«Pensa, Lui» sibilò la voce di Calibano dalle ombre dello spedale «insegnerebbe ai due esseri razionali ciò che significa "deve"! Fa come gli piace o per quale altro motivo Signore? E Lui pure.»
«Da dove diavolo viene questa voce?» scattò Harman. Lo spedale era quasi tutto buio, la poca luce proveniva solo dalle vasche accese che si svuotavano a una a una.
Daeman frugò dalla parete semipermeabile al tavolo da cannibali, in cerca della fonte di quei bisbigli. «Non lo so» rispose alla fine. «Da un cunicolo di ventilazione. Da un ingresso che non abbiamo trovato. Ma se si fa vedere, lo uccido.»
«Gli puoi sparare» fece notare l’ologramma di Prospero, fermo accanto al bancone vicino ai comandi delle vasche «ma non è detto che tu lo uccida. Un diavolo, un demonio in carne e ossa, quel Calibano: non c’è insegnamento che riesca a cambiarne la natura. Le cure che per pura umanità gli ho dedicato non son servite a nulla, tutte invano!»
Per due giorni e due notti, quarantasette ore e mezzo, centoquarantaquattro rivoluzioni dell’asteroide dalla luce della Terra alla luce delle stelle, Harman e Daeman avevano provveduto a faxare il contenuto delle vasche di guarigione, finché era rimasta solo qualche decina di persone, le ultime arrivate. Ora sapevano come richiamare ologrammi dell’acceleratore lineare che correva in modo davvero lineare dritto su di loro. Adesso vedevano l’enorme affare, che si avvicinava col wormhole in punta, chiaro e terrificante nei pannelli trasparenti dello spedale, con i propulsori accesi e code di fiamma azzurra. Prospero e i dati virtuali garantivano che mancavano quasi novanta minuti all’impatto, ma l’istinto e la vista dicevano diversamente, perciò tutt’e due smisero di lanciare occhiate in alto.
Calibano era vicino, chissà dove. Daeman tenne la maschera osmotica per sfruttare le lenti che accrescevano la luminosità, ma usò anche la torcia di Savi e scrutò sotto il tavolo da cannibali, con un luccichio di luce bianca su ossa bianche.
Avevano pensato che il viaggio dalla sala di controllo a cupola fosse la parte peggiore (la lunga nuotata tra i fuchi nella fioca luce, aspettando da un momento all’altro l’attaccò di Calibano) ma, anche se in due occasioni qualcosa di grigio si era mosso nelle ombre e Daeman aveva usato la pistola di Savi per sparare a ciò che si muoveva, una volta la creatura ombra era schizzata via nuotando e l’altra era ruzzolata fuori, morta, con un luccichio di dardi sulla carne grigia. Era un cadavere di post-umano nei fuchi. Ora, però, dopo quarantasette ore e mezzo senza dormire, mangiando solo carne di lucertola rancida, avevano toccato il fondo. Quest’ultima ora era il fondo. Alla fine si erano fermati all’entrata della grotta artificiale, con gli stivali e il calcio della pistola avevano frantumato la crosta di ghiaccio e avevano riempito la loro unica bottiglia di globuli di acqua disgustosa, torbida di impurità, ardentemente desiderata. Alla fine l’avevano fatto. Ma ora l’acqua era finita e nessuno dei due aveva voglia di lasciare lo spedale per andare a prenderne altra. Inoltre, avevano tolto dalla parte superiore delle vasche dei fogli di plastica e li avevano inchiodati sopra la membrana semipermeabile d’ingresso, in modo che il rumore dello strappo li avrebbe avvertiti, se e quando Calibano fosse entrato nello spedale da quella parte; perciò non sarebbero potuti passare facilmente da lì, anche se avessero voluto. Ora tutt’e due avevano la lingua gonfia e un tremendo mal di testa per la sete e la fatica e l’aria viziata e la paura.
Non avevano avuto difficoltà con la decina di servitori dello spedale. Avevano lasciato che diversi continuassero il loro compito — faxare i corpi riparati — e avevano disattivato quelli che erano d’intralcio. Daeman aveva sparato a uno di essi, ma il gesto si era rivelato un errore. I dardi avevano strappato al servitore schegge e vernice, gli avevano fracassato un braccio manipolatore e staccato un occhio, ma non lo avevano distrutto. Harman aveva risolto il problema: aveva trovato un pesante pezzo di tubo nel vivaio di vasche, l’aveva staccato (facendo uscire ossigeno liquido che si era vaporizzato nell’aria già fredda) e con quello aveva colpito il servitore finché non era rimasto immobile. I restanti servitori erano andati in pensione allo stesso modo.
Prospero era giunto mentre loro davano corrente alla sfera olografica sopra il pannello di comando e si era accertato che le regolazioni per vuotare le vasche fossero giuste. Per prima cosa avevano spento i nodi fax d’arrivo. Poi avevano rispedito subito al nodo terrestre di partenza i corpi intatti inviati solo per il compimento di una Ventina. Prospero aveva detto che non c’era modo d’affrettare l’opera dei vermi blu e del liquido arancione, perciò avevano lasciato che in quelle vasche il ciclo continuasse. Gli esseri umani prossimi al completamento delle riparazioni erano stati rimandati indietro in anticipo. Adesso le seicentosessantanove vasche dello spedale erano tutte vuote tranne trentotto: trentasei di gente che necessitava di riparazioni estese e due di persone al termine della Ventina, sulle quali erano iniziate le normali riparazioni prima che Harman e Daeman riuscissero a spegnere i computer del fax.
«Inoltre a Setebo piace lavorare» sibilò la voce di Calibano, che si manteneva invisibile.
«Sta’ zitto!» gridò Daeman. Si mosse fra le vasche, cercando di non galleggiare: la gravità era bassa, ma percettibile. Ombre danzarono da tutte le parti, ma nessuna era tanto solida da meritare un colpo di pistola.
«Finisce per fare qualcosa: ammucchiata quella pila di zolle, l’ha ricoperta di lastre di tenero gesso bianco squadrate» bisbigliò Calibano dal buio. «E con un dente di pesce vi ha inciso una falce di luna e piantato per dritto certe spine d’albero e coronato il tutto con un teschio di scimmia trovata morta nei boschi, troppo difficile da uccidere. Un lavoro del tutto inutile, fatto solo per non stare in ozio: e Lui pure.»
Harman rise.
«Che c’è?» chiese Daeman e tornò ai comandi virtuali dove la sfera olografica consentiva a Prospero di stare in piedi. Dappertutto sul pavimento c’erano parti e pezzi di servitori, un’imitazione del tavolo da cannibali più avanti nell’ombra.
«Dobbiamo sbrigarci a uscire di qui» disse Harman, strofinandosi gli occhi arrossati. «Comincio a capire il mostro.»
«Prospero» disse Daeman, spostando lo sguardo da ombra a ombra nella scura foresta di vasche lucenti. «Chi o che cosa è quel Setebo di cui Calibano continua a parlare?»
«Il dio della madre di Calibano» rispose il mago.
«E hai detto che anche la madre di Calibano è la fuori chissà dove» commentò Daeman. Con una mano impugnò la pistola e con l’altra si strofinò gli occhi. Lo spedale pareva annebbiato e solo in parte per il vapore alla deriva provocato dall’ossigeno liquido uscito dal tubo.
«Sì, Sicorace è ancora viva» disse Prospero. «Ma non in quest’isola. Non più in quest’isola.»
«E Setebo?» lo incitò Daeman.
«Il nemico della Quiete» disse Prospero. «Come entrambe le parti del suo gruppo di due, un amaro cuore che il momento aspetta e morde.»
Segnalatori acustici suonarono sopra il pannello. Harman mise in funzione i comandi virtuali. Tre altre persone risanate (quasi risanate, per lo meno) furono faxate via. Ne restavano trentacinque.
«Da dove proviene questo Setebo?» chiese Harman.
«È stato importato dal buio, con i voynix e con altre creature» rispose Prospero. «Un piccolo errore di calcolo.»
«Odisseo è una delle altre creature importate dal buio?» chiese Daeman.
Prospero rise. «Oh, no! Quel poveraccio fu mandato qui da una maledizione, da quel crocevia dove gran parte dei post-umani è fuggita. Odisseo è perduto nel tempo, costretto a vagare più a lungo da una malvagia, malvagia dama che conosco come Cerere, ma che Odisseo conobbe (in ogni senso) come Circe.»
«Non capisco» disse Harman. «Savi ammise d’avere scoperto Odisseo solo poco tempo fa, mentre dormiva in una delle crioculle.»
«Vero» disse Prospero. «Ma anche falso. Savi sapeva del viaggio di Odisseo e di dove lui cerca di andare. Si è servita di lui, proprio come lui si è servito di lei.»
«Ma è davvero lo stesso acheo del dramma del lino?» chiese Daeman.
«Sì e no» rispose Prospero, in quel suo modo che innervosiva. «Il dramma mostra un tempo e una storia che si suddividono. Questo Odisseo proviene da una delle diramazioni, sì. Non è l’Odisseo idi tutto il racconto, no.»
«Ancora non ci hai detto chi è Setebo» lo incalzò Harman. Si spazientiva subito. Altre sei persone furono faxate via, risanate. Ne restavano solo ventinove. Mancavano venti minuti all’ora stabilita per andare di corsa al sonie. L’acceleratore lineare era tanto vicino da essere visibile a occhio nudo dalla finestra. Il wormhole era una sfera di mutevole chiaroscuro.
«Setebo è un dio la cui caratteristica è puro potere arbitrario» disse Prospero. «Uccide a caso. Risparmia a capriccio. Assassina all’ingrosso, ma senza schema né piano. È un dio dell’undici settembre. Un dio di Auschwitz.»
«Cosa?» fece Daeman.
«Lascia perdere» rispose il mago.
«Dice» sibilò Calibano dal buio in fondo, dalle parti del tavolo da cannibali «può piacergli, forse, ciò che gli serve. Sì, Lui ama ciò che gli fa bene, ma perché? Non ottiene nessun bene altrimenti.»
«Dio lo maledica!» gridò Daeman. «Ora lo trovo, quel bastardo!» Prese la pistola e balzò verso il buio. Altri quattro corpi furono faxati via e le loro vasche si svuotarono con un risucchio. Ancora solo venticinque.
Là in fondo c’erano corpi per terra, corpi sul tavolo, parti di corpo sulla poltrona. Daeman tenne nella sinistra la torcia di Savi, la pistola nella destra, il cappuccio e le lenti notturne al loro posto, ma vedeva ancora buio tra le ombre. Attese di scorgere un movimento, con la coda dell’occhio.
«Daeman!» chiamò Harman.
«Un minuto» gridò Daeman in risposta, aspettando, facendo da esca. Voleva che Calibano balzasse fuori. Nella pistola aveva cinque cariche di dardi e sapeva per esperienza che sarebbero stati sparati in rapida sequenza, se avesse mantenuto la pressione sul grilletto. Avrebbe cacciato cinquemila dardi di cristallo in quel bastardo figlio di puttana se…
«Daeman!»
Al secondo grido di Harman, Daeman si girò. «Hai visto Calibano?» disse, rivolto alla zona di comando, illuminata.
«No» rispose Harman. «Peggio.»
Daeman udì il rombo delle valvole a pressione e poi i deboli segnali d’allarme. Nelle vasche qualcosa non andava.
Harman indicò varie spie rosse virtuali lampeggianti. «Le vasche si prosciugano prima che gli ultimi corpi siano risanati.»
«Calibano è riuscito a interrompere il flusso di liquido nutritivo dall’esterno dello spedale» disse Prospero. «Quei venticinque sono morti.»
«Maledizione!» ruggì Harman. Batté il pugno sulla parete.
Daeman si aggirò nella foresta di vasche, illuminando quelle che si prosciugavano. «Il livello del liquido scende rapidamente» gridò a Harman.
«Li faxeremo comunque.»
«Faxerai cadaveri con le viscere brulicanti di vermi blu» disse Daeman. «Dobbiamo uscire di qui.»
«È proprio ciò che Calibano vuole» gridò Harman. Ormai Daeman non vedeva più il pannello di comando, si era inoltrato parecchio fra le ultime file di vasche, in luoghi bui dove prima aveva paura di andare. Sentiva che in mano la pistola cominciava a pesargli. Continuò a spostare il raggio luminoso da vasca a vasca.
Prospero, con monotona voce da vecchio, recitava:
Mi pare, figlio mio,
che tu sia agitato come da paura:
non temere. Il nostro gioco è finito.
Gli attori, come dissi, erano spiriti,
e scomparvero nell’aria leggera.
Come l’opera effimera del mio
miraggio, dilegueranno le torri
che salgono su alle nubi, gli splendidi
palazzi, i templi solenni, la terra
immensa e quello che contiene; e come
la labile finzione, lentamente
ora svanita, non lasceranno orma.
Noi siamo di natura uguale ai sogni,
la breve vita è nel giro d’un sonno
conchiusa.
«Chiudi quella maledetta boccaccia» gridò Daeman. «Harman, mi senti?»
«Sì» rispose Harman, accasciato sul pannello di comando. «Dobbiamo andarcene, Daeman. Abbiamo perduto gli ultimi venticinque. Non possiamo più fare niente.»
«Harman, ascoltami!» In piedi accanto all’ultima fila di vasche, puntava con fermezza il raggio luminoso. «In questa vasca…»
«Daeman, dobbiamo andare! Ci sono sbalzi di corrente. Calibano sta tagliando i fili.»
Come per dimostrarlo, la sfera olografica si dissolse e Prospero svanì. Le luci delle vasche si spensero. Il bagliore del pannello di comando virtuale cominciò ad affievolirsi.
«Harman!» gridò Daeman. «In questa vasca c’è Hannah!»