Il piccolo robot mi affascina e sono tentato di restare nella Grande Sala degli Dèi per scoprire che cosa succederà; ma non mi fido ad avvicinarmi perché gli dèi mi potrebbero sentire, in questo salone vasto e silenzioso. Il dialogo fra le divinità e il robot è ora in greco antico (gli dèi, almeno, Zeus compreso, usano la lingua che si parla qui e alla quale sono ormai abituato) ma riesco a cogliere solo qualche brano.
«… piccoli automi… giocattoli… dal Grande mare interno… andrebbero distrutti…»
Anziché strisciare più vicino, ricordo d’essere qui per il pettine di Afrodite e di dover tornare a tutti i costi dalle donne di Troia. Il destino di centinaia di migliaia di persone può dipendere da ciò che farò, perciò arretro in punta di piedi e mi allontano dagli dèi e dalle bizzarre macchine; percorro il lungo corridoio laterale e arrivo alla piccola suite di stanze dove qualche giorno fa ho conosciuto la dea dell’amore. È possibile che siano trascorsi solo pochi giorni? È successo di tutto, da allora, e non esagero.
Sento delle voci, voci di dèi, echeggiare da qualche parte nella grande sala, e scivolo nel pied-à-terre di Afrodite, col cuore in gola. Il posto è esattamente uguale a come lo ricordavo: senza finestre, illuminato appena dalle braci di alcuni tripodi, arredato solo con un divano e pochi altri mobili, compreso lo schermo dal tenue bagliore azzurro sulla scrivania di marmo. L’altra volta avevo pensato che lo schermo fosse simile a quello di un computer, e adesso vado a controllare. È proprio così, il lucente rettangolo azzurro non posa sul piano della scrivania, si libra a cinque centimetri dal marmo; non mostra il menu di Windows della Microsoft, ma un solo cerchio bianco che pare invitarmi a toccarlo per accendere lo schermo.
Lo lascio stare.
Ricordo d’avere visto accanto al divano, su un tavolino rotondo, alcuni piccoli oggetti personali di Afrodite; posso solo augurarmi che fra quelli ci sia un pettine. Non c’è. Solo una spilla d’argento, alcuni piccoli cilindri (rossetti per labbra divine?) e, a faccia in giù, uno specchio d’argento splendidamente lavorato, ma nessun pettine.
Maledizione. Non ho idea di dove si trovi la casa di Afrodite, tra le ville disseminate sull’ampia e verdeggiante sommità dell’Olimpo, e non posso certo chiedere indicazioni a un dio. Ho scommesso con Elena che le avrei portato il pettine di Afrodite e ho perduto. Comunque, l’importante era mostrare a quelle donne che posso andare sull’Olimpo e tornare, ma è essenziale che mi sbrighi. Non so quanto le donne troiane aspetteranno.
Prendo lo specchio, senza guardarlo, e mi concentro sulla stanza nel piano interrato del tempio di Atena. Aziono il medaglione.
Quando ricompaio, ci sono sette donne, non le cinque che avevo lasciato lì qualche minuto fa. Tutte arretrano di un passo nel vedermi comparire dal nulla, ma una di loro strilla come impazzita e si copre il viso. Ho appena il tempo di vederla in faccia e la riconosco: è Cassandra, la bellissima figlia di re Priamo.
«Hai portato il pettine, Hock-en-bear-eeee? La prova che puoi andare sull’Olimpo come fanno gli dèi?»
«Non ho avuto il tempo di cercarlo» rispondo. «Ma ho preso questo.» Porgo lo specchio alla più vicina, Laodice, figlia di Ecuba.
«Le incisioni sul manico d’argento e sul dorso dello specchio» dice Elena «somigliano a quelle che ricordo sul pettine della dea, ma…»
S’interrompe perché Laodice ansima e rischia di lasciar cadere lo specchio. La sacerdotessa, Teanò, lo prende, vi si rimira, sbianca in viso e lo passa ad Andromaca. La moglie di Ettore guarda e arrossisce. Cassandra lo toglie di mano ad Andromaca, fissa la propria immagine e strilla di nuovo.
Ecuba lancia un’occhiataccia a Cassandra e le strappa via lo specchio. Capisco subito che non corre buon sangue fra le due donne e ricordo il motivo: Cassandra, ricevuto da Apollo il potere della profezia, ha chiesto con insistenza a re Priamo di far uccidere il figlio di Ecuba, Paride, appena fosse nato. Fin dall’infanzia Cassandra ha previsto la tragedia che sarebbe derivata dalla cattura di Elena e la conseguente guerra. Ma, secondo la tradizione, il dono di Apollo era accompagnato da una maledizione: Cassandra avrebbe visto il futuro, ma non sarebbe stata creduta.
Ora Ecuba, a bocca aperta, fissa l’immagine nello specchio.
«Cosa c’è?» chiedo. Qualcosa non va, in quello specchio.
Elena lo prende dalle mani della madre di Ettore e me lo passa. «Vedi, Hock-en-bear-eeee?»
Guardo. La mia immagine è… strana. Sono e non sono io. Ho mento più volitivo, naso più piccolo, occhi più arditi, zigomi più alti, denti più bianchi… «Avete visto tutte la stessa cosa?» chiedo. «L’immagine idealizzata di voi stesse?»
«Sì» conferma Elena. «Lo specchio di Afrodite mostra solo bellezza. Abbiamo visto noi stesse come dee.»
Non riesco a immaginare che Elena possa essere più bella di quanto sia già, ma annuisco e tocco la parte riflettente. Non è vetro. È morbida al tatto, cedevole, più simile allo schermo a cristalli liquidi di un computer portatile. Forse lo specchio è proprio un computer e nel dorso inciso potrebbero esserci potenti microchip e programmi video morfici che eseguono algoritmi di simmetria, proporzioni ideali e altri elementi di bellezza come la percepiscono gli esseri umani.
«Hock-en-bear-eeee» dice Elena «lascia che ti presenti altre due di noi che abbiamo fatto venire qui stamattina per giudicare se dici o no il vero. La più giovane è Cassandra, figlia di Priamo. La più anziana è Erofile, "amata da Era", la più vecchia delle sibille e delle sacerdotesse di Apollo Sminteo. È stata Erofile a interpretare il sogno di Ecuba fatto tanti anni fa.»
«Quale sogno?» chiedo.
Ecuba, che a quanto pare non guarda mai Erofile né Cassandra, dice: «Quando ero gravida del secondo figlio, Paride, ho sognato di generare una torcia accesa che appiccava fuoco a Ilio e la radeva al suolo. E quel figlio diventava una furiosa Erinni… una figlia di Crono per alcuni, la figlia di Forci per altri, la figlia di Ade e di Persefone per altri ancora ma, per voce comune, più probabilmente la figlia della implacabile Notte. Questa Erinni di fiamme non aveva ali, ma assomigliava alle arpie. L’alito le puzzava di zolfo. Dagli occhi le colava una bava velenosa. Parlava con voce simile al muggito di bovini atterriti. Portava nella cintura una frusta di corregge con borchie di ottone. Teneva una torcia in una mano e un serpente nell’altra, abitava negli Inferi ed era nata per vendicare gli affronti alle madri. Il suo approssimarsi era annunciato da tutti i cani di Ilio, che abbaiavano come in pena».
«Ehi, che sogno!» esclamo.
«Ho intuito che quella Erinni era il bambino in seguito chiamato Paride» dice la vecchiaccia chiamata Erofile. «Anche Cassandra lo previde e raccomandò che il bambino fosse ucciso non appena uscito dal ventre.» Lancia a Ecuba un’occhiata di fuoco. «Il nostro consiglio fu ignorato.»
Elena si mette letteralmente fra le due donne. «Tutte, qui, Hock-en-bear-eeee, abbiamo avuto visioni di Troia data alle fiamme. Ma non sappiamo quale delle nostre visioni sorga semplicemente dall’ansia per noi stesse, per i nostri figli e i nostri mariti e quale sia dovuta al dono divino della veggenza. Così dobbiamo giudicare le tue visioni. Cassandra ha delle domande da farti…»
Mi giro a guardare Cassandra. È bionda e anoressica, ma pur sempre di una bellezza stupefacente. Ha unghie rosicchiate e sanguinanti, non smette un attimo di torcere e intrecciare le dita. Non riesce a stare ferma. Ha occhi bordati di rosso come le unghie. Mi ricorda le foto di bellissime stelline del cinema in cura per tossicodipendenza.
«Non ho sognato di te, uomo insignificante» dice Cassandra.
Lascio perdere l’insulto e rimango in silenzio.
«Ma ti chiedo questo» continua Cassandra. «Una volta sognai di re Agamennone e della regina Clitennestra, vedendoli come un grande toro reale e una vacca. A te cosa dice questo sogno, o Profeta?»
«Non sono un profeta» replico. «Il vostro futuro è il mio passato, tutto qui. Ma hai visto Agamennone come un toro perché sarà macellato come un bue al suo ritorno a casa, a Sparta.»
«Nel suo stesso palazzo?»
«No.» Mi sento come sotto il torchio agli esami orali all’Hamilton College, dove ho frequentato i primi anni d’università. «Agamennone sarà ucciso in casa di Egisto.»
«Per mano di chi? Per volontà di chi?»
«Clitennestra.»
«Per quale ragione, o Non-profeta?»
«Il sacrificio della loro figlia Ifigenia, voluto da Agamennone.»
Cassandra continua a fissarmi, ma annuisce lievemente alle altre donne. «E cosa sogni di me e del mio futuro, o Veggente?» chiede, sarcastica.
«Sarai selvaggiamente stuprata in questo stesso tempio» rispondo.
Pare che nessuna respiri. Forse ho esagerato. Be’, quella puttana vuole la verità e la verità le dico.
Cassandra pare imperterrita, perfino compiaciuta. Mi rendo conto che la giovane profetessa da anni ha visto in sogno il proprio stupro. Nessuno ha mai dato ascolto ai suoi avvertimenti. Sarà un sollievo, per lei, udire uno che conferma le sue visioni.
Ma quando parla di nuovo, usa un tono tutt’altro che compiaciuto. «Chi mi stuprerà, qui nel tempio?»
«Aiace.»
«Il Grande o il Piccolo?» chiede. Pare nevrotica e ansiosa, ma anche molto attraente e vulnerabile.
«Aiace il Piccolo» dico. «Aiace di Locri.»
«E che cosa starò facendo qui nel tempio, Piccolo Uomo, quando Aiace di Locri mi violenterà?»
«Starai tentando di salvare o di nascondere il Palladio» rispondo. Con un cenno indico la piccola statua a tre metri da me.
«E Aiace il Piccolo resterà impunito, o Uomo?»
«Annegherà nel viaggio di ritorno. Quando la sua nave si schianterà sugli scogli Girei. Quasi tutti gli studiosi lo ritengono un segno dell’ira di Atena.»
«La dea porterà sventura su Aiace di Locri per l’ira causatale dal mio stupro o per vendicare la profanazione del suo tempio?» chiede Cassandra.
«Non so. La seconda, probabilmente.»
«Chi altri si troverà nel tempio mentre sarò stuprata, o Uomo?»
Qui devo pensarci un secondo. «Odisseo» dico infine, con voce in crescendo, come uno studente che si auguri d’avere dato la risposta esatta.
«Chi altri, oltre a Odisseo, figlio di Laerte, sarà testimone della mia profanazione quella notte?»
«Neottolemo» dico, dopo averci pensato.
«Il figlio di Achille?» interviene Teanò, con un sogghigno. «Ha nove anni ed è rimasto ad Argo.»
«No» replico «ha diciassette anni ed è uno spietato guerriero. Lo chiameranno qui, da Sciro, quando Achille sarà ucciso. Neottolemo sarà con Odisseo nel ventre del grande cavallo di legno.»
«Cavallo di legno?» ripete Andromaca.
Però vedo, dalle pupille dilatate di Elena, Erofile e Cassandra, che tutt’e tre hanno avuto visioni del cavallo.
«Questo Neottolemo ha un altro nome?» chiede Cassandra. Ha il tono e l’intensità di uno zelante pubblico ministero.
«Alle generazioni future sarà noto come Pirro» rispondo. Mi sforzo di ricordare i più piccoli particolari riportati nei commentari, nei poeti ciclici, nei frammenti Ciprii di Proclo e nel mio amato Pindaro (ne è passato, di tempo, da quando ho letto Pindaro). «Dopo la guerra, Neottolemo non salperà per tornare nella vecchia casa di Achille a Sciro, ma sbarcherà in Molossia, sul lato occidentale dell’isola. I re successivi lo chiameranno Pirro e sosterranno di discendere da lui.»
«Farà altro, nella notte in cui i greci prenderanno Troia?» insiste Cassandra.
Guardo la giuria di donne troiane (moglie di Priamo, figlia di Priamo, madre di Scamandrio, sacerdotessa di Atena, una sibilla con poteri paranormali); poi la giovane donna condannata a vedere il futuro ed Elena, moglie sia di Menelao sia di Paride. Tutto sommato preferirei i giurati di O.J. Simpson. «Pirro, noto adesso come Neottolemo, quella notte ucciderà re Priamo nel tempio di Zeus» dico. «Getterà Scamandrio giù dalle mura e farà schizzare sulle rocce il cervello del bambino. Porterà personalmente Andromaca alla nave delle schiave. L’ho già detto alle altre.»
«E questa notte giungerà presto?» insiste Cassandra.
«Sì.»
«Mesi e anni o giorni e settimane?»
«Giorni e settimane.» Cerco di stimare quanti giorni passeranno prima che Achille uccida Ettore e Troia cada, se e quando la tabella di marcia dell’Iliade si riassesterà. Non molti.
«Ora dicci… dimmi, o Uomo… quale sarà il mio destino dopo lo stupro di Ilio e di Cassandra» ordina, brusca, Cassandra.
Qui esito. Mi sento la bocca secca. «Il tuo destino?» ripeto.
«Il mio destino, o Uomo del Futuro» sibila la bellissima bionda. «Di sicuro, violentata o no, non sarò lasciata qui, mentre Andromaca sarà trascinata in schiavitù e la nobile Elena sarà reclamata di nuovo dal rabbioso Menelao. Che ne sarà di Cassandra, o Uomo?»
Cerco di umettarmi le labbra. "Può vedere il suo stesso destino?" mi chiedo. Non ho idea se il suo dono della profezia vada al di là della caduta di Troia. Qualcuno, credo il poeta e studioso Robert Graves, tradusse il nome Cassandra come "colei che intrappola gli uomini". Ma lei è anche una donna che ha avuto dagli dèi la maledizione di dire sempre la verità. Decido di fare la stessa cosa. «A causa della tua bellezza, Agamennone ti reclamerà come concubina» dico, con voce appena percettibile. «Ti porterà con sé in patria, come concubina.»
«Gli genererò figli, prima dell’arrivo?»
«Credo di sì» dico, suonando ridicolo alle mie stesse orecchie. Non faccio altro che mescolare Omero con Virgilio, Virgilio con Eschilo e tutti con Euripide. Diavolo, perfino Shakespeare ci provò, con questa storia. «Due gemelli» soggiungo, dopo una pausa. «Teledamo e… ah… Pelope.»
«E quando giungerò a Sparta, patria di Agamennone?» insiste Cassandra.
«Clitennestra ti ucciderà, con la stessa ascia con cui uccide Agamennone» dico, con voce più acuta di quanto non voglia.
Cassandra sorride. Non è un sorriso piacevole. «Prima o dopo avere decapitato Agamennone?»
«Dopo» rispondo. ’Fanculo. Se può sopportarlo lei, posso sopportarlo anch’io. Probabilmente sono un uomo morto in ogni caso. Ma userò lo storditore sul maggior numero possibile di quelle puttane, prima che mi buttino giù. «Clitennestra deve inseguirti per un poco» dico. «Ma alla fine ti raggiunge. E taglia la testa anche a te. E poi uccide i tuoi gemelli.»
Le sette donne mi fissano a lungo in silenzio e il loro sguardo è imperscrutabile. Mi riprometto di non giocare mai a poker con una di quelle donnacce. Poi Cassandra dice: «Sì, quest’uomo conosce il futuro. Se la sua visione e la sua presenza qui sono un dono degli dèi o un loro trucco per scoprire il nostro tradimento, non lo so. Ma dobbiamo fidarci di lui, per il nostro segreto. Il tempo che manca alla caduta di Ilio è troppo breve per fare altrimenti».
Elena annuisce. «Hock-en-bear-eeee, usa il medaglione per andare nel campo degli achei. Porta Achille a casa di Ettore, nel vestibolo della stanza del bambino, all’ora del prossimo cambio della guardia sulle mura di Ilio.»
Rifletto. Il gong rintocca e la guardia cambia a quelle che sarebbero le undici e mezzo antimeridiane. Ossia fra circa un’ora.
«E se Achille non vuole venire?» chiedo.
Lo sguardo collettivo che le donne riversano su di me è ora sette parti di disprezzo e tre di compassione.
Mi telequanto come se avessi il diavolo alle calcagna.
Non dovrei farlo, è una sciocchezza, e lo faccio soprattutto perché ho paura di affrontare Achille; ma per tutto l’interrogatorio di Cassandra ho ripensato con curiosità al piccolo robot sull’Olimpo. Certo, ho già visto sull’Olimpo cose bizzarre (anche senza contare dèi e dee, già abbastanza bizzarri per conto loro), come il gigantesco Guaritore a forma d’insetto. Ma un certo non so che nel piccolo robot, ammesso che sia un robot, mi ha colpito. Quel robot non pareva appartenere a nessuno dei due mondi fra i quali ho diviso il mio tempo negli ultimi nove anni, l’Olimpo e Ilio. Pareva più legato al mio mondo, al mio vecchio mondo. Al mondo reale. Non chiedetemi perché. Non ho mai visto un robot umanoide, se non nei film di fantascienza.
E poi, mi dico, ho un’ora di tempo, prima di portare Achille da Ettore. Mi metto l’Elmo di Ade e mi telequanto nella Grande Sala degli Dèi.
Il piccolo robot e gli altri congegni, compresa la grossa macchina a forma di granchio, non ci sono più, ma Zeus è ancora lì. Insieme a gran parte degli dèi, compreso il dio della guerra, Ares, che ricordavo nella vasca di guarigione accanto a quella di Afrodite.
"Madre misericordiosa" penso "dov’è adesso Afrodite?" Lei mi vede anche se indosso l’Elmo di Ade. Ha ordinato alla Musa di darmi l’elmo solo perché poteva rintracciarmi ogni volta che voleva. Sarà già fuori della vasca? "Oh, Cristo!"
Ares strepita con tutti gli dèi, mentre Zeus siede sul trono. «Là sotto regna la follia!» grida. «Manco qualche giorno e voi vi lasciate sfuggire di mano la guerra! Il Caos impera! Achille ha ucciso Agamennone e ha preso il comando degli eserciti achei. Ettore è in ritirata, mentre la vittoria dei troiani era un augusto ordine di Zeus.»
"Agamennone è morto? Achille ha il comando? Merda santa!" Non siamo più nell’Iliade, caro mio.
«E gli automi che ti ho portato, signore Zeus? Questi… moravec?» chiede Apollo, con voce che echeggia nell’enorme sala. Vedo altri dèi e dee riempire i mezzanini in alto. La piscina-televisore incassata nel pavimento mostra scene di follia e di sangue nelle linee di battaglia troiane e nel campo argivo. Ma mi concentro sull’enorme, poderoso Zeus dalla barba bianca, assiso sul trono d’oro. Ha polsi massicci, come una scultura di Rodin in marmo di Carrara. Sono tanto vicino da vedergli i peli brizzolati sul petto nudo.
«Calma, Apollo, nobile arciere» romba il dio di tutti gli dèi. «Ho ordinato che gli automi moravec siano eliminati. Ormai Era li avrà già distrutti.»
"Può andare peggio di così?" mi chiedo.
E proprio in quel momento, affiancata da Teti, madre di Achille, e dalla mia Musa, entra nella sala Afrodite.