All’inizio non riuscivano a togliere Hannah dalla vasca. Il pesante pezzo di tubo non intaccava la plastica trasparente. Daeman sparò tre colpi di pistola, ma i dardi scalfirono appena la superficie della cisterna e rimbalzarono da tutte le parti, rompendo oggetti fragili, lacerando servitori già disattivati e sfiorando lui e Harman. Alla fine questi trovò un modo per arrampicarsi sulla vasca e usarono il tubo come leva per sollevare e strappare il complicato coperchio. Poi Harman abbassò il visore della termotuta, si mise la maschera osmotica e saltò nel liquido in prosciugamento per tirare fuori Hannah. Senza la principale sorgente di corrente elettrica, con le luci spente e col bagliore della vasca che si riduceva a zero, lavorarono alla luce della torcia elettrica.
Distesero sul pavimento bagnato dello spedale la loro giovane amica, nuda, bagnata, glabra, con la pelle che pareva nuova di zecca e l’aria vulnerabile di un pulcino. La buona notizia era che Hannah respirava, ansiti brevi e rapidi, ma senza dubbio con le proprie forze. La cattiva notizia era che non riuscivano a svegliarla.
«Vivrà?» chiese Daeman. Gli altri ventiquattro uomini e donne nelle vasche erano chiaramente morti o moribondi e non c’era modo di tirarli fuori in tempo.
«Come faccio a saperlo?» ansimò Harman.
Daeman si guardò intorno. «Senza l’energia per il riscaldamento, qui la temperatura scende in fretta. Fra qualche minuto sarà sotto zero, come nella città. Dobbiamo trovare qualcosa con cui coprirla.» Impugnando sempre la pistola, ma incurante dell’eventuale presenza di Calibano, girò nello spedale sempre più buio. C’erano ossa umane, quarti di carne in decomposizione, servitori immobili, pezzi di becher e di tubi, ma nemmeno uno straccio di coperta. Daeman strappò un pezzo di plastica trasparente dal rivestimento che avevano già sfruttato per sigillare l’ingresso semipermeabile e tornò da Harman…
Hannah, ancora priva di conoscenza, era scossa da un tremito incontrollabile. Harman la stringeva fra le braccia, a mani nude la massaggiava per riscaldarla, ma senza grandi risultati. L’avvolsero alla meglio nel foglio di plastica, anche se non erano convinti che l’involucro trattenesse il calore corporeo.
«Morirà, se non facciamo qualcosa» mormorò Daeman. Dalle ombre delle vasche ormai buie provenne un fruscio. Daeman non si prese nemmeno la briga di alzare la pistola. Il vapore prodotto dall’ossigeno liquido e da altri fluidi fuoriusciti cominciava a riempire lo spedale.
«Tanto moriremo presto in ogni caso» disse Harman. Indicò i pannelli trasparenti sul soffitto.
Daeman alzò gli occhi: il bianco puntino luminoso dell’acceleratore lineare lungo tre chilometri era più vicino, molto più vicino. «Quanto manca?» chiese.
Harman scosse la testa. «Senza corrente, i cronometri e Prospero sono scomparsi.»
«Quando sono iniziati i guai avevamo ancora una ventina di minuti.»
«Già» disse Harman. «Ma quanto tempo è trascorso? Venti minuti? Trenta? Quarantacinque?»
Daeman guardò in alto. La Terra non si vedeva; solo le stelle e la sagoma luminosa che si precipitava contro di loro ardevano di gelida luce, al di là dei pannelli trasparenti. «La Terra era ancora visibile quando è iniziata questa merda» disse Daeman. «Sarà stato non più di venti minuti fa. Quando ricompare…»
Il limbo biancazzurro del pianeta comparve tra i pannelli inferiori. «Dobbiamo andare» disse Daeman. Nel buio alle loro spalle ci furono altri schianti e fruscii. Daeman si girò di scatto, pistola pronta, ma Calibano non venne fuori. Ora anche la gravità dello spedale diminuiva; liquidi raccolti in pozze si staccavano dal pavimento e galleggiavano, si aggregavano in forme simili ad amebe e tendevano a divenire sfere. Da ogni parte la luce della torcia si rifletteva su superfici lucide e bagnate.
«Come ce ne andiamo?» chiese Harman. «Abbandoniamo qui Hannah?» Le palpebre della donna non erano chiuse completamente, ma lasciavano vedere solo il bianco degli occhi. Hannah tremava meno: a Daeman parve un segno infausto.
Il giovane si era messo la maschera (nello spedale c’era aria appena sufficiente a respirare, anche se puzzava come una cella per carne surgelata rimasta senza corrente) e ora si grattò la barba. «Non possiamo portarla al sonie, abbiamo solo due termotute. Morirà assiderata già nella città, altro che nello spazio.»
«Il sonie ha il campo di forza e il riscaldamento» disse piano Harman. «Savi li aveva messi in funzione, quando volavamo ad alta quota.» Si era di nuovo sollevato la maschera e gli si condensava il fiato nell’aria fredda. Aveva ghiaccioli sulla barba e sui baffi, e occhi così stanchi che Daeman stava male solo a guardarli.
Daeman scosse la testa. «Savi mi ha spiegato tutto sul freddo e sul caldo nello spazio, ciò che il vuoto provoca al corpo umano. Hannah sarà già morta prima che mettiamo in funzione il campo di forza.»
«Ricordi come metterlo in funzione?» chiese Harman. «Come pilotare quel maledetto velivolo?»
«Io… non lo so» rispose Daeman. «Ho guardato Savi pilotarlo, ma non ho mai pensato che avrei dovuto farlo io. Tu ti ricordi?»
«Mi sento così… stanco» disse Harman, strofinandosi le tempie.
Hannah aveva smesso di tremare e pareva morta. Daeman si tolse il guanto della tuta termica e posò la mano sul petto della ragazza. Per un secondo fu sicuro che fosse morta, poi sentì il debole battito del cuore, rapido come quello di un passerotto. «Harman, togliti la termotuta» gli disse in tono deciso.
Harman lo guardò, sorpreso. «Sì, hai ragione» disse. «Ho avuto le mie cinque Ventine. Lei merita di vivere più di…»
«No, idiota» lo interruppe Daeman e cominciò ad aiutarlo a togliersi la termotuta. L’aria già gli gelava la faccia scoperta e le mani; Daeman non riusciva a immaginare cosa significasse essere nudi in quel freddo. L’aria diventava sempre più rarefatta, le loro voci risuonavano più acute e più deboli. «Dividi con lei la termotuta. Conta fino a cinquecento, poi la togli a lei e ti scaldi. Continua a scambiarla con lei, se no muore.»
«Tu dove andrai?» ansimò Harman. Si era tolto la termotuta e cercava di infilarla alla ragazza priva di sensi, ma per il freddo aveva un tale tremito alle braccia e alle mani che Daeman dovette aiutarlo. La termotuta si adattò immediatamente al corpo di Hannah! e la ragazza cominciò di nuovo a tremare, anche se la tuta tratteneva ora il cento per cento del calore corporeo. Harman le mise sul viso la maschera osmotica.
«Vado a prendere il sonie» ansimò Daeman. Diede a Harman la pistola, ma fu obbligato a sollevare la maschera per farsi udire, perché Harman non aveva più la radio incorporata nella tuta. «Tienila, nel caso che Calibano si faccia vivo.» Prese il pezzo di tubo, lungo più di un metro, che aveva usato come palanchino.
«Non verrà da noi» disse Harman, con i denti che gli battevano. «Verrà a prendere te. Poi potrà mangiarci tutti a piacimento.»
«Be’, speriamo di fargli venire il mal di pancia» disse Daeman. Si calò la maschera osmotica, si diede la spinta e si proiettò verso la membrana d’uscita.
Usò l’estremità appuntita del tubo per tagliare nella membrana un foro a grandezza d’uomo; l’attraversò, scalciando, e si trovò nella gravità più bassa, nel gelo più intenso e nel buio fuori dello spedale. Solo allora si accorse di non avere detto a Harman che contava di tornare lì col sonie e di attraversare in qualche modo la parete finestra per prenderli a bordo. "Be’" pensò "è troppo tardi per tornare indietro a dirglielo."
Aveva sempre avuto difficoltà a tenere dietro a Savi e Harman, quando all’inizio si muovevano nella città di cristallo, un mese (un’eternità!) prima, con quel sistema di spinta e breve volo; ma ora nuotava nell’aria rarefatta come una creatura marina abituata alla bassa gravità, come una lontra, e trovava sempre il posto perfetto dove puntare il piede per darsi la spinta nell’istante giusto, muoveva come pagaie nell’aria i tre arti liberi, con la massima economia di sforzo fisico, faceva capriole e piroette, con tempismo perfetto per trovare il successivo montante o tavola o perfino cadavere post-umano dove darsi la spinta e percorrere il tratto seguente del viaggio.
Eppure quel sistema non era abbastanza rapido. Daeman sentiva che il tempo avrebbe finito per vincere la corsa. Lanciava occhiate in alto ai pannelli della città di cristallo, che pian piano si oscuravano, che rendevano più fitto il buio fra i banchi di fuchi e le terrazze disseminate di cadaveri; ma lì non c’erano pannelli trasparenti, dai quali vedere l’acceleratore lineare in arrivo. "Lo sentirò" si chiese Daeman "quando si schianterà contro il tetto di cristallo? O l’aria è troppo sottile per trasmettere i suoni?"
Accantonò le domande: giunto il momento, l’avrebbe scoperto.
Diretto a sud, rischiò di oltrepassare la torre di cristallo, ma guardò in alto e vide di essere proprio sotto le centinaia e centinaia di piani che si alzavano nel buio sopra di lui.
Atterrò sull’asteroide, resse a due mani il tubo, si guardò intorno, usando le lenti della termotuta per penetrare le tenebre. Ombre umanoidi galleggiavano là fuori, alcune abbastanza vicino, ma i loro capitomboli involontari facevano pensare a cadaveri di post-umani, non a Calibano. Probabilmente.
Daeman si mise sottobraccio il tubo, si accosciò, imitando la postura di Calibano, e si diede la spinta, con tutte le energie residue nelle gambe e nelle braccia. Galleggiò verso l’alto, ma lentamente, troppo lentamente. Aveva l’impressione di non essersi affatto mosso, quando raggiunse il primo terrazzo, due metri e mezzo più in alto; e capì quanto fosse debole, quando usò la ringhiera per spingersi di nuovo in alto, tenendo d’occhio le ombre nel salire.
C’erano troppe ombre. Calibano poteva saltargli addosso da uno o l’altro dei terrazzi bui, ma lui non poteva farci niente: doveva stare vicino alla parete e ai balconi per continuare a darsi la spinta, sempre in movimento, galleggiando verso l’alto, rapidamente all’inizio, poi con velocità sempre minore, per scegliere il terrazzo successivo, sentendosi come una rana che saltasse da una foglia di ninfea di pietra e di metallo, all’altra.
All’improvviso si mise a ridere. Ricordò che la sua termotuta, sotto la polvere e il fango e il sangue e la sporcizia, era verde. Lui sembrava davvero una goffa rana rinsecchita, acquattata per darsi la spinta in verticale, ogni dieci ringhiere, ogni dieci balconi. La risata echeggiò sordamente nelle cuffie della trasmittente e lo sconvolse, lo spinse al silenzio, a parte il respiro affannato e i grugniti di sforzo.
Con una stilettata di paura, Daeman esitò e si ribaltò, pur continuando a galleggiare più in alto. "Ho oltrepassato il piano dove il sonie è parcheggiato all’esterno?" si domandò. La distanza dal pavimento in basso pareva impossibile, trecento metri d’aria vuota, almeno, e il sonie era solo… "Quanti piani?" Si sforzò di ricordare l’immagine olografica nella sala di comando di Prospero. Centocinquanta metri? Duecento?
Con la nausea per il terrore d’essersi smarrito, galleggiò più lontano dalla parete e controllò i pannelli di vetro. La maggior parte brillava di quella ripugnante luminescenza arancione, sempre più debole. Alcuni erano limpidi, così in alto, inargentati dal chiarore della Terra. Nessuno mostrava il segno bianco delle membrane semipermeabili, come la prima camera d’equilibrio e la porta di Prospero. "Nell’ologramma ho visto davvero quel segno sulla finestra o presumo solo che ce ne sia uno visibile dall’interno?"
Galleggiando fino quasi a fermarsi al culmine dell’ultimo salto, si tolse in fretta la maschera osmotica. Stava per vomitare.
"Non hai tempo per vomitare, idiota" si disse. Provò a respirare l’aria a quel livello, ma era troppo rarefatta, troppo fredda, troppo viziata. Cosciente solo in parte, si rimise la maschera. "Perché non ho portato la torcia?" si lamentò. "Pensavo che servisse a Harman per badare a Hannah o per individuare Calibano e sparargli, ma ora non riesco a trovare la fottuta finestra."
Si costrinse a rallentare il respiro e a ritrovare la calma. Prima che la gravità cominciasse a tirarlo giù di nuovo verso quel piano buio una trentina di metri più in basso, si diede la spinta e si scostò maggiormente dalla parete, girandosi sulla schiena come un nuotatore che guardasse le stelle.
Eccola là. Quindici metri più in alto, su quella parete. Il riquadro bianco nel pannello opaco di una finestra.
Daeman piroettò, tenne fermo il tubo fra mento e petto, usò tutt’e due le braccia e le mani guantate in un potente nuoto a rana. Se avesse mancato il balcone più vicino, avrebbe perso sessanta o più metri di quota e non credeva di avere le forze per rifare la salita.
Raggiunse il terrazzo, con la sinistra afferrò il tubo e si diede la spinta in verticale, con una scelta di tempo così perfetta che rallentò e si fermò proprio davanti al pannello col segno bianco. Ansimando, con la vista annebbiata dal sudore, protese il braccio destro… mano e braccio attraversarono la membrana come se fosse un velo leggermente appiccicoso.
«Grazie, Signore» ansimò Daeman.
Calibano lo colpì in quel momento, saltando fuori dai recessi in ombra del terrazzo superiore, lunghe braccia e lunghe gambe spalancate e pronte a ghermire, denti che brillavano al chiarore della Terra.
«No» grugnì Daeman, mentre il mostro colpiva, gli avvolgeva intorno al corpo braccia e gambe e lunghe dita, apriva le fauci per azzannargli la giugulare. Daeman riuscì ad alzare il braccio destro a protezione della gola (i denti di Calibano trapassarono la carne e incontrarono l’osso) mentre le due figure, in un groviglio di membra che si dibattevano, col sangue che zampillava nella bassa gravità intorno a loro, cadevano insieme nell’aria rarefatta sul balcone in basso, schiantavano vetro e plastica e legno e carne congelata di post-umani, mentre ruzzolavano nel buio.