45 PIANA DI ILIO — ILIO

Mi sento una merda a non tornare indietro subito a prendere il piccolo robot, ma qui ho un mucchio da fare.

Le sentinelle mi conducono da Achille che si veste da battaglia, circondato dai condottieri ereditati da Agamennone: Odisseo, Diomede, il vecchio Nestore, i due Aiaci… la solita gente, a parte i due Arridi. Sarà vero, come gridava lassù Apollo, che Achille ha ucciso Agamennone, togliendo così a Clitennestra la sanguinosa vendetta e a cento futuri tragediografi un ottimo soggetto? Nel giro d’una notte a Cassandra è stato risparmiato il suo tragico destino?

«Per Ade, chi sei?» ringhia l’uccisore di uomini, il piè veloce Achille, quando il sergente mi guida nel campo interno. Di nuovo mi rendo conto che vedono solo Thomas Hockenberry, dalle spalle cadenti, baffuto e sporco, senza cappa e spada e bardatura di levitazione, uno sciatto fante in opaca corazza di bronzo.

«Sono l’uomo che tua madre Teti ha promesso d’inviare per guidarti da Ettore e poi alla vittoria sugli dèi che hanno ucciso Patroclo» rispondo.

Alle mie parole, i vari eroi e condottieri arretrano di un passo. È chiaro che Achille li ha informati della morte di Patroclo, ma forse non ha parlato del suo piano di fare guerra all’Olimpo.

Achille mi spinge frettolosamente di lato, lontano dal cerchio di stanchi guerrieri in ascolto. «Come faccio a sapere che sei colui che mia madre, la dea Teti, ha menzionato?» chiede questo giovane semidio. Oggi pare più vecchio di ieri, come se nel giro di una notte nuove rughe siano state cesellate sul suo giovane viso.

«Te lo dimostrerò conducendoti dove dobbiamo andare» rispondo.

«L’Olimpo?»

«Non subito» preciso a bassa voce. «Come ha detto tua madre, prima devi fare pace e causa comune con Ettore.»

Achille fa una smorfia e sputa sulla sabbia. «Oggi non riesco a fare pace. Voglio la guerra, oggi. Guerra e sangue divino.»

«Per combattere gli dèi» replico «devi prima porre fine a questa inutile guerra contro gli eroi di Troia.»

Achille si gira e indica le lontane linee di battaglia. Vedo pennoni di Achille, al di là del fossato difensivo, muoversi in quelle che la notte prima erano linee troiane. «Li stiamo battendo» protesta Achille. «Perché fare pace con Ettore quando fra qualche ora avrò sulla punta della lancia le sue budella?»

Mi stringo nelle spalle. «Fa’ pure a modo tuo, figlio di Peleo. Sono stato mandato qui ad aiutarti a vendicare Patroclo e a reclamare il suo corpo per i riti funebri. Se non vuoi, me ne vado.» Gli giro la schiena e mi avvio.

Achille mi raggiunge in un amen, mi getta sulla sabbia ed estrae il pugnale, con tale rapidità che non sarei mai riuscito a colpirlo con lo storditore neanche se da quel gesto fosse dipesa la mia vita. Forse ne dipende davvero, perché Achille mi accosta alla gola la lama affilata come rasoio. «Osi insultare me?»

Parlo con cautela, in modo che la lama non mi tagli. «Non insulto nessuno, Achille. Sono stato mandato qui per aiutarti a vendicare Patroclo. Se vuoi vendicarlo, fa’ come dico.»

Achille mi fissa un momento, poi si alza, rimette nel fodero il pugnale, mi tende la mano e mi aiuta a rimettermi in piedi. Odisseo e gli altri condottieri guardano in silenzio da una decina di metri: è chiaro che muoiono dalla curiosità.

«Qual è il tuo nome?» mi chiede Achille.

«Hockenberry» rispondo, spazzolandomi la sabbia dal fondo schiena e massaggiandomi il collo dove la lama l’ha sfiorato. «Figlio di Duane» aggiungo, ricordando la consuetudine.

«Un nome insolito» borbotta l’uccisore di uomini. «Ma sono tempi insoliti. Benvenuto, Hockenberry figlio di Duane.» Tende la mano e mi stringe il braccio, con tanta forza da bloccarmi la circolazione del sangue. Cerco di restituirgli la stretta.

Achille si rivolge ai comandanti. «Mi vesto per la battaglia, figlio di Duane. Quando sarò pronto, ti accompagnerò negli abissi di Ade, se occorre.»

«Solo a Ilio, per cominciare» dico.

«Vieni a conoscere i miei compagni e i miei generali, ora che Agamennone è battuto.» Mi guida verso Odisseo e gli altri.

Devo chiederlo. «Agamennone è morto? E Menelao?»

Achille, torvo, scuote la testa. «No. Non ho ucciso gli Atridi, ma stamattina li ho battuti in singoiar tenzone, uno dopo l’altro. Sono pesti e sanguinanti, ma non feriti gravemente. Ora sono dal guaritore Asclepio; hanno giurato fedeltà in cambio della vita, ma di loro non mi fiderò mai.»

Poi mi presenta Odisseo e gli altri eroi che per più di nove anni ho tenuto d’occhio. Ciascuno di loro mi stringe il braccio nel rituale saluto e quando termino la fila dei condottieri principali, ho il polso e le dita intorpidite.

«Divino Achille» dice Odisseo «stamattina sei divenuto il nostro re e ti giuriamo fedeltà e ti abbiamo dato la nostra parola di seguirti fin sull’Olimpo, se occorre, per riprendere il cadavere del nostro compagno Patroclo, dopo il tradimento di Atena — per quanto ciò suoni incredibile — ma devo dirti che i tuoi uomini e i tuoi capitani sono affamati. Gli achei devono mangiare. Per tutta la mattinata hanno combattuto contro i troiani, dopo avere riposato pochissimo, e hanno respinto le forze di Ettore lontano dalle nostre nere navi, dal nostro muro e dal nostro fossato. Lascia che Taltibio prepari un cinghiale per i capitani, mentre tu e i tuoi uomini vi ritirate a mangiare e…»

Achille si gira di scatto verso il figlio di Laerte. «Mangiare? Sei pazzo, Odisseo? Oggi non ho voglia di cibo. Ciò che bramo davvero è massacro e sangue e grida e gemiti di moribondi e di dèi macellati.»

Odisseo china leggermente la testa. «Achille, figlio di Peleo, di gran lunga il più grande di tutti gli achei, sei più forte di me e più abile non di poco con la lancia, ma io sono più vecchio di te e forse ti supero in saggezza per i molti anni d’esperienza e per molte prove di giudizio. Che il tuo cuore sia influenzato da ciò che dico, o nuovo re. Non lasciare che i tuoi fedeli achei e argivi e danai attacchino Ilio a pancia vuota in questa lunga giornata e, affamati, addirittura gli dèi dell’Olimpo.»

Achille esita a rispondere.

Odisseo approfitta del silenzio di Achille per insistere nella sua tesi. «Vuoi che i tuoi eroi, Achille, disposti a morire per te fino all’ultimo uomo, ansiosi di vendicare Patroclo, incontrino la morte non per lo scontro con gli dèi immortali, ma per fame?»

Achille posa sulle spalle di Odisseo le forti mani e mi rendo conto, non per la prima volta, di quanto l’uccisore di uomini sia più alto del tarchiato stratega. «Odisseo, saggio consigliere» dice il Pelide «ordina all’araldo di Agamennone, Taltibio, di sgozzare il più grosso cinghiale e di porlo allo spiedo sul fuoco più ardente che i tuoi uomini possano accendere. Disponi poi di macellarne altri per saziare l’appetito delle file achee. Ordinerò ai miei fedeli mirmidoni di prendersi cura del banchetto. Ma oggi non fate l’iniziale offerta agli dèi. Niente primizie gettate nel fuoco in loro onore. Oggi daremo agli dèi solo la punta delle lance e delle spade. Che si accontentino degli avanzi, tanto per cambiare.»

Si guarda intorno e parla a voce alta, in modo che tutti i condottieri sentano. «Buon appetito, amici miei. Nestore! Manda i tuoi figli Antiloco e Trasimede, e Megete figlio di Fileo, Merione e Toante, Licomede figlio di Creonte e anche Melanippo, a portare notizia del banchetto al fronte stesso del combattimento, in modo che oggi nessun guerriero acheo resti senza carne e vino per questo pasto di mezzodì! Mi vestirò per la battaglia e andrò con Hockenberry, figlio di Duane, a prepararmi per l’imminente guerra contro gli dèi.»

Si gira, entra nella tenda dove era occupato a vestirsi quando sono giunto e ora mi fa segno di seguirlo.

Aspettare che Achille si vesta per la battaglia mi ricorda le volte in cui aspettavo che Susan, mia moglie, si vestisse quando, invitati a cena, eravamo in ritardo. Non si può fare niente per affrettare il procedimento, bisogna solo aspettare.

Continuo a controllare il cronometro, penso al piccolo robot che ho lasciato lassù, Mahnmut si chiama, e mi chiedo se gli dèi l’hanno già ucciso, persona o macchina che sia. Mi ha detto di tornare fra un’ora e di aspettarlo sulla riva del lago della caldera: mi restano ancora più di trenta minuti.

Ma come posso tornare sull’Olimpo senza l’Elmo di Ade che mi renda invisibile? Sono stato troppo impulsivo a darlo al piccolo robot e ora da un momento all’altro potrei pagare quell’impulsività, se gli dèi guardano giù e mi scorgono. Mi dico che Afrodite riuscirebbe a vedermi in ogni caso, se tornassi sull’Olimpo, Elmo di Ade o no, perciò devo solo telequantarmi lì rapidamente, prendere Mahnmut e filarmela. Quel che conta adesso è ciò che accade a Ilio.

Ciò che accade qui è che Achille si veste.

Noto che Achille digrigna i denti, mentre si prepara per la guerra… o, per meglio dire, mentre i suoi servi, schiavi e furieri lo aiutano a prepararsi per la guerra. Nessun cavaliere del Medioevo ha mai maneggiato armi e corazza con tanta cura e mille cerimonie come oggi Achille figlio di Peleo.

Per prima cosa si lega alle gambe gli eleganti schinieri… parastinchi che mi ricordano i giorni in cui giocavo da ricevitore nella Little League, il campionato giovanile, anche se questi non sono di plastica sagomata, ma in bronzo meravigliosamente lavorato, con fibbie d’argento alla caviglia.

Poi si aggancia la corazza intorno al largo petto e si appende a tracolla la spada. Anche la spada è di bronzo, lucidata più d’uno specchio, affilata come rasoio, e ha un’elsa con borchie d’argento. Potrei alzarla, se mi accosciassi e usassi tutt’e due le mani. Forse.

Poi prende il grande scudo rotondo, composto di due strati di bronzo e due di stagno (metallo raro, a quei tempi) separati da uno strato d’oro. Questo scudo è una splendida opera d’arte, così famosa che il suo disegno ha indotto Omero a dedicargli un intero libro dell’Iliade; lo scudo è stato anche oggetto di molti poemi indipendenti, compreso il mio preferito, di Robert Graves. E, a sorpresa, non mi delude quando lo vedo con i miei occhi. Basti dire che lo scudo è istoriato con cerchi concentrici di immagini che riassumono l’essenza di pensiero di gran parte di questo mondo greco antico, a cominciare dal fiume Oceano sul bordo esterno, passando per sorprendenti immagini della Città in pace e della Città in guerra, nella parte interna, fino a culminare in una magnifica riproduzione di terra, mare, sole, luna e stelle nel centro tondo, simile a un bersaglio. Lo scudo è così lucido che anche nella penombra della tenda brilla come un eliografo.

Achille infine calza il pesante elmo. Secondo la leggenda, il dio del fuoco Efesto in persona vi applicò la cresta di crine di cavallo (non solo i troiani portano elmi col cimiero in questa guerra, ma anche gli achei) ed è vero che gli alti pennacchi d’oro lungo il bordo si agitano come lingue di fiamma quando Achille cammina.

Completamente armato adesso, a parte la lancia, Achille prova l’equipaggiamento da guerra, come un giocatore della National Football League che controlli che l’imbottitura sulle spalle sia a posto. Poi ruota sui talloni per vedere se gli schinieri sono ben stretti e se la corazza è aderente, ma non tanto da impedirgli di girarsi, schivare, colpire di punta. Poi muove di corsa alcuni passi, accertandosi che ogni cosa, dai sandali all’elmo, stia a posto. Alla fine alza lo scudo, porta la mano sopra la spalla e sguaina la spada, il tutto in un unico movimento così fluido che pare non faccia altro fin dalla nascita.

Rimette nel fodero la spada e dice: «Sono pronto, Hockenberry».

I condottieri ci seguono, mentre riaccompagno Achille sulla spiaggia dove ho lasciato Orphu. Le sentinelle non si sono avvicinate all’enorme granchio, che è ancora sospeso in aria grazie alla mia bardatura di levitazione, fatto che non è sfuggito alla sempre più numerosa folla di soldati. Voglio fare un piccolo spettacolo di magia per impressionare Odisseo, Diomede e gli altri condottieri e intanto guadagnarmi un po’ più di rispetto. E poi so che questi altri achei non accecati dall’ira come Achille, sono ben poco entusiasti di combattere contro gli dèi immortali che, fin dall’età della ragione, hanno adorato e obbedito e ai quali hanno fatto sacrifici. In teoria, se rafforzo iti qualsiasi modo l’ascendente di Achille sul suo nuovo esercito, rendo un buon servizio a tutt’e due.

«Afferrami il braccio, figlio di Peleo» dico sottovoce. Quando Achille mi stringe il braccio, con la mano libera aziono il medaglione e tutt’e due scompariamo.


Elena ha detto d’incontrare lei e le altre donne a casa di Ettore, nel vestibolo della stanza del piccolo Scamandrio. Ci sono già stato, perciò non ho problema a visualizzare il luogo. Mi telequanto in una stanza vuota. Sono un po’ in anticipo: il cambio della guardia sulle mura di Ilio avverrà solo fra quattro o cinque minuti. La finestra del vestibolo permette a me e ad Achille di vedere che siamo nel cuore di Ilio. Il rumore di traffico nelle vie (carri tirati da buoi, cavalli con rumorosi finimenti, grida da mercato, lo scalpiccio di centinaia e centinaia di pedoni sull’acciottolato) entra dalla finestra aperta, come un sottofondo rassicurante.

Achille non pare impressionato dal teletrasporto quantico. Mi rendo conto che la sua vita è sempre stata piena di eventi magici. È stato allevato e istruito da un centauro, per l’amor del cielo! Ora, sapendo di essere proprio nel ventre della bestia nemica, a Ilio, si limita a posare la mano sull’elsa della spada, senza estrarre l’arma, e mi guarda come per chiedere: "E ora?".

La risposta al suo "e ora?" è il pianto di un uomo in preda a terribile dolore nella stanza adiacente, quella del bambino. Riconosco la voce: è Ettore, anche se non l’ho mai sentito gemere e piangere in questo modo. Si odono anche pianti e lamenti di donne. Ettore grida di nuovo, come per un dolore insopportabile.

Non ho alcuna fretta di entrare nella stanza, ma Achille agisce per me, avanza a passi decisi, mano sempre sull’elsa della spada sguainata per metà. Lo seguo.

Le mie amiche troiane — Elena, Ecuba, Laodice, Teanò e Andromaca — sono tutte nella stanza, ma neanche si girano, quando entriamo. C’è pure Ettore, in armatura, impolverato e insanguinato; non alza nemmeno gli occhi, quando il suo arci-nemico si ferma e osserva ciò su cui è concentrata l’attenzione dei presenti inorriditi.

La culla intagliata a mano è rovesciata. Schizzi di sangue sporcano il legno, il pavimento di marmo, la zanzariera. Il corpo del piccolo Scamandrio, amorevolmente detto Astianatte, che non ha ancora compiuto un anno, giace sul pavimento… a pezzi. La testa non c’è. Braccia e gambe sono state spiccate dal busto. Una manina grassoccia è ancora attaccata, ma l’altra è stata mozzata all’altezza del polso. I panni del bambino, con lo stemma della famiglia reale di Ettore delicatamente ricamato sul petto, sono intrisi di sangue. Lì accanto c’è il cadavere della balia che ho già visto sui bastioni e poi, pacificamente addormentata, in questa stessa stanza solo la notte scorsa. Si direbbe che sia stata straziata da un gigantesco felino: ma tende ancora le braccia verso la culla rovesciata, come se sia morta nel tentativo di proteggere il bambino.

Servi gemono e gridano sullo sfondo. Andromaca parla, stordita, ma con una calma che mette quasi paura: «Sono state Atena e Afrodite, mio signore e marito».

Ettore alza gli occhi: sotto l’elmo, il viso sconvolto e inorridito è un’orribile maschera che perde un filo di saliva dalla bocca aperta. Ha gli occhi sbarrati, cerchiati di rosso. «Atena e Afrodite?» ripete. «Com’è possibile?»

«Sono venuta alla porta, dalla mia camera, appena un’ora fa, quando ho sentito le due dee parlare qui dentro» dice Andromaca. «La stessa Pallade Atena mi ha riferito che il sacrificio del nostro amato Scamandrio è volontà di Zeus. "Un vitellino di un anno come vittima sacrificale" è la frase che ha usato la dea. Ho provato a discutere, ho pianto, ho supplicato, ma la dea Afrodite mi ha imposto il silenzio, dicendo che non si andrà contro la volontà di Zeus. Gli dèi, ha detto, sono dispiaciuti per come va la guerra e per il tuo fallimento nel bruciare le navi achee la notte scorsa. Considerano questo sacrificio come un avviso.» Indica il pavimento e il bambino macellato. «Ho mandato i servi più veloci a richiamarti dal campo di battaglia e ho chiesto a queste mie amiche di aiutarmi a sopportare il mio dolore in attesa del tuo arrivo, o marito. Fino a quel momento non siamo più entrate in questa stanza.»

Ettore, stravolto, si gira verso di noi, ma non sofferma lo sguardo sul silenzioso Achille. In quel momento non avrebbe nemmeno visto un cobra ai suoi piedi. È accecato dallo shock. Vede solo il cadavere di Scamandrio, privo di testa, insanguinato, la manina chiusa a pugno. Poi dice, in tono soffocato: «Andromaca, moglie adorata, come mai non giaci morta accanto alla balia, caduta come lei nel tentativo di salvare nostro figlio dall’ira degli immortali?».

Andromaca china il viso e piange in silenzio. «Atena mi ha bloccato sulla soglia, dietro un invisibile muro di forza, mentre il loro divino potere compiva quest’impresa» dice infine. Le lacrime le cadono sul corpetto della veste. Mi accorgo ora che ha la veste sporca di sangue: di sicuro si è inginocchiata e ha stretto al petto i resti del figlioletto macellato. Anche se non c’entra niente, ho l’impressione di guardare alla TV Jackie Kennedy in quel lontano giorno di novembre, quando ero ragazzo.

Ettore non si muove per abbracciare o consolare la moglie. I gemiti dei servi crescono di tono, ma l’eroe troiano rimane in silenzio per un minuto, poi alza il braccio muscoloso segnato di cicatrici, stringe il pugno e ringhia al soffitto: «Allora io vi sfido, dèi! D’ora in poi, Atena, Afrodite, Zeus, voi tutti, dèi, che fino a oggi ho servito e onorato anche a costo della vita, sarete miei nemici». Scuote il pugno.

«Ettore» dice Achille.

Tutti girano la testa. I servi gemono, atterriti. Elena si porta le mani alla bocca, in una perfetta simulazione di sorpresa. Ecuba lancia un grido.

Ettore sguaina la spada e ringhia, con espressione che pare quasi di sollievo. "Ecco uno su cui sfogarmi. Ecco uno da uccidere." Gli leggo in viso i pensieri.

Achille alza le mani, palme in fuori. «Ettore, fratello di dolore, sono venuto qui oggi per condividere la tua sofferenza e offrirti il mio braccio destro in battaglia.»

Ettore si era teso per assalire l’uccisore di uomini, ma ora si blocca, il viso una maschera di confusione.

«Stanotte» dice Achille, a mani sempre alzate per mostrare che non impugna armi «Pallade Atena è venuta nella mia tenda, nel campo dei mirmidoni, e ha ucciso il mio amico più caro, Patroclo… morto per mano sua, il cadavere portato sull’Olimpo per servire da pasto agli avvoltoi.»

Impugnando sempre la spada, Ettore chiede: «L’hai vista con i tuoi occhi?».

«Le ho parlato e ho visto tutto» risponde Achille. «Era la dea. Ha ucciso Patroclo allora così come ha ucciso tuo figlio oggi… e per le stesse ragioni. L’ha detto lei.»

Ettore abbassa lo sguardo sulla spada stretta in pugno, come se arma e braccio l’avessero tradito.

Achille viene avanti. Le donne si scostano per lasciarlo passare. L’acheo uccisore di uomini tende la destra, quasi a sfiorare la punta della spada.

«Nobile Ettore, nemico, fratello nel sangue» dice piano Achille «vuoi unirti a me in questa nuova guerra che dobbiamo combattere per vendicare la nostra perdita?»

Ettore lascia cadere la spada; il bronzo risuona sul pavimento di marmo e l’elsa finisce in una pozza del sangue di Scamandrio. Il troiano non trova parole. Avanza come per assalire, poi stringe con forza il braccio di Achille (fosse stato il mio, l’avrebbe strappato dalla spalla) e continua a stringerlo come se vi si aggrappasse per non cadere.

Durante questa scena, lo ammetto, continuo a lanciare occhiate ad Andromaca che piange ancora in silenzio, mentre le altre facce mostrano stupore e meraviglia. "Sei stata tu?" penso, come se parlassi alla moglie di Ettore. "Hai fatto questo al tuo stesso figlio per ottenere che la guerra vada a modo tuo?"

Nel pensarlo, mi scosto da Andromaca, con un senso di repulsione, ma capisco che era l’unico modo. L’unico modo. Guardo i resti macellati di Astianatte, "Signore della città", il povero Scamandrio assassinato, e arretro di un altro passo. Dovessi vivere mille anni, diecimila, non capirò mai questa gente.

In quell’istante la vera dea Atena, accompagnata dalla mia Musa e dal dio Apollo, si telequanta nel vestibolo della stanza del bambino.

«Che cosa succede qui?» domanda Pallade Atena, alta due metri e mezzo e arrogante nell’atteggiamento, nel tono e nello sguardo.

La Musa indica me. «Eccolo!» grida.

Apollo tende l’arco d’argento.

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