Tre settimane nel viaggio a ovest, risalendo il fiume — il mare interno, in realtà — della Valles Marineris… e Mahnmut era sul punto di dare i numeri moravec.
La loro feluca, con un equipaggio di quaranta piccoli omini verdi, era solo una di numerose imbarcazioni dirette a est o a ovest nella fossa tettonica allagata della Valles Marineris o da nord a sud e viceversa nell’estuario che si apriva nel mare della Chryse Planitia dell’oceano settentrionale Tethys. Oltre a una ventina di altre feluche con equipaggi di POV, ogni giorno avevano sorpassato almeno tre chiatte lunghe un centinaio di metri, ognuna delle quali trasportava quattro grandi blocchi di pietra da cui ricavare le teste, tutte dirette a est dalla cava alla base della parete rocciosa sul lato meridionale del Noctis Labyrinthus, all’estremità ovest della Valles Marineris, ancora circa duemilaottocento chilometri più avanti della feluca di Mahnmut.
Orphu di Io era stato fatto rotolare a bordo e messo al sicuro nel ponte di stiva centrale, sotto un telone per nasconderlo alla vista dall’alto, legato vicino ai pezzi principali del carico e ad altri oggetti ricuperati dal Dark Lady. Al pensiero del sommergibile rimasto nelle acque basse della grotta marina lungo la linea costiera della Chryse Planitia, millecinquecento chilometri dietro di loro, Mahnmut si sentiva depresso.
Prima di quel viaggio, non sapeva d’essere capace di deprimersi, di provare un malessere emotivo e un senso di disperazione così terribili che avrebbero potuto privarlo di quasi tutta la forza di volontà e di ogni ambizione; ma il violento distacco dal sommergibile gli aveva mostrato fino a che punto potesse sentirsi giù di morale. Orphu, cieco, menomato, portato a bordo come tanta altra inutile zavorra, pareva di buonumore, anche se Mahnmut aveva imparato quanto di rado e con quanta cautela il suo amico mostrasse i suoi veri sentimenti.
La feluca era giunta, come promesso, la mattina del giorno marziano successivo al loro arrivo sulla costa; e mentre i POV portavano a bordo il povero Orphu, Mahnmut era sceso varie volte nel sommergibile allagato e aveva portato via tutte le unità amovibili — celle solari, apparecchi di comunicazione, dischi col giornale di bordo — e tutti gli attrezzi nautici che poteva trasportare.
«Hai nuotato nudo fino al relitto, ti sei riempito le tasche di gallette e sei tornato indietro sempre a nuoto, eh?» aveva detto Orphu quel mattino, quando Mahnmut gli aveva riferito il tentativo di ricuperare il salvabile.
«Cosa?» aveva replicato Mahnmut, chiedendosi se, per tutti i colpi presi, alla fine Orphu non fosse impazzito.
«Piccolo errore di logica nel Robinson Crusoe di Defoe» aveva riso Orphu. «Mi piacciono, gli errori di logica.»
«Non l’ho mai letto» aveva detto Mahnmut. Non era dell’umore giusto per scherzare. Era straziato per avere dovuto abbandonare il Dark Lady.
Nelle prime tre settimane di viaggio i due moravec discussero la reazione di Mahnmut, perché avevano ben poco da fare a bordo della feluca, a parte discutere di questo e di quello. Il ricetrasmettitore radio a corto raggio che Mahnmut aveva agganciato a Orphu, inserendolo nella presa di collegamento, funzionava bene.
«Tu soffri tanto di agorafobia quanto di depressione» disse Orphu.
«Come mai?»
«Sei stato progettato, programmato e addestrato per essere parte del sommergibile, nascosto sotto i ghiacci di Europa, circondato da tenebre e pressione micidiale, comodo in spazi ristretti. Anche le brevi sortite sulla superficie ghiacciata di Europa non ti hanno preparato a questi smisurati panorami, all’orizzonte lontano, al cielo azzurro.»
«Il cielo non è azzurro al momento» fu tutto ciò che Mahnmut disse in risposta. Era mattina presto e, come quasi tutte le mattine, la Valles Marineris era piena di nubi basse e di fitta nebbia. I pov avevano ammainato le vele: quando mancava la spinta del vento sulle vele latine dei due alberi, la feluca avanzava a remi e trenta piccoli omini verdi, quindici per lato, remavano e parevano instancabili. C’erano lanterne accese a prua, sul trinchetto, sulle fiancate e a poppa; la feluca si muoveva appena. Quella parte della Valles Marineris era larga più di centoventi chilometri e la zona dove presto sarebbero entrati era larga duecento, un mare interno più che un fiume, così vasto che, perfino nelle giornate di sereno, gli alti strapiombi della riva nord o della riva sud erano invisibili per la distanza; ma in quei canali c’era un movimento di navi sufficiente a giustificare ogni precauzione nella nebbia.
Mahnmut capì che Orphu aveva ragione, che l’agorafobia era parte del suo problema, visto che si sentiva più acutamente depresso nei giorni di sereno, quando il panorama non aveva limiti; ma capì pure che il problema era più complesso, non riguardava solo la separazione dalla sicura nicchia ambientale e dai connettori sensoriali della nave. Lui era, era sempre stato, un capitano di nave e sapeva, dai programmi di storia e poi dalle sue letture, che niente addolorava un capitano più della perdita della propria nave. Per giunta, era stato incaricato di un’importante missione, portare Koros III ai piedi di Olympus Mons dalla parte del mare, e aveva miseramente fallito. Koros III era morto, al pari di Ri Po, il moravec che sarebbe dovuto restare in orbita a ricevere, interpretare e ritrasmettere gli importanti dati del sopralluogo di Koros.
"A chi?" pensò. "Come? Quando?" Non aveva alcun indizio.
Discussero anche questo, nelle tre settimane di viaggio tranquillo. Perfino più tranquillo, di notte, perché i POV cadevano in ibernazione non appena il sole tramontava, dopo avere bloccato la feluca mediante un’ancora assai complicata (Mahnmut aveva fatto rilievi sonar e aveva stabilito che l’acqua sotto di loro era più profonda di sei chilometri), e non riprendevano a muoversi finché, il mattino dopo, la luce del sole non toccava la loro pelle verde e trasparente. Pareva chiaro che i POV acquisivano energia esclusivamente dalla luce del sole, anche se velata dalla nebbia del mattino. Di sicuro Mahnmut non aveva mai visto nessuno dei piccoli omini verdi mangiare o secernere qualcosa. Avrebbe potuto chiederlo, ma (anche se Orphu aveva ipotizzato che i singoli POV non "morivano" realmente dopo avere comunicato) non si fidava abbastanza della teoria del suo amico per infilare di nuovo la mano nel petto di una di quelle creature, stringere quello che avrebbe potuto essere il cuore e fare domande che potevano benissimo essere rimandate a un altro giorno.
Non aveva invece riserve a fare domande a Orphu. «Perché hanno mandato noi?» chiese il decimo giorno. «Non sappiamo niente della missione e non siamo attrezzati per portarla a termine, anche se sapessimo che cosa fare. È stata una pazzia, mandarci qui all’oscuro di tutto.»
«Gli amministratori moravec sono soliti dividere in compartimenti il lavoro e assegnare gli incarichi secondo i settori di competenza» disse Orphu. «Tu eri il migliore per condurre Koros al vulcano. Io ero il miglior moravec disponibile per mantenere in ordine la nave spaziale. Non hanno mai considerato la possibilità che saremmo stati la squadra superstite, rimasta a fare il lavoro degli altri due.»
«Perché no?» disse Mahnmut. «Di sicuro sapevano che la missione era pericolosa.»
Orphu ridacchiò piano. «Avranno pensato: o la va o la spacca. Cioè che, nel peggiore dei casi, saremmo morti tutti.»
«C’è mancato poco» borbottò Mahnmut. «E probabilmente fra poco non ci mancherà più niente.»
«Descrivimi la giornata» disse Orphu. «La nebbia c’è ancora?»
I giorni e il paesaggio e le notti erano bellissimi. Mahnmut derivava la conoscenza dei pianeti con atmosfera respirabile esclusivamente dalla banca dati riguardante la Terra e perciò il Marte terraformato era una variazione interessante.
Il colore del cielo variava da un luminoso celeste a mezzodì a un rosa rossastro al tramonto, tonalità che a volte virava a un giallo oro che infondeva fulgore in ogni cosa. Il Sole stesso pareva decisamente più piccolo di quello visto dalla Terra, come testimoniavano vecchie registrazioni video, ma era immensamente più grande, più luminoso e più caldo di quello conosciuto dai moravec galileiani negli ultimi millecinquecento anni terrestri. La brezza era dolce e odorava di salsedine e a volte, in modo sconvolgente, di vegetazione.
«Ti chiedi mai perché ci abbiano dato quel senso?» disse Orphu, quando Mahnmut gli descrisse il profumo di vegetazione, mentre dal mare Tethys entravano nell’ampio estuario della Valles Marineris.
«Quale?»
«L’olfatto.»
Mahnmut rifletté sulla domanda. Aveva sempre dato per scontato il senso dell’olfatto, anche se era inutile sott’acqua o sulla superficie di Europa e in pratica anche nella nicchia ambientale del Dark Lady… in altre parole, dovunque lui si fosse trovato. «Potrei fiutare fumi tossici nel sommergibile o nei cubicoli pressurizzati di Conamara Chaos Central» disse alla fine, sapendo però che non era una risposta soddisfacente. Per quella sorta di pericoli nei moravec erano inseriti segnalatori di maggiore efficacia.
Orphu ridacchiò piano. «Avrei potuto fiutare lo zolfo, quando ero sulla superficie di Io, ma chi ne avrebbe avuto voglia?»
«Puoi sentire gli odori?» disse Mahnmut. «Non ha molto senso, per un moravec da vuoto spaziale.»
«Già. E neanche il fatto che trascorro, trascorrevo cioè, la maggior parte del tempo a guardare cose nello spettro umano di luce visibile; però a ogni occasione guardavo.»
Mahnmut rifletté anche su questo. Era vero: lui faceva la stessa cosa, anche se poteva facilmente vedere nelle estremità dello spettro, infrarosso e ultravioletto. La vista di Orphu, Mahnmut lo sapeva, comprendeva visualizzazione di frequenze radio e di linee di campo magnetico, tutt’e due non comuni negli umani vecchio stile, che però erano molto più sensate per un moravec che lavorasse nei campi di radiazioni dure dello spazio galileiano. Perché allora il suo amico sceglieva più frequentemente le limitate lunghezze d’onda "visibili" per le creature umane?
«Credo che sia perché i nostri progettisti e tutte le successive generazioni di moravec avevano il segreto desiderio di essere umani» disse Orphu, rispondendo alla domanda inespressa di Mahnmut; l’accompagnò con un rombo ironico o divertito. «L’effetto Pinocchio, per così dire.»
Su questo Mahnmut non era d’accordo, ma si sentiva troppo depresso per discuterne.
«Che odori senti adesso?» chiese Orphu.
«Vegetazione putrefatta» disse Mahnmut, mentre la feluca prendeva il canale più meridionale del largo estuario. «Puzza come il Tamigi di Shakespeare nelle ore di bassa marea.»
Nella prima settimana di risalita del fiume, per non stare inoperoso e impazzire di noia, Mahnmut smontò ed esaminò come meglio poteva gli altri tre oggetti ricuperati dalla stiva merci… considerando Orphu il quarto.
Il manufatto più piccolo, un liscio ovoide più grosso del compatto tronco di Mahnmut, era il Congegno, l’elemento singolo più importante della missione del compianto Koros III. Tutto ciò che Mahnmut e Orphu sapevano del Congegno era che il moravec di Ganimede avrebbe dovuto portarlo su Olympus Mons e, se si fossero verificate certe circostanze di natura a loro imprecisata, metterlo in funzione.
Mahnmut sondò col sonar il Congegno e rimosse una minuscola parte dell’involucro di superlega riflettente. A che cosa servisse, rimaneva oscuro. La macchina, se macchina era, era macromolecolare: in pratica una singola molecola di nanotecnologia elevata al quadrato, con un durevole nucleo centrale di tremenda energia tenuta a freno solo dai campi interni della macromolecola. L’unico congegno vero e proprio che Mahnmut riuscì a scoprire era un detonatore innescato a corrente. Trentadue volt applicati nel punto giusto dell’involucro avrebbero… fatto qualcosa… alla parte interna della macromolecola.
«Potrebbe essere una bomba» disse Mahnmut, rimettendo accuratamente a posto il millimetro quadrato d’involucro metallico.
«E che bomba!» borbottò Orphu. «Se la macromolecola è un guscio d’uovo, qui abbiamo di che fare una frittata. Il tuorlo saremo noi.»
Fingendo di non avere sentito la battuta, per non rompere l’amicizia e non cedere all’impulso di gettare Orphu fuoribordo, Mahnmut guardò lo scorrere delle pareti del canyon (navigavano ancora a meno di tre chilometri dagli alti dirupi meridionali che delimitavano quel giorno il largo mare interno) e immaginò la scomparsa di tutte quelle bellissime rocce rosse, striate, a terrazze. Pensò alle mangrovie periscopiche che crescevano nelle basse paludi marziane dell’estuario, alla ginestra spinosa dalle forme geometriche naturali visibile nelle pareti più alte dei dirupi della valle, perfino al fragile cielo azzurro con increspature d’alti cirri sopra la roccia… e cercò d’immaginare la distruzione di tutte quelle meraviglie in una sola esplosione quantica tanto grande da fare a pezzi un pianeta. Non gli parve giusto. «Riesci a pensare cos’altro potrebbe essere, anziché una bomba?» chiese a Orphu.
«Così su due piedi, no» rispose il moravec di Io. «Ma un congegno che racchiude tutta quell’energia quantica implosiva rappresenta una tecnologia molto al di là delle mie conoscenze. Ti suggerirei di trattare con gentilezza il Congegno… metterci sotto un paio di cuscini, per esempio; ma visto che ha resistito all’attacco della gente del cocchio e all’ingresso nell’atmosfera che ha fregato me e ucciso il tuo sommergibile, di sicuro non può essere molto delicato. Dagli un calcio in culo e andiamo avanti. Qual è il secondo oggetto che hai preso dalla stiva?»
L’oggetto successivo era solo un po’ più largo del Congegno, ma molto più comprensibile. «È una sorta di trasmettitore iperveloce» disse Mahnmut. «È ripiegato su se stesso, ma se lo accendo, si srotola sul proprio treppiede, punta al cielo un largo piatto e invia una bella raffica di… di qualcosa. Energia cifrata in raggio compatto o k-maser o forse perfino gravità modulata.»
«Che cosa se ne sarebbe fatto Koros di questo affare?» chiese Orphu. «I satelliti di trasmissione sono ancora in orbita e la nave spaziale avrebbe potuto ritrasmettere nello spazio galileiano ogni sorta di raggio o di segnale radio. Diavolo, perfino il tuo sommergibile avrebbe potuto contattare casa.»
«Forse non era prevista una trasmissione nello spazio gioviano» ipotizzò Mahnmut.
«Dove, allora?»
Mahnmut non avanzò alcuna ipotesi.
«Koros come intendeva mettere in codice i messaggi?» chiese Orphu.
«Ci sono porte per connettori a spina virtuali» disse Mahnmut, dopo avere ispezionato con cura il compatto macchinario rivestito di nanocarbonio. «Potremmo scaricare tutto ciò che abbiamo visto e appreso, metterlo in codice e trasmetterlo. A meno che non occorra un codice d’attivazione o roba del genere. Mi inserisco e controllo?»
«No» disse Orphu. «Per il momento.»
«Allora lo chiudo.»
«Quel trasmettitore cosa usa come fonte d’energia per una emissione iperveloce?» chiese Orphu, prima che Mahnmut chiudesse l’apparecchio.
Mahnmut non era esperto in quella tecnologia, ma descrisse lo schema del contenitore magnetico e del campo di forza.
«Ohi, ohi» disse Orphu. «È la felschenmass di Chevkov. Antimateria artificiale del tipo che il Consorzio ha usato come propellente della prima sonda interstellare. Qui c’è energia sufficiente a tenerci vivi e pimpanti per parecchi secoli terrestri, se solo avessimo il modo di attingervi.»
Mahnmut si era sentito accelerare i battiti del cuore. «Potevamo usarla per rimpiazzare il reattore a fusione del Lady?»
Orphu rimase in silenzio per vari secondi. «No, non credo» disse infine. «Troppa energia rilasciata troppo in fretta e con troppa forza. Ingovernabile. Forse tu e io avremmo potuto attingere al suo campo di mantenimento, ma non credo che avremmo potuto alimentare con essa il Dark Lady, anche se fosse stato possibile ripararlo. E hai detto che non potevi ripararlo da solo, no?»
«Avrebbe dovuto raggiungere i dock di Conamara Chaos» disse Mahnmut, con una strana combinazione di rimpianto e di sollievo alla notizia che non era un modo per riparare il povero Lady. Per quanto fosse depresso per la morte della nave, trovava ancora più deprimente l’idea di tornare indietro e viaggiare per più di duemila chilometri.
Il terzo oggetto era il più grande, il più pesante e, per Mahnmut, il più difficile da capire.
Il contenitore era un blocco di bambù-3 alto un metro e mezzo e largo due, avvolto in metapolimero trasparente. Una breve ispezione mostrò che il blocco conteneva centinaia di metri quadrati di composto di polietilene microsottile antiradar, con strisce di celle solari a elevata prestazione incorporate nel tessuto, ventiquattro segmenti conici articolati di titanio, collegati fra loro e parzialmente telescopici, quattro scatole metalliche pressurizzate con quello che ai suoi sensori risultava elio, una miscela di ossigeno e di azoto, metanolo, otto propulsori a impulso atmosferico con spinotti di regolazione automatica e infine dodici cavi di buckycarbonio lunghi quindici metri, ripiegati e agganciati ai quattro angoli del blocco di bambù-3.
«Ci rinuncio» disse Mahnmut, dopo vari minuti di riflessione e di esami. «Che diavolo è?»
«Un aerostato» disse Orphu.
Mahnmut scosse la testa. Nell’atmosfera di Giove c’erano creature a pallone aerostatico, sia viventi sia moravec, e altre nuotavano nella brodaglia di Saturno; ma che cosa intendeva farsene, Koros III, di un aerostato artificiale, su Marte?
Orphu trasmise la risposta mentre Mahnmut ci arrivava da solo. «La missione di Koros era di giungere sulla cima di Olympus Mons, il sito dei disturbi quantici, e in questo modo non avrebbe dovuto risalire il vulcano. Che dimensioni ha quel… pallone?»
Mahnmut gliele precisò.
«Gonfiato con elio qui, al livello del mare marziano» disse Orphu «avrebbe un diametro di poco più di sessanta metri e un’altezza di circa trentacinque, sufficiente a sollevare con facilità la navicella, te, il Congegno e la radio a trasmissione iperveloce, fino ai margini dello spazio… o alla cima di Olympus Mons.»
«Navicella?» ripeté Mahnmut, cercando ancora di capire bene.
«La scatola in cui è racchiuso. Chiaramente era lì che Koros III intendeva viaggiare. Ha un cappuccio di metapolimero, una sorta di copertura a tenuta d’aria?»
«Sì.»
«Allora è giusto.»
«Ma Olympus Mons ha una scala mobile sul lato sud» obiettò Mahnmut, come uno sciocco.
«Koros e i moravec che hanno preparato la missione non lo sapevano» disse Orphu.
Mahnmut distolse per un minuto lo sguardo dal pallone e rifletté. Le scogliere meridionali della Valles Marineris erano solo una sottile linea rossa contro l’orizzonte verdazzurro, mentre la feluca si inoltrava sempre più nel canale centrale dell’estuario. «La navicella è troppo piccola per portare anche te» disse alla fine Mahnmut.
«Be’, naturalmente…» cominciò Orphu.
«Costruirò una navicella più grande» lo interruppe Mahnmut.
«Credi davvero che saliremo sulla cima di Olympus Mons?» disse piano Orphu.
«Non lo so» rispose Mahnmut. «Ma so che quando in questa piccola nave arriveremo all’estremità ovest della Valles Marineris, se ci arriveremo, saremo ancora a più di duemila chilometri dal vulcano. Non ho idea di come faremo ad attraversare il guazzabuglio del Noctis Labyrinthus e risalire l’altopiano Tharsis fino a Olympus Mons. Ma questo… pallone… potrebbe funzionare. Forse.»
«E se partissimo subito?» disse Orphu. «Il pallone sarebbe più veloce di questa… come l’hai chiamata?»
«Feluca» rispose Mahnmut, con un’occhiata al sartiame e alle vele stagliate contro il rosa e il blu del cielo: parecchi piccoli omini verdi dondolavano senza sforzo da una sartia all’altra. «E, no, non penso che dovremmo usare il pallone prima del dovuto. Il tessuto antiradar copre anche la navicella, ma non sono convinto che quelli del cocchio volante non possano rilevarlo. Lo lanceremo quando avremo raggiunto Noctis Labyrinthus. Sarà comunque un viaggio aereo abbastanza lungo e difficile, perché fra noi e Olympus Mons ci saranno tre dei più alti vulcani di Marte.»
Orphu emise un rombo quasi ultrasonico. «Calcolando anche il viaggio in nave, ci tocca percorrere un po’ più di un quarto del pianeta.»
Mahnmut tentò di passare il tempo e di rinfrancarsi un poco leggendo i sonetti di Shakespeare dal libro che aveva salvato dal Dark Lady. Non funzionò. Mentre negli scorsi anni si era tuffato nell’analisi, nella ricerca di strutture nascoste, di legami di parole e di contenuto drammatico, ora vedeva i sonetti come opere tristi. Tristi e piuttosto sgradevoli.
A Mahnmut il moravec non importava affatto di ciò che "Will", il "poeta" dei sonetti, faceva al "Giovane" o s’aspettava che lui gli facesse in cambio (Mahnmut non aveva né pene né ano e non rimpiangeva di non averli) ma ora trovava opprimente, ai confini della perversità, la prolissa adulazione e la flagrante prepotenza del poeta verso lo sciocco ma ricco Giovane. Saltò ai sonetti della "Dama bruna", ma questi erano ancora più cinici e perversi. Mahnmut concordò con l’analisi che l’interesse del poeta per la Dama bruna era incentrato precisamente sulla promiscuità di lei: quella donna dai capelli neri, dagli occhi neri, dal seno grigio e dai capezzoli neri era, se bisognava credere al poeta, non una prostituta, ma certamente qualcosa di non molto lontano da una donnaccia.
Mahnmut aveva da tempo scaricato il saggio di Freud del 1910, Uno speciale tipo di scelta d’oggetto fatta da uomini, nel quale lo stregone dell’età perduta aveva documentato casi di maschi umani che potevano essere eccitati sessualmente solo da donne di cui era ben nota la promiscuità. Shakespeare non aveva avuto esitazione a descrivere una vagina come "la baia dove ognuno attracca" e a giocarci ironicamente (O cunning love, o astuto amore) a proposito della facile promiscuità della sua Dama bruna; e mentre Mahnmut aveva trascorso anni felici a trovare livelli più profondi e strutture drammatiche dietro queste volgarità, quel giorno (il sole vicino al tramonto proprio nel grande mare interno, le scogliere illuminate di rosso verso nord) vedeva i sonetti solo come panni sporchi, le confessioni private di un poeta salace.
«Leggi i sonetti?» chiese Orphu.
Mahnmut chiuse il libro. «Come lo sapevi? Sei diventato telepatico, dopo avere perso gli occhi?»
«Non ancora» rise il moravec di Io. Era legato sul ponte a dieci metri da Mahnmut seduto a prua. «Alcuni tuoi silenzi sono più letterari di altri, ecco tutto.»
Mahnmut si alzò e si girò verso il tramonto. I piccoli omini verdi si muovevano in fretta nel sartiame e lungo la gomenetta dell’ancora, preparando la nave per il loro sonno. «Perché hanno programmato in alcuni di noi una predisposizione per i libri umani?» chiese Mahnmut. «Cosa se ne fa, un moravec, ora che la razza umana potrebbe essere estinta?»
«Me lo sono chiesto anch’io» disse Orphu. «Koros III e Ri Po non avevano questa nostra afflizione, ma tu avrai di sicuro conosciuto altri moravec ossessionati dalla letteratura umana.»
«Urtzweil, il mio vecchio compagno, leggeva e rileggeva la Bibbia nella versione di re Giacomo» disse Mahnmut. «L’ha studiata per decenni.»
«Sì» disse Orphu. «E io e il mio Proust.» Canticchiò a bocca chiusa alcune battute di Me and My Shadow. «Sai cos’hanno in comune tutte queste opere intorno a cui gravitiamo?»
Mahnmut rifletté un momento. «No» rispose infine.
«Sono inesauribili.»
«Inesauribili?»
«Impossibili da consumare. Se fossimo umani, quei particolari drammi e romanzi e poesie sarebbero come case che presentano sempre nuove stanze, scale nascoste, soffitte mai visitate… quella sorta di cose.»
«Ah-ah» fece Mahnmut, poco convinto dalla metafora.
«Oggi non sembri felice, con il tuo Bardo» disse Orphu.
«Credo che la sua inesauribilità abbia esaurito me» ammise Mahnmut.
«Cosa succede sul ponte? C’è gran movimento?»
Mahnmut girò le spalle al tramonto. Tre quarti dell’equipaggio della nave sgambettava in silenzio, legava vele, si arrampicava sulle sartie, calava l’ancora e la fissava. Restavano tre o quattro minuti di luce utile, poi i piccoli omini verdi sarebbero entrati in ibernazione: si sarebbero distesi, rannicchiati, chiusi per la notte.
«Hai sentito le vibrazioni del ponte?» chiese Mahnmut al suo amico. Olfatto a parte, era l’ultimo senso che restava a Orphu.
«No, sapevo che il giorno era alla fine. Perché non li aiuti?»
«Prego?»
«Perché non li aiuti?» ripeté Orphu. «Sei un uomo di mare sano e robusto. Quanto meno, sai distinguere un gherlino da un merlino. Da’ loro una mano… o il più prossimo equivalente moravec.»
«Darei solo fastidio» disse Mahnmut. Guardò il rapido lavoro e la perfetta precisione dei piccoli omini verdi. Correvano sul sartiame e sugli alberi come le scimmie che aveva visto nei video. «E poi noi non siamo telepatici» soggiunse Mahnmut «ma sono abbastanza sicuro che loro lo siano. Non hanno bisogno del mio aiuto.»
«Sciocchezze» disse Orphu. «Renditi utile. Io torno a leggere di Monsieur Swann e della sua amica infedele.»
Mahnmut esitò un momento, poi mise nello zaino l’insostituibile libro di sonetti, trotterellò a mezza nave e collaborò a legare la vela latina appena ammainata. Sulle prime i POV si bloccarono nel lavoro sincronizzato e si limitarono a fissare il moravec (occhi come bottoni d’antracite immobili nel viso verde privo di lineamenti), poi però gli fecero posto e Mahnmut, lanciando occhiate al sole al tramonto e aspirando la fresca aria marziana, si mise di lena al lavoro.
Nelle settimane seguenti Mahnmut cambiò umore, passò dalla depressione alla soddisfazione e a qualcosa di simile all’equivalente moravec della gioia. Lavorò ogni giorno insieme con i POV, continuando a conversare con Orphu anche mentre rattoppava vele, impiombava cordame, ramazzava i ponti, tirava su l’ancora e faceva il turno alla barra. La feluca progrediva di quaranta chilometri al giorno, che parevano pochissimi finché non ci si rendeva conto di risalire il fiume, procedendo perciò contro corrente e con venti irregolari, a remi per la maggior parte del tempo e fermandosi completamente di notte. Poiché la Valles Marineris era lunga circa quattromila chilometri (quasi la larghezza di una nazione dell’Età Perduta, gli Stati Uniti, continuava a ricordargli Orphu) Mahnmut era rassegnato a compiere la traversata in circa cento giorni marziani. Al di là del bordo occidentale del mare interno (Mahnmut continuava a ricordarlo a se stesso e Orphu continuava a ricordarglielo, quando lui se ne dimenticava) c’era l’altopiano Tharsis, con i suoi milleottocento e passa chilometri.
Mahnmut non aveva fretta. I piaceri di navigare sulla feluca (l’imbarcazione non aveva nome, per quanto lui ne sapeva… e non intendeva uccidere un piccolo omino verde per chiederglielo) erano semplici e reali, il panorama era stupefacente, di giorno il sole era caldo, di notte l’aria era deliziosamente fresca e la disperata urgenza della loro missione a poco a poco svaniva nel rassicurante ciclo della routine.
Verso la fine della sesta settimana di navigazione, mentre lavorava all’albero di trinchetto della feluca, Mahnmut vide comparire un cocchio, dritto davanti alla nave, a meno di mezzo chilometro, in volo a bassa quota (solo una trentina di metri sopra le vele) e non ebbe il tempo di correre al coperto. Era da solo all’intersezione dei due segmenti dell’albero (una feluca ha vele triangolari e due alberi a segmenti, con la parte superiore arditamente inclinata all’indietro) e non c’erano piccoli omini verdi nel sartiame. Mahnmut era completamente esposto alla vista di chiunque o qualsiasi cosa pilotasse il cocchio.
Il velivolo sorvolò la feluca, viaggiando a varie centinaia di chilometri all’ora, a quota molto bassa, e Mahnmut vide che i due cavalli che tiravano il cocchio erano ologrammi. L’unico occupante, un uomo alto, in tunica color bronzo, reggeva le redini virtuali. Aveva pelle dorata, era maestosamente bello e lunghi capelli biondi gli ondeggiavano alle spalle. Non si degnò di guardare in basso.
Mahnmut ne approfittò per esaminare veicolo e occupante, utilizzando ogni filtro visivo, frequenza e lunghezza d’onda a disposizione; trasmise via radio i dati a Orphu, nel caso che il dio sul cocchio lo avesse visto e avesse deciso di sbatterlo giù dall’albero, con un semplice gesto della mano. Cavalli, redini e ruote erano ologrammi, ma il cocchio era reale, fatto di titanio e oro. Mahnmut non riuscì a rilevare razzi, impulsi ionici o scie jet, ma il cocchio emetteva energia su tutto lo spettro elettromagnetico, sufficiente a disturbare il resoconto radio di Mahnmut a Orphu, se non fosse avvenuto su fascio compatto. Cosa più infausta, la macchina volante aveva in scia festoni quadridimensionali di flusso quantico. Parte del profilo energetico della macchina era racchiuso in un campo di forza che Mahnmut vedeva chiaramente nell’infrarosso: uno scudo d’energia sulla parte anteriore del velivolo lanciato a grande velocità, a protezione dal vento del suo stesso passaggio, e una più larga bolla difensiva tutt’intorno. Mahnmut era lieto di non avere tirato un sasso o sparato al carro… se avesse avuto un sasso o un’arma a energia, che in realtà non aveva. Quel campo di forza, calcolò Orphu, avrebbe protetto il pilota da qualsiasi cosa tranne una piccola esplosione nucleare.
«Cosa lo fa volare?» chiese Orphu, mentre il cocchio rimpiccioliva a est. «Marte non ha campo magnetico tanto forte da muovere una macchina volante.»
«Credo sia il flusso quantico» disse Mahnmut, sempre appollaiato sull’albero. Era un giorno ventoso e la feluca dondolava e bordeggiava e le onde la colpivano da sud.
Orphu emise un verso poco educato. «La distorsione quantica diretta può lacerare tempo e spazio, anche popoli e pianeti, ma non capisco come possa far volare un cocchio.»
Mahnmut si strinse nelle spalle, anche se il suo amico non poteva vederlo. «Be’, non ha eliche» replicò. «Ti scaricherò i dati, ma a me è parso che quel goffo affare facesse surf su un ricciolo di distorsione quantica.»
«Peculiare» disse Orphu. «Comunque, anche mille macchine volanti come quella non potrebbero spiegare il locus di distorsione quantica rilevato da Ri Po su Olympus Mons.»
«No» convenne Mahnmut. «Almeno quel… dio… non ci ha visti.»
Seguì una pausa e Mahnmut ascoltò il rumore della prua contro le onde e lo sbatacchiare del cordame delle vele latine che si gonfiavano d’aria. C’era un gentile mormorio di vento tra le sartie dove Mahnmut si trovava e il moravec ne apprezzava il suono. Apprezzava anche il men che gentile rollio e beccheggio della nave che bordeggiava, anche se lo compensava facilmente reggendosi con una mano all’albero e con l’altra a una gomena tesa. Erano ben dentro la più. ampia sezione della valle tettonica allagata, adesso, in una zona detta Melas Chasma — con il vasto e lucente mare del Candor Chasma che si apriva a nord e il fondo marino a più di ottomila chilometri sotto di loro — ma all’orizzonte, verso sud, si vedevano scogliere di enormi isole, alcune lunghe molti chilometri e larghe trenta o quaranta.
«Forse ti ha visto e si è limitato a chiedere rinforzi per radio a Olympus Mons» suggerì Orphu.
Mahnmut trasmise l’equivalente di un sospiro in disturbi radio. «Sei sempre ottimista» disse.
«Realista» lo corresse Orphu. Ma divenne serio nella trasmissione successiva. «Sai, Mahnmut, presto dovrai parlare ai piccoli omini verdi. Abbiamo troppe domande che necessitano di risposta.»
«Lo so» disse Mahnmut. Al pensiero, sentì un vago senso di malessere che nemmeno il rollio della feluca gli aveva provocato.
«Forse sarà meglio anticipare l’uso del pallone» suggerì di nuovo Orphu. Mahnmut aveva trascorso diversi giorni a mettere insieme alla meno peggio una navicella più grande, utilizzando il bambù-3 di quella originaria e alcune assi tolte da uno dei meno indispensabili parapetti di murata della feluca. I POV non avevano avuto niente da eccepire.
«Penso che non sia ancora il momento di lanciare il pallone» disse Mahnmut. «Non sappiamo neppure in quale direzione soffino in prevalenza i venti in questo mese e i propulsori a impulso non ci daranno molta manovrabilità, una volta che il pallone sarà salito nelle correnti marziane. Meglio avvicinarsi il più possibile a Olympus Mons, prima di rischiare il pallone.»
«Sono d’accordo» disse Orphu, dopo qualche istante di silenzio. «Ma è ora di parlare di nuovo ai POV. Ho una teoria secondo la quale non usano la telepatia, né quando parlano con te né quando trasmettono informazioni fra loro.»
«No?» disse Mahnmut, guardando giù in direzione di una decina di piccoli omini verdi che salivano dai banchi dei remi e cominciavano a lavorare con efficienza sul cordame di prua. «Non riesco a immaginare cos’altro potrebbe essere. Di sicuro non hanno bocca né orecchie e non si scambiano dati su nessun tipo di frequenza.»
«Credo che le informazioni siano nelle particelle nel loro corpo» disse Orphu. «Nanopacchetti di informazioni codificate. Per questo vogliono che tu usi la mano per afferrare il loro organo interno, una sorta di centrale telegrafica: la tua mano, a differenza dei tuoi generici manipolatori, è organica. Macchine molecolari viventi possono passare nel tuo flusso sanguigno per via osmotica e raggiungere il tuo cervello organico, dove gli stessi nanobyte collaborano a tradurre.»
«Ma come comunicano fra loro?» chiese Mahnmut, dubbioso. Preferiva l’ipotesi della telepatia.
«Nello stesso modo» rispose Orphu. «Col tatto. La loro pelle è semipermeabile e probabilmente il passaggio dei dati avviene a ogni contatto anche casuale.»
«Non so» disse Mahnmut. «Ricordi che, quando è giunta la feluca, il suo equipaggio pareva sapere già tutto di noi? Compresa la nostra destinazione? Mi è parso che la nostra presenza fosse stata diffusa telepaticamente per tutta la rete psichica dei piccoli omini verdi.»
«Sì, ho avuto anch’io la stessa impressione» disse Orphu. «Ma, a parte il fatto che la scienza umana o moravec non ha mai stabilito anche solo un contesto teorico per la telepatia, il rasoio di Occam imporrebbe che l’equipaggio della feluca abbia saputo di noi tramite semplice contatto fisico con i POV nel punto di approdo o con altri che erano già stati lì.»
«Nanopacchetti di dati nel flusso sanguigno, eh?» disse Mahnmut, lasciando trasparire lo scetticismo. «Ma se faccio altre domande, uno di loro deve comunque morire.»
«Purtroppo» disse Orphu, senza ripetere l’argomentazione che i singoli POV non avevano probabilmente maggiore personalità autonoma di quanta non ne avessero le cellule della pelle umana.
Parecchi piccoli omini verdi si arrampicavano sul trinchetto vicino a Mahnmut, legando cavi e ammainando la vela latina, con l’abilità di acrobati. Nel passare su o giù, muovevano amichevolmente la testa in un cenno di saluto.
«Aspetterò ancora un poco, a fare domande» disse Mahnmut. «In questo momento all’orizzonte meridionale c’è un’enorme nube rossa e marrone e ci sarà bisogno di tutti per fare fronte alla tempesta in arrivo.»