Savi seguì la Breccia atlantica che tagliava l’oceano, a volte volando al di sotto della muraglia d’acqua, in un continuo saliscendi ogni pochi chilometri per evitare che il sonie urtasse la rete di cavi elettrici che intersecavano la Breccia come tubature trasparenti in un lungo corridoio verde.
Sdraiato bocconi alla sinistra di Savi, Daeman, osservando Harman nel posto alla destra della donna, fu colpito dalla sua espressione torva e dal vuoto negli incavi per i passeggeri dietro di loro. Pensò alle ultime ventiquattr’ore.
Pareva che Harman e Ada avessero litigato, quando il sonie aveva lasciato la zona dei grandi alberi. Sulle prime Daeman se n’era rallegrato. Non sapeva quale fosse la causa del litigio, ovviamente, ma era chiaro che, dopo la passeggiata nel bosco, i due erano agitati: Ada pareva fredda e distante, ma dentro di sé ribolliva; Harman era chiaramente perplesso. Tuttavia, dopo le ore di volo per raggiungere villa Ardis e gli eventi lì accaduti (e la sua stessa decisione di continuare in quella ricerca insensata), Daeman vedeva la tensione fra Harman e Ada solo come un’altra fonte di preoccupazione.
Erano giunti a villa Ardis nel tardo pomeriggio. Dall’alto, la tenuta e il terreno parevano diversi, per lo meno a Daeman, anche se la configurazione delle colline, della foresta, dei campi e del fiume era proprio come la ricordava. Ogni volta che pensava al picnic giù al fiume, per quella sciocca esibizione di colata di metallo fuso fatta da Hannah, gli tornava alla mente il dinosauro che lo assaliva e il cuore cominciava a battergli più forte.
«Questa zona era chiamata Ohio, nell’ultima parte dell’Età Perduta» aveva detto Savi, mentre facevano un ampio giro e poi perdevano quota. «Mi pare, almeno.»
«Credevo fosse chiamata Nord America» aveva replicato Harman.
«Anche. Avevano più nomi del necessario per indicare i luoghi.»
Erano atterrati a cinquecento metri da villa Ardis, in un pascolo a nord di un filare d’alberi frangivento. Daeman aveva di nuovo bisogno di andare al gabinetto, ma non se la sentiva proprio di percorrere a piedi tutta la strada fino alla villa, con il rischio di incontrare un dinosauro.
«Non c’è pericolo» aveva detto Ada, brusca, nel vedere che Daeman, l’unico rimasto a bordo, esitava a scendere dal sonie. «A tre o quattro chilometri dalla villa ci sono voynix di pattuglia lungo tutto il perimetro.»
«Quanto distava da qui il luogo del picnic al metallo fuso di Hannah?» aveva ribattuto Daeman.
«Cinque chilometri e mezzo» aveva risposto Hannah. Era in piedi accanto a Odisseo, dietro il sonie.
Ada si era rivolta a Savi. «Sei sicura di non voler venire in casa?»
«Non posso» aveva risposto la vecchia. Aveva teso la mano e dopo un secondo Ada gliel’aveva stretta. Daeman non aveva mai visto prima due donne stringersi la mano. «Aspetterò qui Harman e Daeman» aveva soggiunto Savi.
Ada aveva guardato Harman. «Tu vieni a villa Ardis per qualche minuto, vero?»
«Solo per salutare.» Avevano continuato a guardarsi, senza abbassare gli occhi.
«Ci muoviamo, allora?» aveva detto Daeman. S’era reso conto di avere usato un tono piagnucoloso, ma se n’era fregato. Doveva andare.
Allora tutti, tranne Savi, si erano incamminati verso la villa, passando nel campo d’erba alta fino alla cintola, evitando qua e là un bovino di cui scorgevano solo la testa (Daeman girava alla larga dalle mucche perché si sentiva a disagio in vicinanza di grossi animali), quando a un tratto un voynix solitario era sbucato dal filare d’alberi di fronte a loro.
«Era quasi ora» aveva detto Daeman. «Questa camminata è assurda.» Aveva gesticolato verso la sagoma di ferro e cuoio. «Tu! Torna alla villa a prendere due grossi calessi per portarci laggiù!»
Incredibilmente il voynix non aveva badato a Daeman e aveva continuato a camminare verso il gruppetto o, per essere precisi, verso Odisseo.
Questi aveva spinto Hannah lontano da sé, mentre il voynix privo d’occhi s’avvicinava lentamente.
«È solo curioso» aveva detto Ada, ma in tono non molto convinto. «Probabilmente non ha mai…»
Il voynix era già a un metro e mezzo, quando Odisseo aveva estratto la spada, attivato col pollice la lama ronzante e vibrato un colpo a due mani, tagliando in diagonale il presunto impenetrabile guscio pettorale e il braccio sinistro del voynix. Per un secondo il voynix era rimasto lì, in apparenza sorpreso quanto i quattro umani per il comportamento di Odisseo, ma poi la metà superiore della creatura era scivolata di lato, si era inclinata ed era caduta a terra, con movimenti spasmodici del braccio sinistro. La parte inferiore del tronco e le gambe erano rimaste in piedi per vari altri secondi e poi erano ruzzolate nell’erba.
Per un minuto c’era stato silenzio, rotto solo dal fruscio del vento nell’erba alta. Poi Harman aveva gridato: «Perché diavolo l’hai fatto?». Un fluido blu, denso come sangue, era colato dappertutto.
Odisseo aveva indicato il braccio destro del voynix, ancora attaccato alla parte inferiore del corpo. Mentre ripuliva con l’erba la spada, aveva detto: «Aveva estratto le lame per uccidere».
Era vero. Radunatisi intorno al voynix abbattuto, i quattro avevano visto le lame (adoperate per difendere gli esseri umani da pericoli come i dinosauri) dove di norma c’erano i manipolatori.
«Non capisco» aveva detto Ada.
«Non ti ha riconosciuto» aveva spiegato Hannah, scostandosi ancora di un passo da Odisseo. «Forse ti ha ritenuto una minaccia per noi.»
«No» aveva detto Odisseo, rimettendo nel fodero la spada.
Daeman, sgomento e affascinato, aveva fissato la sezione trasversale del voynix: morbidi organi bianchi, una profusione di tubicini blu, agglomerati di quelli che parevano grappoli rosa, sicuramente non i meccanismi e gli ingranaggi che aveva sempre immaginato sì trovassero all’interno di un voynix di servizio. L’improvvisa e rapida violenza e ora il biancastro sangue visibile avevano fatto rischiare a Daeman di perdere il controllo delle viscere, impazienti di liberarsi. «Su, andiamo» aveva detto e si era incamminato svelto verso villa Ardis.
Gli altri avevano frainteso e, credendo che volesse prendere il comando, l’avevano seguito.
Solo dopo avere usato la toilette, avere trovato il tempo di fare una doccia, radersi, ordinare al più vicino servitore di portargli abiti puliti e avere girato in cucina alla ricerca di qualcosa da mangiare, Daeman si era reso conto che era follia andare ancora con Harman e con quella vecchia strega pazza. A quale scopo?
Villa Ardis, malgrado l’assenza di Ada (o forse proprio per questo) era piena di amici che vi si erano faxati per fare visita e festeggiare. I servitori li accontentavano con cibi e bevande. I giovani, comprese diverse belle ragazze che Daeman aveva conosciuto in altre feste, in altri luoghi, nella vita felice prima di Harman e di quella stupida ricerca, facevano partite a pallacerchio nell’ampio prato in pendenza. La serata era piacevole, ombre lunghe sull’erba, nell’aria risate come tintinnio di campanelle e la cena preparata da servitori sul lungo tavolo sotto il gigantesco castagno.
Daeman si disse che poteva restare lì, consumare un pasto come si deve e prendersi una buona notte di sonno o, meglio ancora, chiamare un voynix per la breve corsa in calesse fino al portale fax e andare a letto a casa sua a Cratere Parigi, dopo una cenetta di mezzanotte preparata da sua madre. Gli mancava, sua madre: per più di due giorni non era stato in contatto con lei. Guardò il voynix nella curva del vialetto a lato della grande villa e sentì una punta d’ansia: il gesto di Odisseo, la distruzione di quel voynix, era stato ingiustificato e folle. Una persona normale non danneggia né distrugge i voynix, come non incendia una troika né demolisce il proprio domi. Era un gesto insensato, pensò Daeman, e un altro motivo che avrebbe dovuto spingerlo subito lontano da quella gente.
Uscì nel vialetto e vide da una parte Harman e Ada che parlavano sottovoce, ma in tono pressante. Più in giù nel pendio a prato, Hannah presentava Odisseo a vari ospiti incuriositi. I voynix si tenevano a grande distanza da Odisseo, ma Daeman non capì se per caso o di proposito. Si chiese se i voynix comunicassero tra loro e, in caso affermativo, in che modo. Non aveva mai sentito uno di loro emettere suoni.
Indicò a gesti a un voynix di portare un calessino proprio mentre la discussione tra Harman e Ada terminava: lei rientrò in casa a passo deciso, Harman girò sui tacchi e attraversò il vialetto per tornare nei campi e al sonie. Si avvicinò a Daeman, con un’espressione così truce che quest’ultimo arretrò di qualche centimetro.
«Vieni con noi?»
«Ah… be’… no» balbettò Daeman. Il voynix si avvicinò al piccolo trotto, tirandosi dietro il calessino a ruota singola, con un luccichio di selleria nella luce della sera e un ronzio di giroscopi.
Harman si girò senza dire altro e si inoltrò nel campo dietro la villa.
Daeman salì sul calessino, ordinò al voynix: «Portale fax» e si appoggiò allo schienale, mentre il veicolo girava nel vialetto, con uno scricchiolio di ghiaia sotto la ruota. Una delle giovani donne sul prato (a Daeman pareva di ricordare che si chiamasse Oelleo) gli gridò un saluto. Il calesse proseguì verso la strada, col silenzioso voynix che trottava fra le stanghe.
«Alt» disse Daeman. Il voynix si fermò di colpo, senza mollare le stanghe. Il giroscopio interno continuò a ronzare piano.
Daeman si girò a guardare dietro di sé villa Ardis, ma non vide Harman, già lontano fra gli alberi. Senza una ragione particolare si ritrovò a chiedersi dove avesse conosciuto Oelleo: a una festa a Bellinbad due estati prima? Alla quarta Ventina di Verna, a Chom, solo qualche mese fa? A una delle feste che lui organizzava a Cratere Parigi e che duravano tutta la notte?
Non riusciva a ricordarlo. Aveva dormito con lei? Aveva un’immagine di Oelleo nuda, ma forse gli era rimasta da una festa in piscina o da una delle mostre d’arte vivente tanto di moda l’inverno precedente. Non riusciva a stabilire se si era portato a letto quella donna. Ce n’erano talmente tante!
Ripensò ai festeggiamenti per la seconda Ventina di Tobi, a Ulanbat, solo tre giorni prima. Un ricordo sfocato: una confusione di risa e di sesso e di bevande che si mischiava con tutte le altre feste nei pressi di tutti gli altri nodi fax. Ma quando cercò di ricordare la Valle Secca in… come si chiamava? Antartide?… o l’iceberg o il ponte Golden Gate sopra Machu Picchu o perfino la stupida foresta di sequoie, tutto era chiaro, netto, preciso.
Scese dal calessino e s’inoltrò nei campi. "È una follia" pensò. "Follia, follia, follia." A metà strada dalla linea degli alberi, si lanciò in una corsa goffa e sgraziata.
Quando raggiunse il margine più lontano del campo, era senza fiato e sudava copiosamente. Il sonie era già andato via, rimaneva solo una depressione nell’erba alta vicino al muretto di pietra dove era atterrato.
«Maledizione!» imprecò Daeman, guardando il cielo della sera, vuoto a parte gli anelli equatoriale e polare in movimento. «Maledizione.» Si accasciò a sedere sul muretto di pietra, scivoloso per il muschio. Alle sue spalle, il sole tramontava. Chissà perché, a Daeman venne voglia di piangere.
Il sonie giunse da nord, a bassa quota, sfiorando gli alberi; calò in picchiata e rimase sospeso a tre metri da terra.
«Ho pensato che forse avresti cambiato idea» disse Savi. «Vuoi uno strappo?»
Daeman si alzò.
Avevano volato a est nel buio, salendo tanto in alto che le stelle e gli anelli orbitali illuminavano la parte superiore delle nubi già accese da fulmini, che s’increspavano come visibili peristalsi in interiora color latte. Quella notte fecero sosta vicino alla costa e dormirono in una bizzarra capanna sui rami di un albero, composta di piccole domi-case indipendenti e collegate da piattaforme e scale a chiocciola. La struttura aveva servizi igienici, ma mancavano servitori e voynix; e, nelle vicinanze, non c’erano altre persone né abitazioni.
«Hai molti posti come questo dove fermarti?» chiese Harman a Savi.
«Sì» rispose la vecchia. «Lontano dai vostri trecento nodi fax, la maggior parte della Terra è disabitata, sai. Dagli uomini, almeno. Qua e là ho dei posticini cui sono affezionata.»
Erano seduti fuori, in una sorta di piattaforma da pranzo a metà dell’alto albero. Sotto di loro, lucciole svolazzavano nella radura erbosa ingombra di enormi macchine antiche arrugginite, che erano state in gran parte reclamate dalle piante e dalle felci e dal terriccio del pendio della collina. La luce degli anelli filtrava tra le foglie e dipingeva di bianco l’erba alta. La tempesta sorvolata poco prima non era ancora giunta così lontano a est e la notte era calda e serena. Anche se mancavano i servitori, nella capanna c’erano frigoriferi pieni di cibo e Savi aveva provveduto a cucinare tagliatelle, carne e pesce. Daeman cominciava quasi ad abituarsi alla bizzarra idea di prepararsi il proprio cibo.
A un tratto Harman chiese a Savi: «Sai perché i post-umani hanno lasciato la Terra e non sono più tornati?».
Daeman ripensò all’esperienza patita nella radura delle sequoie quello stesso giorno e al solo ricordo sentì un inizio di nausea.
«Sì» ammise Savi «credo di saperlo.»
«Ce lo dirai?» chiese Harman.
«Non adesso» rispose la vecchia. Si alzò e risalì la scala a chiocciola lungo il tronco fino a un domi illuminato, dieci metri più in alto.
Harman e Daeman si guardarono nella fioca luce, ma non avevano niente da dirsi; alla fine, ognuno si ritirò in un domi per riposare.
Seguirono a grande velocità la Breccia che tagliava l’Atlantico, virarono a sud prima di raggiungere la terraferma e volarono in parallelo a quelle che Savi chiamò le Mani d’Ercole.
«Sorprendente» disse Harman, alzandosi quasi in ginocchio per guardare alla loro sinistra, mentre volavano verso sud.
Daeman dovette convenire. Fra una grossa montagna dalle pendici a lastroni a nord (che Savi chiamò Gibilterra) e una montagna più bassa circa quindici chilometri a sud, l’oceano si fermava, semplicemente, e restava fuori del profondo bacino che si estendeva a est, trattenuto da una serie di enormi mani d’oro che s’innalzavano dal letto marino. Ciascuna mano era alta più di centocinquanta metri e le dita allargate impedivano alla muraglia d’acqua dell’Atlantico di riversarsi nel bacino del Mediterraneo prosciugato che si perdeva, come una valle sempre più profonda, nelle nubi e nelle nebbie verso est.
«Perché queste mani?» chiese Daeman, mentre raggiungevano la terraferma sul lato sud del bacino ammantato di nebbia e viravano di nuovo a est. «I post non potevano usare campi di forza per trattenere il mare, come hanno fatto per la Breccia?»
Savi scosse la testa. «Le Mani d’Ercole c’erano già prima che nascessi e i post non ci hanno mai spiegato il perché di quella scelta. Ho sempre sospettato che l’abbiano fatto solo per capriccio.»
«Per capriccio» ripeté Harman. L’idea parve turbarlo.
«Sei sicura che non possiamo volare direttamente sopra il bacino?» chiese Daeman.
«Sono sicura» rispose Savi. «Il sonie cadrebbe giù come una pietra.»
Per tutto il pomeriggio sorvolarono paludi, laghi, foreste di felci e larghi fiumi in un territorio che Savi chiamò Sahara settentrionale. In breve le paludi rimpicciolirono fino a sparire del tutto e il terreno divenne più arido, più roccioso. Branchi di centinaia di animali dal mantello a strisce (non dinosauri, ma grossi come dinosauri) si spostavano per le praterie e le alture rocciose.
«Che animali sono?» chiese Daeman.
Savi scosse la testa. «Non ne ho idea.»
«Se fosse qui, Odisseo probabilmente ne vorrebbe uccidere uno da mangiare a cena» disse Harman.
Savi ridacchiò.
Nel tardo pomeriggio si abbassarono di quota, girarono intorno a un’insolita città cinta di mura, posta sulle alture a soli quaranta chilometri dal bacino del Mediterraneo, e si posarono su una piana rocciosa a ovest della città stessa.
«Che posto è questo?» chiese Daeman. Non aveva mai visto mura né edifici così vecchi: anche da lontano, mettevano a disagio.
«Si chiama Gerusalemme» rispose Savi.
«Credevo che saremmo scesi nel bacino alla ricerca di astronavi» disse Harman.
Savi sbarcò dal sonie e si stiracchiò. Pareva molto stanca, pensò Daeman, ma a pensarci bene aveva pilotato il velivolo per due giorni filati.
«Infatti» rispose Savi. «Qui troveremo un mezzo di trasporto. E c’è una cosa che voglio mostrarvi al calar del sole.»
Daeman la ritenne una promessa di cattivo augurio, ma seguì Savi e Harman per la piana rocciosa, fra macerie di quelli che forse un tempo erano i sobborghi o le zone più recenti della città vecchia cinta di mura, ma che adesso erano una spianata in salita, pavimentata di pietre consumate e ridotte a ciottoli. Savi li guidò fino a una porta nelle mura, che varcarono, e mentre camminavano proseguì in una narrazione in gran parte priva di senso. L’aria era secca e rinfrescante, la luce del sole basso all’orizzonte dava colore agli antichi edifici.
«Questa era la porta di Giaffa» disse Savi, come se quella parola avesse un significato per loro. «E questa è via Davide, che un tempo separava il quartiere cristiano da quello armeno.»
Harman diede un’occhiata a Daeman. Era chiaro, pensò Daeman, che nemmeno il vecchio, così istruito e così orgoglioso della sua inutile capacità di leggere, aveva mai udito le parole "cristiano" o "armeno". Ma Savi continuò a blaterare, indicò fra le rovine alla loro sinistra un edificio chiamato chiesa del Santo Sepolcro e nessuno dei due la interruppe con una domanda, finché Daeman non domandò: «Qui non ci sono voynix e servitori?».
«Adesso no» disse Savi. «Ma quando i miei amici Pinchas e Petra erano qui, negli ultimi minuti prima del fax finale, quattordici secoli fa, nei pressi del Muro occidentale c’erano decine di migliaia di voynix improvvisamente attivi.» Si fermò e guardò prima l’uno, poi l’altro. «Sapete, vero, che i voynix sbucarono dalla nube cronoclastica due secoli prima del fax finale, ma erano immobili, statue di ferro e di ruggine, non gli obbedienti servitori di adesso? È importante ricordarlo.»
«Sì, certo» disse Harman, con una traccia di condiscendenza nel tono, come se pensasse che la vecchia parlava a vanvera. «Ma hai detto che eri in un iceberg nei pressi dell’Antartide, quando avvenne il fax finale. Come sai dov’erano i tuoi amici e che cosa facevano i voynix?»
«Registrazioni farnet, proxnet e allnet» rispose Savi. Si girò e li guidò più avanti verso est lungo la strada.
Harman diede di nuovo un’occhiata a Daeman, quasi a condividere la preoccupazione per quei discorsi insensati, ma Daeman provò un impulso di… orgoglio? superiorità?… nel rendersi conto di sapere che cosa aveva voluto dire Savi quando aveva parlato di farnet e di proxnet. Si guardò la palma e accese la funzione di ricerca, ma non comparve nessun riquadro luminoso. Che cosa sarebbe accaduto, si chiese, se avesse visualizzato quattro rettangoli blu sopra tre cerchi rossi sopra quattro triangoli verdi per richiamare la funzione dati completi, come Savi gli aveva insegnato nella radura della foresta, il giorno prima?
Savi si fermò e disse, come se gli avesse letto nella mente: «Qui non ti conviene richiamare la funzione allnet, Daeman. Non saresti virtualmente immerso in interazioni di energia e microclima come nella foresta, qui a Gerusalemme. Ti troveresti di fronte a cinquemila anni di sofferenze, di terrore e di virulento antisemitismo».
«Antisemitismo?» ripeté Harman.
«Odio per gli ebrei» spiegò Savi.
Harman e Daeman si guardarono, perplessi. Quel concetto non aveva senso.
Daeman cominciava a rimpiangere d’avere cambiato idea. Era affamato. Il sole tramontava alle loro spalle. Lui non sapeva dove avrebbe dormito quella notte, ma sospettava che sarebbe stato un posto scomodo.
«Andiamo» disse Savi e li guidò per un altro isolato, sotto arcate di pietra, per uno stretto vicolo e poi in uno spiazzo dominato da un alto muro spoglio.
«È questo che siamo venuti a vedere?» chiese Daeman, deluso. Era un vicolo cieco, un cortile circondato da muri più bassi, edifici di pietra e quell’alto muro con una sorta di struttura circolare, metallica, appena visibile sulla sommità. Non c’era modo di salirvi, da lì.
«Pazienta un poco» disse Savi. A occhi socchiusi guardò il sole al tramonto. «Oggi è il Tisha b’Av, proprio come il giorno del fax finale.»
Con l’aria di chi è stufo di ripetere parole senza senso, Harman disse: «Tisha b’Av?».
«Il nove di Av» disse Savi. «Un giorno di lamentazioni. Sia il Primo sia il Secondo Tempio furono distrutti il Tisha b’Av e credo che i voynix abbiano costruito questo blasfemo Terzo Tempio il nove di Av nel giorno del fax finale.» Indicò la mezza cupola di metallo nero al di là del muro.
All’improvviso ci fu un rombo così profondo che Daeman si sentì battere i denti e tremare le ossa. Lui e Harman arretrarono di un passo, spaventati, nell’aria così carica di ozono e di elettricità statica che a Daeman si rizzarono i capelli e ondeggiarono come erba alta sotto un forte vento; con un esplosivo schianto più veloce e più forte di un colpo di fulmine, una solida landa di luce azzurra pura, brillante, accecante, larga una ventina di metri, saettò dalla mezza cupola di metallo nero, trafisse il delo della sera e scomparve, dritta come una frecda, nello spazio, mancando per un pelo l’anello equatoriale orbitante nella sua eterna rotazione verso est.