente e faremo ciò che fanno loro.»
«Savi ha detto che secondo lei i nostri codici non erano più validi per il fax» obiettò Harman.
«Non ne era sicura. È stata fuori del giro dei fax per più di mille anni. Ma come minimo dobbiamo esplorare il resto della città post-umana lassù.»
«Perché?» chiese Harman. Aveva maggiore difficoltà di Daeman a dormire ed era di pessimo umore.
«Da qualche parte potrebbe esserci un’astronave» spiegò Daeman.
Harman allora cominciò a ridere, piano sulle prime, poi sempre più forte, senza controllarsi, al punto da farsi venire le lacrime agli occhi.
Daeman fu costretto a dargli un pizzicotto sul braccio per richiamare la sua attenzione. «Forza» disse. «Sappiamo quale tubatura va in superficie. Seguimi. Sparerò al ghiaccio per aprirci la strada, se occorre.»
Nelle due settimane seguenti esplorarono il resto della città, dormendo in sgabuzzini e bugigattoli, sempre uno alla volta, con l’altro di guardia. Daeman sognava ogni volta di cadere e si svegliava di colpo, gambe e braccia in lotta contro la gravità zero. Sapeva che Harman faceva il suo stesso sogno, perché dormiva per periodi più brevi e si svegliava ansimando e agitando le braccia.
La città di cristallo era uniformemente morta, anche se le torri sul lato lontano dell’asteroide lungo quasi due chilometri erano più elaborate, con più terrazze e spazi chiusi. Da tutte le parti galleggiavano i resti mummificati e mezzo divorati di donne post-umane. Daeman e Harman avevano sempre fame, anche se lo zaino di Savi era pieno di filetti di lucertole anfibie, e a volte Daeman sentiva brontolare lo stomaco alla vista di carnosi resti mummificati. La necessità di rifornirsi d’acqua, però, li costringeva a tornare a una delle pozze ghiacciate ogni tre giorni circa.
Anche se s’aspettavano d’incontrare Calibano dietro ogni angolo, solo di tanto in tanto trovarono a mezz’aria qualche globulo di sangue che forse apparteneva a lui. Il terzo giorno, quando erano usciti dalle caverne e cominciavano appena ad abituare gli occhi alla maggiore luminosità del chiarore terrestre che entrava dai pannelli trasparenti posti in alto, trovarono un polso con tutta la mano, librato come un ragno morto sopra i più fitti letti di fuchi, che forse era appartenuto a Savi. Quella notte ("notte" erano i brevi periodi di venti minuti in cui la Terra non illuminava i pannelli trasparenti) udirono provenire dallo spedale un terribile urlo lamentoso che poteva essere di Calibano. Il grido pareva trasmesso, più che dall’aria rarefatta, dal suolo dell’asteroide e dagli insoliti materiali delle torri intorno a loro.
Un mese dopo il loro arrivo in quell’inferno orbitale, avevano esplorato tutta la città, a parte due zone: la parte in fondo allo spedale, al di là del punto dove avevano incontrato per la prima volta Calibano, e un lungo corridoio buio proprio nella zona dove la città faceva una stretta curva intorno al polo nord dell’asteroide. Quello stretto corridoio, non più di venti metri di larghezza, era privo di finestre e pieno di fuchi (un nascondiglio perfetto per un Calibano in via di guarigione) e nel loro primo giro per la piccola luna avevano deciso di comune accordo di non entrare in quel locale buio e di ispezionare invece il resto della città dei post-umani. Ora l’avevano fatto (non avevano trovato astronavi né altre camere d’equilibrio né sale di comando né altri spedali né magazzini pieni di cibo né altre fonti d’acqua) e potevano scegliere fra tornare nelle caverne per fare provvista di lucertole, poiché erano ridotti agli ultimi pezzetti in via di putrefazione, oppure tornare allo spedale e provare i fax incorporati nelle vasche o esplorare il corridoio buio e pieno di fuchi.
«Il corridoio» votò Harman.
Daeman si limitò ad annuire stancamente.
A furia di calci si fecero strada nell’intrico di fuchi e uno teneva la mano sul braccio dell’altro per non perdersi. Quel giorno era Daeman a impugnare la pistola e la puntava contro ogni spettrale movimento dei fuchi. Senza finestre né la luce riflessa del nucleo centrale della città, solo il raggio della torcia di Savi mostrava la via. Tutt’e due si chiesero quanto sarebbe durata la carica della torcia, ma nessuno espresse a voce quella preoccupazione. Daeman si rassicurò ricordando la fioca luminescenza dei funghi in parecchie caverne sotterranee, non in tutte, sufficiente a permettere la caccia alle lucertole, con un po’ di fortuna; ma la verità era che lui non voleva tornare mai più in quel terreno di caccia, in quell’ossario. Solo due notti prima aveva fatto domande a Harman sul vuoto quasi assoluto intorno a loro. «Cosa pensi che mi accadrebbe, se mi togliessi la maschera?»
«Moriresti» aveva risposto Harman, senza alcuna emozione. Il vecchio stava male (una condizione che gli esseri umani non avevano sperimentato spesso, poiché lo spedale si occupava di mantenerli in salute) e aveva brividi di freddo, malgrado la termotuta preservasse tutto il suo calore corporeo. «Moriresti» aveva ripetuto Harman.
«Velocemente?»
«Lentamente, direi.» Aveva la termotuta sporca di fango e di sangue di lucertola. «Per asfissia. Ma qui non c’è il vuoto assoluto, perciò lotteresti a lungo per respirare.»
Daeman annuì. «E se mi togliessi la termotuta e conservassi la maschera?»
Harman rifletté. «La morte sarebbe più veloce» ammise. «Geleresti fino a morire in un minuto, anche meno.»
Daeman non aveva aggiunto altro; pensava che Harman fosse scivolato di nuovo nel sonno, quando sentì nella radio il bisbiglio del vecchio: «Ma prima di farlo, dimmelo, d’accordo, Daeman?».
«Va bene» rispose lui.
Nel corridoio trovarono ammassi di fuchi così fitti che furono quasi costretti a rinunciare; ma se uno li piegava e li spingeva da parte, l’altro poteva avanzare e così riuscirono a percorrere a fatica, scalciando e dimenandosi, i duecento metri di corridoio buio. In fondo c’era una parete, proprio quello che ci mancava dopo tanta fatica, ma Daeman continuò a muovere il raggio della torcia al di là dei fuchi e a un tratto scorsero a malapena un riquadro bianco nella paratia scura. Daeman aveva la pistola, perciò attraversò per primo la membrana semipermeabile.
«Cosa vedi?» chiese Harman per radio. Ancora non aveva attraversato la membrana. «Riesci a vedere qualcosa?»
«Sì.» La risposta giunse dal trasmettitore nella termotuta di Daeman, ma la voce non era quella di Daeman. «Riesce a vedere cose meravigliose.»