Ada, Harman e Hannah attesero due giorni, l’intervallo minimo ritenuto decente dopo una visita allo spedale, poi si faxarono a Cratere Parigi per trovare Daeman. Era tardi, c’era buio e faceva freddo e (scoprirono non appena misero piede fuori del nodo fax Gare di Leoni) pioveva. Harman trovò una carrozzella coperta e un voynix li tirò in direzione nordovest lungo un letto di fiume asciutto pieno di bianchi teschi, passando davanti a chilometri di edifici diroccati.
«Non sono mai stata a Cratere Parigi» disse Hannah. Alla giovane donna, cui mancavano solo due mesi per compiere la prima Ventina, non piacevano le grandi città. Cratere Parigi, uno dei nodi fax più popolosi, contava venticinquemila residenti.
«È una ragione per cui ci siamo faxati al nodo Gara di Leoni anziché all’Hotel Invalido che è più vicino al bordo, dove abita Daeman» disse Ada. «Tutto, in questa città, è antico. Vale la pena di prendersela comoda e dare un’occhiata in giro.»
Hannah annuì, con aria dubbiosa. Le file e file di edifici di pietra e di ferro, in gran parte rivestiti di luccicante eterplast, parevano vuoti e bui e lucidati alla buona sotto la pioggia. Servitori e globi luminosi si libravano qua e là per le vie buie, voynix silenziosi e immobili erano fermi agli angoli, ma si vedevano poche persone. D’altra parte, come notò Hannah, erano le dieci di sera passate. Anche una città cosmopolita come Cratere Parigi doveva dormire.
«Quella sì che è interessante» disse Hannah, indicando la struttura che si alzava di trecento mètri sopra la città.
Harman annuì. «Inizio dell’Età Perduta. Alcuni dicono che sia antica come Cratere Parigi, forse addirittura antica come la città che sorgeva qui prima del cratere. È un simbolo della città e della gente che la costruì, moltissimo tempo fa.»
«Interessante» disse di nuovo Hannah. Alta trecento metri, la rozza figura di donna nuda pareva fatta di polimero trasparente. La testa era a tratti velata da basse nubi, poi compariva per breve tempo e Hannah vide che la faccia era priva di lineamenti, a parte le rosse labbra socchiuse in un sogghigno. Nere molle ritorte, lunghe quindici metri, scendevano a spirale come riccioli dalla testa sferica. Le gambe erano allargate, i piedi nascosti dagli edifici scuri a ovest, ma le cosce unite erano larghe come villa Ardis. I seni enormi, globulari, da fumetto, alternativamente si riempivano e si vuotavano di liquido rosso ribollente e fotoluminescente, che ora saliva ora scendeva di livello e ora si riversava a cascata nel ventre e nell’interno delle gambe, per poi risalire fino alle braccia alzate e alla faccia sorridente. La luce emessa dal ventre luccicante, dai seni e dalle massicce natiche dipingeva di rosso rubino la parte superiore di strutture più alte intorno al cratere.
«Come si chiama?» domandò Hannah.
«La putaine énorme» rispose Ada.
«Cosa significa?»
«Nessuno lo sa» rispose Harman. Disse al voynix di girare a sinistra su un ponte traballante e si diressero con rumore di zoccoli su quello che era stato un isolotto quando l’acqua scorreva nel fiume di teschi secchi, verso le rovine di un edificio che un tempo era di sicuro molto largo. Ora una bassa cupola che brillava di luce violacea sporgeva fra le mura diroccate come un bizzarro uovo in un nido di sassi sparsi.
«Aspetta qui» disse Harman al voynix e guidò le due donne fra le rovine invase d’erbacce e poi nella cupola luminosa.
Al centro c’era una lastra di pietra bianca, alta circa un metro e venti. C’erano grondaie alla base della lastra e canali di scolo nel pavimento di pietra. Dietro la lastra si alzava una rozza statua di un uomo nudo, scolpita nella stessa pietra bianca. L’uomo reggeva un arco con la freccia incoccata.
«Questo è marmo» disse Hannah, toccando il blocco. Lo riconosceva. «Che posto è?»
«Un tempio dedicato ad Apollo» spiegò Harman.
«Ho sentito parlare di questi nuovi templi» disse Ada «ma non ne avevo mai visto uno. Credevo che fossero rari… qualche altare nella foresta, eretto come una trovata scherzosa, questo genere di cose.»
«Ci sono templi come questo in tutto Cratere Parigi e nelle altre grandi città» disse Harman. «Dedicati ad Atena, Zeus, Ares… a tutti gli dèi che compaiono nel lino.»
«Le grondaie e i canali di scolo…» cominciò Hannah.
«Raccolgono il sangue degli animali offerti in sacrificio» spiegò Harman. «In genere pecore e vitelli.»
Hannah si allontanò dalla lastra e incrociò le braccia. «Non mi dirai che la gente… uccide gli animali?»
«No» ammise Harman. «Ci pensano i voynix. Per ora.»
Ada si fermò nel vano della porta. La pioggia gocciolava nel portale luminoso, formando una cascata d’acqua colorata di viola. «Cos’era, prima, questo posto? Queste rovine?»
«Sono abbastanza sicuro che fosse un tempio dell’Età Perduta» disse Harman.
«Dedicato ad Apollo?» chiese Hannah. Teneva le braccia strette intorno al corpo irrigidito.
«Non credo. Nelle macerie ci sono frammenti di statue. Figure non di dèi, non di persone, non di voynix… di demoni, credo. C’è un’antica parola per indicarli, "garguglie", ma non so bene che cosa volesse significare.»
«Usciamo di qui» disse Ada. «Andiamo a trovare Daeman.»
Dall’altra parte del fiume di teschi e di nuovo a ovest, verso il cratere, gli ampi viali terminavano dove gli edifici dell’Età Perduta erano coronati da strutture più nuove (alcune nuovissime, forse meno di un migliaio d’anni) e più alte, un crescente intreccio di buckycarbonio nero e di bambù-3 luccicante di pioggia. Hannah richiamò la funzione di ricerca per trovare Daeman: il rettangolo luminoso sospeso sulla sua palma sinistra divenne ora color ambra, ora rosso, poi di nuovo verde, mentre loro prendevano scale e ascensori dal livello stradale all’ammezzato e da lì alla spianata pensile, quindici piani sopra i vecchi tetti, poi salivano ancora, dalla spianata alle torri residenziali. Hannah si soffermò sulla spianata per guardare giù dal parapetto, ipnotizzata come quasi tutti quelli che vedevano per la prima volta il rosso occhio immobile, chilometri e chilometri nel nero cerchio del cratere senza fondo; Ada dovette tirarla via, prendendola per il braccio, e guidarla all’ascensore e alla scala seguenti.
A sorpresa, fu una persona, non un servitore, a venire alla porta del domi di Daeman. Ada presentò il gruppetto e la donna, che pareva sui quarantacinque anni come tutti quelli della terza e della quarta Ventina, disse di essere Marina, madre di Daeman. Li guidò per corridoi dai caldi colori e per scale interne e per stanze comuni, fino alle aree private del complesso del domi sul fianco del cratere.
«Il servitore ci ha portato il messaggio che annunciava il vostro arrivo, naturalmente» disse Marina, fermandosi davanti a una porta di mogano dai magnifici intagli. «Ma a Daeman non ne ho parlato. È ancora, be’… scosso per l’incidente.»
«Ma lo ricorda?» domandò Harman.
«Oh, no, certo» rispose Marina. Era una bella donna e Ada notò che somigliava molto al figlio, aveva gli stessi capelli rossi e la stessa corporatura robusta. «Sapete però cosa si suol dire in questi casi… le cellule ricordano.»
"Non sono le stesse cellule!" pensò Ada. Ma tacque.
«Rimarrà turbato, vedendoci?» chiese Hannah. Alle orecchie di Ada parve più curiosa che preoccupata.
Con un gesto aggraziato Marina si strinse nelle spalle, quasi a dire: "Staremo a vedere". Bussò alla porta e l’aprì quando udì, soffocato, l’invito di Daeman a entrare.
La stanza era ampia e coperta di tessuti dai ricchi colori, serici arazzi sospesi in aria e tende di trina intorno alla zona letto, ma la parete in fondo era tutta di vetro e si apriva su una veranda privata. Le lampade nella stanza erano tenute al minimo, ma il bordo della città vividamente illuminata, fuori della veranda, s’incurvava a destra e a sinistra e altre costellazioni di lanterne, di globi luminosi e di luci elettriche smorzate erano visibili a ottocento metri nel cratere buio. Daeman, seduto in un’accogliente poltrona accanto alla finestra rigata dalla pioggia, guardava fissamente fuori, come se meditasse sulle luci. Batté le palpebre, sorpreso, nel vedere Ada, Harman e Hannah, e indicò loro il cerchio di morbide poltrone. Marina si scusò, uscì e si chiuse alle spalle la porta. I tre si accomodarono. La parete di vetro era aperta e l’aria fredda che entrava dalle zanzariere odorava di pioggia e di bambù bagnato.
«Volevamo vedere come te la passavi» disse Ada. «E volevo scusarmi di persona per l’incidente… per non avere badato meglio al mio ospite.»
Daeman sorrise e scrollò le spalle, ma aveva un lieve tremito alle mani. Le posò sulle ginocchia coperte di serica stoffa. «Ricordo solo una grossa creatura giungere di corsa schiantando gli alberi… e il puzzo di carogna, quello lo ricordo bene… e poi d’essermi svegliato nella vasca dello spedale. I servitori m’hanno detto cos’era accaduto. Sarebbe stato divertente, se l’idea non fosse… disgustosa.»
Ada annuì, si sporse più vicino, gli prese la mano. «Chiedo scusa, Daeman Uhr. Gli allosauri sono venuti nella proprietà rarissime volte, negli ultimi decenni, e i voynix sono sempre lì a proteggerci…»
Daeman corrugò la fronte, ma non ritrasse la mano. «A quanto pare non hanno fatto un buon lavoro nel proteggere me.»
«È davvero strano» disse Harman, accavallando le gambe e battendo colpetti sui braccioli della poltrona. «Molto strano. Non ricordo quando è stata l’ultima volta che un voynix non è riuscito a proteggere un essere umano in una simile situazione.»
Daeman lo guardò. «Lei è abituato a situazioni in cui animali ricombinanti mangiano persone, Harman Uhr?»
«Niente affatto. Intendevo situazioni in cui esseri umani sono in pericolo.»
«Chiedo di nuovo scusa» disse Ada. «La mancata protezione da parte dei voynix è inspiegabile, ma la mia trascuratezza è imperdonabile. Mi spiace che il tuo fine settimana a villa Ardis sia stato rovinato e che il tuo senso d’armonia sia stato turbato.»
«Turbato, sì… forse una parola inadeguata per descrivere il fatto di essere divorato da un carnivoro di dodici tonnellate» disse Daeman, ma sorrise lievemente e chinò la testa, ancora più lievemente, per dare segno d’accettare le scuse.
Harman si sporse e serrò le mani, facendole dondolare su e giù per dare enfasi alle parole. «Abbiamo una discussione ancora da terminare, Daeman Uhr…»
«La nave spaziale» disse Daeman. Aveva cambiato tono, da ironico a sarcastico.
Harman non si lasciò intimidire. Alzò e abbassò le mani, a tempo con le parole. «Sì, non solo un’astronave, anche se quella è la meta finale, naturalmente, ma qualsiasi tipo di macchina volante. Jinker. Sonie. Qualsiasi cosa che ci permetta di esplorare i territori fra i porti fax…»
Daeman si appoggiò alla spalliera per sottrarsi all’assalto verbale di Harman e incrociò le braccia. «Perché insiste su questo argomento? Perché tira in ballo me?»
Ada gli toccò il braccio. «Daeman, Hannah e io abbiamo sentito, da persone diverse, che a una recente festa a Ulanbat, circa un mese fa, credo, hai raccontato ad alcuni nostri conoscenti d’avere incontrato una persona che sosteneva d’avere visto una nave spaziale, una persona che parlava di volare fra i nodi…»
Daeman riuscì a fingere per un momento un’aria vacua e irritata insieme; poi rise e scosse la testa. «La strega» disse.
«Strega?» ripeté Hannah.
Daeman aprì le mani, un’eco dell’aggraziato scrollare di spalle della madre. «La chiamavamo così. Ho dimenticato il suo vero nome. Una pazza. Ovviamente nell’ultima Ventina…» Lanciò un’occhiata a Harman. «La gente inizia a perdere il contatto con la realtà, nei suoi ultimi anni.»
Harman sorrise, senza badare alla frecciata. «Non ricorda il nome di quella donna?»
Daeman si strinse nelle spalle, con meno grazia, stavolta. «No.»
«Dove l’hai incontrata?» domandò Ada.
«All’ultimo Burning Man. Un anno e mezzo fa. Ho dimenticato dove si teneva… in un posto freddo, però. Ho solo seguito degli amici che da Chom si sono faxati lì. Le cerimonie dell’Età Perduta non mi hanno mai interessato molto, ma a quella riunione c’erano parecchie ragazze affascinanti.»
«C’ero anch’io!» esclamò Hannah, con occhi ardenti. «E diecimila altre persone.»
Harman prese di tasca un foglio di carta molto spiegazzato e lo allargò sull’ottomana imbottita. «Ricordi quale nodo?»
Hannah scosse la testa. «Uno dei nodi semidimenticati. Uno di quelli vuoti. Gli organizzatori mandarono in giro il codice del nodo il giorno prima dell’inizio della cerimonia. Non ci viveva nessuno, credo. Una vallata pietrosa, circondata di neve. Ricordo che era luminosa tutto il giorno e tutta la notte. Per i cinque giorni del Burning Man. E faceva freddo. I servitori avevano disposto un campo di Planck sopra l’intera valle e sistemato riscaldatori qua e là, perciò non si stava male, ma a nessuno era permesso di uscire dalla valle.»
Harman guardò lo sbiadito e stropicciato foglio di micropergamena. La pagina era coperta di ghirigori, puntini e rune arcane come quelle che si trovavano nei libri. Harman puntò il dito su un puntino quasi a fondo pagina. «Qui. In quella che un tempo era Antartide. Un nodo chiamato "la Valle Secca".»
Daeman lo guardò con aria vacua.
«Su questa mappa ci lavoro da cinquant’anni» spiegò Harman. «È una rappresentazione bidimensionale della Terra, che riporta tutti i nodi fax conosciuti e il loro codice. Nell’Età Perduta, Antartide era il nome di uno dei sette continenti. Ho registrato sette nodi fax di Antartide, ma solo uno di essi, questa Valle Secca di cui ho sentito parlare, ma che non ho mai visitato, è.sgombro di neve e di ghiaccio.»
Quel discorso ovviamente non illuminò affatto Daeman. Perfino Ada e Hannah parevano perplesse.
«Non importa» disse Harman. «Ma se c’era il sole anche di notte, questa Valle Secca è il probabile porto fax. Nelle estati polari ci sono giorni in cui il sole non tramonta.»
«A Chom in giugno il sole non tramonta» disse Daeman, chiaramente annoiato. «Si trova vicino alla vostra Valle Secca?»
«No» rispose Harman. Indicò un puntino sulla parte alta della mappa. «Sono abbastanza sicuro che Chom si trova in questa grande penisola, sopra il circolo artico. Nei pressi del polo nord, non del polo sud.»
«Polo nord?» ripete Ada.
Daeman guardò le due donne. «E io pensavo che la strega al Burning Man fosse pazza!»
«Quella donna, la strega, non ha detto altro?» chiese Harman, troppo euforico per badare all’insulto.
Daeman scosse la testa. Pareva stanco. «Solo stupidaggini. Bevevamo parecchio. Era la notte del rogo ed eravamo stati svegli per giorni e notti in quella maledetta luce perenne, schiacciando solo qualche pisolino in una delle grandi tende arancione. Era l’ultima notte e di solito ci sono orge, l’ultima notte, e pensavo che forse lei… ma era troppo vecchia, per i miei gusti.»
«Però ha parlato di una nave spaziale?» insistette Harman. Era chiaro che si sforzava d’essere paziente.
Daeman scrollò di nuovo le spalle. «Un tizio, lì, un giovanotto, all’incirca dell’età di Hannah, lamentava che non avevamo più sonie per volare in giro, dopo il fax finale; e quella… strega… che era stata molto silenziosa, ma che era anche molto ubriaca, disse che li avevamo, che i jinker e i sonie c’erano, se si sapeva dove cercarli. Lei li usava di continuo, disse.»
«E la nave spaziale?» lo incitò Harman.
«Disse d’averne vista una, tutto qui» rispose Daeman, massaggiandosi le tempie come se gli dolessero. «Vicino a un museo. Le chiesi che cos’era un museo, ma lei non mi rispose.»
«Perché chiami strega quella vecchia?» chiese Hannah.
«Non l’ho inventato io. Tutti la chiamavano così.» Parve un poco sulla difensiva. «Forse perché sosteneva di non essersi faxata, ma di avere camminato, quando era chiaro che non avrebbe potuto farlo. Non c’erano altri nodi o strutture intorno alla valle e il campo di Planck la chiudeva completamente.»
«Vero» disse Hannah. «L’ultimo Burning Man si è tenuto nel posto più remoto dove mi sia mai faxata. Mi spiace di non avere incontrato quella donna.»
«Ricordo solo d’averla vista lì due notti» disse Daeman. «La prima e l’ultima. Se ne stava sempre per conto suo, a parte quell’unico e folle scambio di battute.»
«Come sai che era vecchia?» domandò piano Ada.
«A parte l’evidente demenza senile, vuoi dire?»
«Sì.»
Daeman sospirò. «Aveva un’aria vecchia! Come se fosse stata troppe volte nello spedale…» Esitò e corrugò la fronte, pensando chiaramente alla sua recente visita allo spedale. «Pareva più vecchia di tutte le persone che io abbia mai visto. Penso che avesse realmente i solchi in faccia.»
«Rughe?» disse Hannah. Parve invidiosa.
«Ma proprio non ricorda come si chiamava?» chiese Harman.
Daeman scosse la testa. «Un tizio accanto al fuoco la chiamò per nome quella notte, ma non riesco a… Avevo bevuto anch’io, sapete, e non avevo dormito niente.»
Harman lanciò un’occhiata a Ada, inspirò a fondo e disse: «La chiamò forse Savi?».
Daeman drizzò di scatto la testa. «Sì. Penso che fosse quello il nome. Savi… sì, ha il suono giusto. Insolito.» Vide Harman e Ada scambiarsi di nuovo occhiate eloquenti. «Cosa c’è? È un particolare significativo? Voi due la conoscete?»
«L’Ebrea Errante» disse Ada. «Non hai mai sentito la leggenda?»
Daeman sorrise stancamente. «A proposito della donna che chissà come evitò il fax finale, mille anni fa, e che da allora è condannata a errare per la terra? Certo. Ma non sapevo che la donna della leggenda avesse un nome.»
«Savi» disse Harman. «Si chiama Savi.»
Marina entrò nella stanza, accompagnata da due servitori che portavano boccali di vino caldo aromatizzato e un vassoio con formaggio e panini. Mentre facevano colazione, qualche chiacchiera ruppe il silenzio che ormai si faceva pesante.
«Domattina ci faxeremo lì» disse Harman, rivolgendosi a Hannah e a Ada. «Nella Valle Secca. Potrebbe esservi rimasto qualche indizio.»
Hannah, che reggeva a due mani il boccale fumante, obiettò: «Non vedo come. Il Burning Man si è tenuto, come ha detto Daeman, diciotto mesi fa».
«Quand’è il prossimo?» domandò Ada. Non partecipava mai a quelle cerimonie demenziali.
Rispose Harman: «Non si sa mai in anticipo. La Cabala del Burning Man stabilisce la data e la comunica alla gente solo pochi giorni prima dell’evento. A volte quei raduni si tengono a pochi mesi di distanza. Altre volte, a una decina di anni. Quello nella Valle Secca è stato l’ultimo. Chi ha partecipato ad almeno uno dei tre raduni precedenti riceve l’invito. Io me lo sono perso perché ero in giro nel bacino del Mediterraneo».
«Voglio venire con voi a cercare quella donna» disse Daeman.
Gli altri, anche sua madre, lo guardarono, sorpresi. «Te la senti davvero?» chiese Ada.
Daeman non rispose alla domanda; disse invece: «Avrete bisogno di me per riconoscerla, se la trovate. Quella… Savi».
«D’accordo» accettò Harman. «Apprezziamo l’aiuto.»
«Ma ci faxeremo domani mattina» precisò Daeman. «Non stasera. Sono stanco.»
«Naturalmente» disse Ada. Guardò Hannah e Harman. «Ci faxiamo di nuovo a villa Ardis?»
«Figuriamoci!» disse Marina. «Stanotte sarete nostri ospiti. Nel piano superiore ci sono comodi domi per ospiti.» Colse l’occhiata di Ada in direzione di Daeman. «Mio figlio si è sempre sentito molto stanco da quando… dall’incidente. Dormirà dieci ore o anche più. Se vi fermate come ospiti, potrete partire tutti insieme, quando si sarà svegliato. Dopo colazione.»
«Naturalmente» ripeté Ada. C’era una differenza di sette ore fra Cratere Parigi e villa Ardis (laggiù non era nemmeno ora di cena) ma anche loro, come tutti i viaggiatori via fax, erano abituati ad adattarsi al fuso orario locale.
«Vi mostro le vostre stanze» disse Marina, facendo strada, con i servitori librati accanto a lei.
Le "stanze" erano in realtà piccoli domi, vere e proprie suite, un piano sopra l’abitazione di Marina e di Daeman, alle quali si accedeva mediante una larga scala a chiocciola. Hannah rimase soddisfatta dello spazio a sua disposizione e poco dopo uscì a visitare per conto suo Cratere Parigi. Harman augurò la buonanotte e scomparve nel suo domi. Ada chiuse a chiave la porta, esaminò gli interessanti arazzi, ammirò dal balcone il cratere (la pioggia era cessata e la luna e gli anelli erano visibili fra le nubi che si sfrangiavano), rientrò e ordinò ai servitori una cena leggera. Poi si preparò il bagno e rimase per più di mezz’ora a crogiolarsi nell’acqua calda e profumata, mentre i muscoli doloranti si liberavano della tensione.
Aveva conosciuto Harman solo dodici giorni prima, anche se le pareva che fosse trascorso molto più tempo. Era affascinata da quell’uomo e dai suoi interessi. Era andata a una festa del solstizio d’estate, nella tenuta di un’amica, vicino alle rovine di Singapore, non perché le piacessero le feste (quando poteva, cercava di evitare sia il fax sia i party e si spostava quasi solo per festicciole a casa di vecchie amiche) ma perché la sua giovane amica Hannah vi avrebbe partecipato e l’aveva convinta ad accompagnarla. La festa del solstizio era stata a modo suo divertente e molti ospiti erano interessanti; la sua amica proprietaria della tenuta aveva appena celebrato la quarta Ventina — Ada aveva sempre apprezzato la compagnia di persone più anziane di lei — e proprio in quella festa si era imbattuta in Harman che frugava nella biblioteca della tenuta. Aveva visto che l’uomo era silenzioso, quasi reticente, ma l’aveva fatto uscire dal guscio, con le stesse tattiche che amiche più smaliziate avevano usato con lei per farle sciogliere la lingua.
Non sapeva che cosa pensare del fatto che Harman aveva imparato a leggere senza la funzione (lui aveva ammesso quella capacità solo durante un secondo incontro in casa di un’altra amica, appena sei giorni prima della festa a villa Ardis) ma più ci rifletteva, più ne era meravigliata. Si era sempre ritenuta ben istruita (conosceva tutte le solite canzoni e leggende popolari, aveva imparato i nomi delle Undici Famiglie e dei loro componenti, sapeva a memoria molti codici di nodi fax) ma era letteralmente senza fiato di fronte alla smisurata conoscenza e curiosità di Harman.
Era ancora sbalordita dalla mappa (così poco apprezzata anche dalla curiosa e avventurosa Hannah) da lui aperta davanti a Daeman. Non si era mai imbattuta neppure nel concetto di "mappa", prima che Harman le mostrasse i diagrammi, meno di una settimana prima. Proprio da Harman aveva saputo che il mondo era una sfera. Quante sue amiche lo sapevano? Quante di loro si erano mai interrogate sulla forma del mondo dove vivevano? A cosa serviva quel brandello d’arcana conoscenza? Il "mondo" era la casa e la rete fax serviva a incontrare gli amici e visitare la loro abitazione. Chi pensava mai alla forma della struttura fisica che si trovava sotto e accanto alla rete di fax? E perché, poi?
Ada aveva capito fin da quel primo fine settimana che l’interesse di Harman per i post-umani da lungo tempo svaniti rasentava l’ossessione. "No" si corresse, distesa nella calda acqua del bagno, facendo risalire bollicine fino ai seni e alla gola, col movimento delle lunghe, lattee dita "è proprio un’ossessione. Harman non riesce a smettere di pensare ai post-umani… dove sono, perché se ne sono andati. A quale scopo?"
Ada non conosceva la risposta, ovviamente, ma era giunta a condividere l’appassionata curiosità di Harman, come se si trattasse di un gioco, di un’avventura. E continuava ad ascoltare da lui domande alle quali tutte le sue amiche avrebbero semplicemente riso: "Perché noi esseri umani siamo solo un milione? Perché i post hanno scelto proprio quel numero? Perché non uno in più o uno in meno? E perché a ciascuno di noi sono stati assegnati cento anni? Perché ci salvano anche dalla nostra stessa follia, in modo da farci vivere cento anni esatti.?".
Ada trovava che quelle domande erano tanto semplici e tanto profonde da risultare imbarazzanti, come se un adulto chiedesse perché abbiamo l’ombelico.
Ma si era unita alla ricerca: una macchina volante, forse una nave spaziale, per volare fino agli anelli e parlare ai post-umani in persona; e ora la leggenda dell’era del fax finale, l’Ebrea Errante. E ogni nuovo giorno portava altre eccitanti avventure.
"Come Daeman mangiato da un allosauro" pensò.
Arrossì all’idea e vide la propria pelle colorarsi di rosso lungo la linea d’acqua e bollicine. Quell’incidente era stato davvero fonte d’imbarazzo. Nessun altro ospite ricordava un avvenimento del genere. Perché i voynix non avevano fornito una protezione migliore?
"Cosa sono esattamente i voynix?" le aveva chiesto Harman, dodici giorni prima, nel complesso di case di tronchi vicino a Singapore. "Da dove vengono? Sono stati costruiti dagli umani dell’Età Perduta? Sono un frutto della linea di confine della follia? Sono stati creati dai post? O sono estranei a questo mondo e a questo tempo e si trovano qui per chissà quali scopi privati?"
Ada ricordò la risata di disagio, quella sera, mentre sedevano sulla terrazza coperta di rampicanti, bicchiere di champagne in mano, quando lui le aveva fatto, in un tono così serio, una domanda tanto assurda. Ma non era stata in grado di rispondere, allora (e neppure le sue amiche, nei giorni seguenti, anche se la loro risatina era stata più nervosa della sua) e adesso, dopo averli visti ogni giorno della vita, guardava i voynix con una curiosità che rasentava il timore. Hannah cominciava a reagire nella sua stessa maniera, aveva notato.
"Cosa sei realmente?" aveva pensato proprio quella sera, quando a Cratere Parigi erano scesi dalla carrozzella: il voynix era rimasto lì in piedi a reggere le stanghe della vettura, in apparenza privo d’occhi, col guscio arrugginito e il cappuccio di cuoio bagnato dalla pioggia, lame omicide ritratte, ma cuscinetti manipolatori estesi e avvolti a spirale.
Uscì dalla vasca, si asciugò, s’infilò un accappatoio leggero e congedò i servitori. Quelli se ne andarono da una delle loro membrane osmotiche nella parete. Ada passò sul balcone.
La stanza di Harman, e relativo balcone, era contigua alla sua, a destra, ma la privacy era assicurata da un fitto graticcio di fibra di bambù, con funzione di schermo, che sporgeva di un metro dal parapetto. Ada, scalza, andò al divisorio, si fermò per un attimo al parapetto, guardò in basso il cratere simile a un occhio rosso, poi il cielo sempre più sereno, con le stelle e i due anelli in movimento; mise la gamba a cavallo del parapetto, sentendo contro la parte interna della coscia il contatto col liscio bambù bagnato, posò il piede sul bordo e tastò il cornicione.
Per un secondo, mentre col piede cercava alla cieca il proseguimento del cornicione sull’altro lato del tramezzo, si resse solo grazie alla pressione delle dita dei piedi e delle mani e sentì la gravità tirarla nel vuoto. "Che cosa si proverebbe a cadere da qui nel magma ardente, sapendo di morire dopo qualche terribile secondo di caduta e di totale libertà?" pensò. Non l’avrebbe mai scoperto. Se ora avesse lasciato la presa, se i piedi scalzi e le dita fossero scivolati, non avrebbe mai ricordato i secondi e i minuti seguenti, quando si sarebbe risvegliata in una vasca dello spedale: i post-umani non concedevano alle persone il ricordo della propria morte.
Premette i seni contro il bordo del tramezzo, si sforzò di mantenere l’equilibrio e portò al di là la gamba sinistra, trovando col piede la stretta commessura di bambù-3 che correva al balcone di Harman. Non osò alzare gli occhi per vedere se Harman fosse sul balcone o alla porta a vetri: concentrò tutta l’attenzione nel non scivolare, con i piedi o con le dita, sul bambù-3 bagnato e sdrucciolevole.
Toccò il balcone, posò il piede sulla cornice e si afferrò al parapetto con tanta forza dà avere un tremito alle braccia. Si sentì venire meno le energie, l’indebolimento che segue la produzione di adrenalina, e passò in fretta la gamba sopra il parapetto; si accorse d’essersi graffiata l’interno della coscia e vide che l’accappatoio si era aperto.
Harman, seduto a gambe incrociate su una sdraio dai cuscini bianchi, la osservava. Il balcone era illuminato da una singola candela con una schermatura di vetro.
«Potevi aiutarmi» mormorò Ada, senza sapere bene perché lo diceva o perché bisbigliava. Anche Harman indossava solo una leggera veste da camera, chiusa da una fascia non molto stretta.
Harman sorrise e scosse la testa. «Te la cavavi benissimo. Ma perché non hai fatto il giro dall’altra parte e non hai bussato?»
Ada trasse un profondo respiro e, come in risposta, si slacciò la cintura dell’accappatoio e lasciò che i lembi si aprissero del tutto. L’aria che giungeva dal cratere era fredda, ma con correnti più calde incastonate nella brezza, e le accarezzava la parte inferiore del ventre.
Harman si alzò, si avvicinò, la guardò negli occhi e le chiuse l’accappatoio, stringendole la cintura, senza strusciare le dita su di lei. «Sono onorato» disse, bisbigliano anche lui, ora. «Ma non ancora, Ada. Non ancora.» Le prese la mano e l’accompagnò alla sdraio.
Vi si distesero fianco a fianco. Ada batté le palpebre per la sorpresa e arrossì per qualcosa di simile all’umiliazione (non era sicura se per il rifiuto di lui o per la propria sfrontatezza); Harman allungò la mano dietro la sdraio e prese due lini color crema. Li piegò uno alla volta, per disporre nella corretta posizione i microcircuiti ricamati sulla stoffa.
«Io non…» cominciò Ada.
«Lo so. Solo per questa volta. Credo che stia per accadere una cosa importante. Condividiamola.»
Ada si distese sul morbido cuscino e lasciò che Harman le sistemasse sugli occhi il lino. Sentì Harman sdraiarsi accanto a lei, la destra mollemente appoggiata sulla sua sinistra.
Iniziò il flusso d’immagini, suoni, sensazioni.