Proprio prima di trovare lo spedale, Daeman aveva preso a lamentarsi perché moriva di fame. Moriva davvero di fame. Non aveva mai lasciato passare tutto quel tempo fra un pasto e l’altro. L’ultima cosa che aveva mangiato era stata quattro miseri pezzetti dell’ultima tavoletta di cibo essiccato, quasi dieci ore prima.
«Dev’esserci qualcosa da mangiare, in questa città!» diceva Daeman. I tre si davano la spinta coi piedi e nuotavano per la morta città orbitante. Sopra di loro, i pannelli luminosi avevano lasciato posto a pannelli trasparenti e i tre vedevano che l’asteroide e la città ruotavano lentamente. Compariva la Terra, attraversava il loro campo visivo e con la sua tenue luce illuminava lo spazio vuoto, i cadaveri galleggianti, le piante morte e i fuchi fluttuanti. «Ci deve essere qualcosa da mangiare, qui» ripeté Daeman. «Scatolette, surgelati… qualcosa.»
«Se c’è, è vecchio di secoli» disse Savi. «Mummificato come i post-umani.»
«Se troviamo un servitore, ci sfamerà lui» replicò Daeman e subito si rese conto d’avere detto una grande sciocchezza.
Harman e la vecchia non si presero nemmeno la briga di rispondergli. Galleggiavano in una piccola radura nella distesa di fuchi. Lì l’aria pareva un po’ più densa, ma Daeman non si tolse la maschera osmotica né il cappuccio della termotuta per provare a respirarla. Anche con la maschera sapeva che quell’aria era puzzolente.
«Se troviamo un portale fax» disse Harman «lo useremo per tornare a casa.» Il corpo di Harman era muscoloso e teso nella termotuta azzurra, ma Daeman vedeva, dalla maschera trasparente del compagno, il principio di rughe intorno agli occhi: Harman pareva più vecchio del giorno prima.
«Non so se qui ci sono portali fax» disse Savi. «E non userei di nuovo il fax, se potessi evitarlo.»
Harman la guardò. In alto la Terra entrò nel loro campo visivo e la sua tenue luce illuminò fiocamente il loro viso. «Abbiamo scelta?» replicò Harman. «Le poltrone erano un viaggio di sola andata, hai detto.»
Savi sorrise stancamente. «Il mio codice non è più nelle loro banche fax. Oppure, se c’è, è lì solo per essere cancellato. Temo che la stessa cosa valga anche per voi due, dopo che i voynix ci hanno scoperto a Gerusalemme. Ma ammettendo che i vostri codici siano validi, se trovassimo un nodo fax e in qualche modo riuscissimo a far funzionare il macchinario… perché qui, sapete, non ci sono i normali fax… e io restassi qui per faxarvi a casa, non credo che funzionerebbe.»
Harman sospirò. «Non ci resta che trovare un altro modo.» Girò lo sguardo per la città scura, sui cadaveri congelati e sugli ondeggianti letti di fuchi. «Non era ciò che mi aspettavo negli anelli, Savi.»
«No» disse la vecchia. «Nessuno di noi se l’aspettava. Anche ai miei tempi credevamo che le migliaia di luci nel cielo notturno indicassero milioni e milioni di post-umani in migliaia di città orbitali.»
«Secondo te, quante città avevano?» chiese Harman. «Oltre a questa.»
Savi si strinse nelle spalle. «Forse solo una nell’anello polare. Forse nemmeno quella. Immagino che i post-umani si fossero ridotti a qualche migliaio, quando furono colpiti dall’olocausto.»
«Allora cos’erano tutte quelle macchine e congegni che abbiamo visto venendo su?» chiese Daeman. Non gliene fregava niente, il suo era solo un tentativo di non pensare allo stomaco vuoto.
«Acceleratori di particelle» rispose Savi. «I post avevano l’ossessione per i viaggi nel tempo. Quei grossi acceleratori producevano migliaia di minuscoli wormholes che i post torcevano in wormholes stabili, le masse turbinanti che abbiamo visto all’estremità della maggior parte degli acceleratori.»
«E gli specchi giganti?» chiese Harman.
«Effetto Casimir» rispose Savi. «Riflettono energia negativa nei wormholes per impedire che implodano in buchi neri. Se i wormholes fossero stati stabili, i post avrebbero potuto viaggiare attraverso di essi in ogni luogo dello spazio-tempo dove potessero posizionare l’altro capo del wormhole.»
«Altri sistemi solari?» chiese Harman.
«Non credo. Non penso che i post abbiano fatto in tempo a inviare sonde fuori del nostro sistema solare. Molto prima che nascessi io, hanno seminato nella parte esterna del nostro sistema solare robot intelligenti in grado di evolversi da soli, perché avevano bisogno di asteroidi dove costruire materiali, ma non avevano astronavi, robotizzate o normali.»
«Allora dove andavano, con i wormholes?» chiese Harman.
Savi si strinse nelle spalle. «Credo sia stata l’attività quantica a…»
«Maledizione, basta!» gridò Daeman. Aveva ascoltato fin troppo quei discorsi privi di senso. «Ho fame! Voglio mangiare!»
«Aspetta» disse Harman. «Guardate laggiù.» Indicò in alto, più avanti, nella loro direzione di viaggio.
«Lo spedale» disse Savi.
Non si era sbagliata. Avevano nuotato per un altro estenuante chilometro nella luce sottomarina della città asteroide morta, senza badare ai ripetuti incontri con le grigie mummie galleggianti dei post-umani, finché non avevano visto con chiarezza, a un centinaio di metri su una parete luminosa, il rettangolo di plastica trasparente. Dentro, per centinaia di metri, c’erano file e file delle ben note vasche di guarigione, piene di corpi nudi di umani vecchio stile, servitori affaccendati (Daeman quasi si commosse, a quella vista familiare) e altre sagome che si muovevano qua e là per il salone nella vivida luce dello spedale.
«Un momento» ansimò Daeman. Avevano nuotato nella sottile aria tossica vicino al terreno, trovando puntelli, terrazze, alberi morti e altri oggetti solidi su cui puntare i piedi per darsi la spinta, ma Daeman era esausto. Non aveva mai faticato così duramente.
Savi era impaziente di volare verso il luminoso ospedale, ma tornò sui suoi passi e si librò accanto all’ansante Daeman. Harman guardò con espressione quasi famelica la sala dalle pareti trasparenti.
Savi porse a Daeman la bottiglia e lui, senza esitare e senza chiedere permesso, bevve tutta l’acqua rimasta. Era disidratato e sfinito.
«Avevo prom’esso a Ada di portarla con noi» disse piano Harman.
Daeman e la vecchia lo guardarono.
«Ero sicuro che avremmo viaggiato in un’astronave» continuò Harman, imbarazzato, con una scrollata di spalle. «Le avevo promesso che mi sarei fermato a villa Ardis per prenderla a bordo.»
«Tanto, era furiosa con te comunque» disse Daeman, fra un ansito e l’altro. Pareva che la maschera osmotica non riuscisse a fornirgli l’ossigeno di cui necessitava.
«Già» disse Harman.
Savi spinse di lato un cadavere grigio dilaniato che si era liberato dai fuchi e i cui occhi immobili parvero fissarli con rimprovero. «Non credo proprio che Ada sarebbe molto contenta, se ora fosse qui» disse. Indicò lo spedale. «Ma tu dovresti essere contento, Harman. Era la tua meta, no? Andare nello spedale e ottenere ancora qualche anno.»
«Qualcosa del genere» rispose Harman.
Savi fece un cenno in direzione del cadavere. «Sembra proprio che non dovrai negoziare con i post.»
«Pensi che lo spedale sia automatizzato?» chiese Harman. «Che negli ultimi secoli siano stati i servitori a mantenerlo in funzione, faxandoci su, riparandoci per le cinque Ventine assegnateci e poi faxandoci di nuovo alla nostra monotona vita?»
«Saliamo a scoprirlo» propose la vecchia.
Entrarono nel lucente rettangolo dalle pareti di vetro, varcando un bianco quadrato di parete semipermeabile, simile a quello nella camera d’equilibrio.
Era lo spedale. Non solo aveva luce e aria, ma anche, chissà come, un decimo della gravità terrestre. Attraversata la parete, Daeman cadde sulle mani e sulle ginocchia, incapace di adattarsi alla leggera, ma persistente, attrazione gravitazionale. L’improvviso cambiamento, più la benvenuta vista dei fin troppo familiari servitori, più il terrore di tornare nello spedale così presto dopo l’episodio dell’allosauro gli rendevano le gambe troppo deboli per reggersi in piedi anche in quel campo gravitazionale da piscina.
Savi e Harman passarono di vasca in vasca. Savi si tolse la maschera osmotica e provò a respirare. «L’aria è rarefatta e ha un puzzo orribile» disse, con voce che risuonò strana e stridula. «Servirà di sicuro a qualcosa, ma è troppo viziata per respirarla. Non toglietevi le maschere.»
Daeman non ebbe bisogno di farsi pregare: tenne addosso la maschera.
I servitori non badarono a loro e continuarono ad affaccendarsi intorno a vari pannelli di comando virtuali. Condutture trasparenti e tubi mostravano liquidi verdi e rossi che scorrevano nelle vasche e ne uscivano. Harman guardò in ogni vasca, alta tre metri. I corpi umani in ciascuna di queste erano, per la maggior parte, quasi perfetti, ma non formati: pelle troppo liscia, zone craniali e pubiche glabre, occhi bianchi. Soltanto alcune figure galleggianti erano quasi complete e i loro occhi, che mostravano colore e una torpida intelligenza, parvero ammiccare ai tre estranei.
Daeman camminò dietro gli altri due, tenendosi più lontano dalle vasche. Guardò quei proto-umani, ricordò le immagini annebbiate che lui stesso aveva visto dalla vasca solo qualche giorno prima e rabbrividì di nuovo, arretrando fino a sbattere contro un bancone. Un servitore si librò intorno a lui, ma non gli badò.
«È chiaro che non sono programmati per trattare con esseri umani che non si trovino nelle vasche» disse Savi. «Ma, se interferiste nel loro lavoro, probabilmente farebbero qualcosa per togliervi dai piedi.»
All’improvviso una luce verde palpitò su una vasca che conteneva un corpo interamente ricostruito, una giovane donna con occhi celesti, capelli e peli rossi, e il liquido cominciò a ribollire violentemente. L’attimo dopo, il corpo era sparito. Passò ancora qualche secondo e nella vasca si materializzò un altro corpo, stavolta un pallido maschio dagli occhi fissi e morti, con una ferita sulla fronte.
«Hanno un portale fax in ogni vasca!» esclamò Daeman. Poi capì che non poteva essere diversamente: era quello il modo per portare su i corpi allo scadere di ogni Ventina o dopo una grave ferita. O la morte. «Potremmo usare questi nodi fax.»
«Forse potresti usarlo tu» disse Savi, scrutando da vicino una vasca. «E forse neppure tu. Il fax ha il codice del corpo nella vasca. Il macchinario potrebbe non riconoscere il tuo codice e buttarti fuori, semplicemente.»
Liquidi colorati fluirono nella vasca con il nuovo cadavere. Gruppi di minuscoli vermi azzurri comparvero da un’apertura, nuotarono fino al morto e s’infilarono nel cranio rotto e nella carne bianca ed enfiata.
«Vuoi ancora il tuo supplemento di vasca?» chiese Savi a Harman.
Harman si limitò a sfregarsi il mento e a scrutare le file di vasche lucenti. A un tratto segnò a dito. «Dio santo!» esclamò.
I tre si avvicinarono lentamente, metà camminando metà galleggiando nella gravità, bassa ma non trascurabile. Daeman non credette ai suoi occhi, semplicemente.
Un terzo delle vasche da quella parte conteneva liquido, ma non corpi umani. Però c’erano corpi, parti di corpo per meglio dire, in ogni spazio disponibile: sul pavimento, su tavoli, mensole, perfino su servitori disattivati. Alla prima occhiata, Daeman pensò… si augurò… che fossero altri resti mummificati dei post, per quanto orribile fosse l’idea; ma quelle non erano mummie. E neppure resti di post-umani.
Lo spedale era il buffet di qualcuno.
Disposte sul lungo tavolo davanti a loro c’erano parti di corpo umano, bianche, rosa, rosse, umide, sanguinanti, fresche. Decine di figure su quel tavolo, maschi e femmine, all’apparenza ancora bagnate per la permanenza nelle vasche, erano sventrate, organi estratti, carne strappata a morsi da costole insanguinate. Sotto il tavolo c’era una testa umana, occhi azzurri sbarrati in quello che forse era stato un istante di shock, mentre qualcuno, uomo o animale, sbranava il corpo al quale era attaccata. Una piccola pila di mani giaceva davanti a una sedia girevole dall’alta spalliera, rivolta dall’altra parte rispetto al tavolo.
Prima che uno di loro potesse aprire bocca, la sedia ruotò. Per un secondo Daeman pensò che fosse un altro corpo umano messo lì seduto, ma questo era verdastro, intatto e respirava. Occhi gialli ammiccarono. Avambracci incredibilmente lunghi e dita munite d’artigli si distesero. Una lingua da lucertola saettò su lunghi denti.
«Forse credevi ch’io fossi come te?» disse quello che, si rese conto Daeman, era di sicuro il vero Calibano. «Hai pensato male.»
Savi e Harman afferrarono Daeman e se lo tirarono dietro, mentre si davano la spinta e fuggivano in fondo allo spedale e questi urlava come aveva urlato durante tutto il viaggio fino all’anello. Colpirono a corpo morto la parete bianca, la oltrepassarono senza fermarsi, sentirono le termotute restringersi quando si trovarono nel gelido vuoto quasi completo fuori dello spedale, si diedero una forte spinta contro la parete trasparente e si tuffarono verso il terreno, novanta metri più in basso.
Savi e Harman lasciarono le braccia di Daeman e si fermarono su una piattaforma a venti metri dalla base della città. Daeman ebbe il tempo di notare le mummie galleggianti tutt’intorno, pezzi della gola e del ventre strappati da morsi della stessa misura di quelli degli umani nello spedale, e capì di essere sul punto di vomitare nella maschera osmotica; poi gli altri due trovarono un oggetto solido per darsi la spinta e nuotarono verso le tenebre più avanti.
Disperato, Daeman si tolse la maschera e vomitò nel vuoto e nella puzzolente aria gelida. Si sentì scoppiare i timpani e gonfiare gli occhi, e si rimise a posto la maschera (sentendo il puzzo del proprio vomito e della propria paura) e con un calcio si lanciò dietro Savi e Harman. Non voleva correre. Voleva solo rannicchiarsi, galleggiare strettamente appallottolato e vomitare di nuovo. Ma perfino lui si rese conto di non avere quella possibilità. Agitando disperatamente le braccia, girando la testa a guardare le luci dello spedale, nuotò e corse e scalciò per salvarsi la vita.
Calibano li raggiunse nell’angolo più buio della città, dove i letti di fuchi ondeggiavano, mossi dalla forza di Coriolis dell’asteroide in lenta rotazione. Lì tutte le pareti della città erano trasparenti e mostrarono per vari minuti la Terra imbiancata di nubi e poi il buio interrotto solo dalle gelide stelle. Fu nel buio che Calibano giunse.
I tre si erano rannicchiati vicini nell’oscurità.
«L’avete visto uscire dallo spedale?» ansimò Savi.
«No.»
«Non ho visto niente mentre scappavamo» ansimò Harman.
«Era un calibani?» ansimò Daeman. Si rese conto di piangere e se ne fregò. Mise nella domanda l’ultima riserva di speranza.
«No» disse Savi, nella radio della tuta, con un tono che spazzò le ultime speranze di Daeman. «Era Calibano in persona.»
«Quei corpi…» cominciò Harman. «Quinta Ventina?»
«Alcuni parevano anche più giovani» bisbigliò Savi. Impugnava la pistola, girava su se stessa, scrutava nel buio fra gli ondeggianti steli dei fuchi.
«Forse la creatura soleva mietere solo le quinte Ventine» mormorò Harman. «Ma si è fatta più audace. Impaziente. Affamata.»
«Gesù, Gesù, Gesù, Gesù» sibilò Daeman. Era una delle più antiche invocazioni note alla razza umana, anche se lui non ne conosceva il significato. Gli battevano i denti.
«Hai ancora fame?» chiese Savi. Forse tentava di calmare Daeman, con un’approssimazione di umorismo. «A me è passata.»
«A me no» disse Calibano sulla loro frequenza radio. Emerse dai fuchi, lanciò su di loro una rete, facendo cadere di mano la pistola a Savi, e li tirò a sé come pesci.