5 Una danza diversa

Il Cervo d’oro rendeva onore al proprio nome in più di un modo. I tavoli lucidati e le panche con le rose intagliate lungo le zampe erano sparsi nella vasta sala comune. Un’inserviente con il grembiule candido non faceva altro che spazzare il pavimento di pietra bianca. Su una parete intonacata si estendevano in un’ampia fascia una serie di spirali blu e oro, proprio sotto al soffitto di travi. I camini erano rivestiti di pietra, i fornelli decorati con dei rami di sempreverdi e i cervi cesellati che spuntavano sopra ogni architrave avevano una coppa di vino in bilico fra le corna. Su una mensola era appoggiato un alto orologio dorato. Un gruppo di musicisti si esibiva su un piccolo palco nel retro, due uomini sudati con addosso solo la camicia suonavano i flauti, altri due strimpellavano il tarabuso a nove corde e una donna paonazza in un abito a righe blu usava un martelletto di legno su un dulcimero appoggiato su zampe sottili. Numerose cameriere correvano dentro e fuori, con passi veloci sotto i grembiuli e i vestiti azzurri. Per la maggior parte erano carine, anche se qualcuna aveva la stessa età di comare Daelvin, la minuta locandiera grassoccia che aveva i capelli grigi raccolti dietro la nuca. Proprio il tipo di posto che piaceva a Mat; si respirava odore di comodità e denaro. Lo aveva scelto perché era al centro della città, e ai suoi uomini non era dispiaciuto.

Non tutto era come ci si sarebbe aspettati, dalla seconda migliore locanda di Maerone. L’odore proveniente dalla cucina, di nuovo montone e rape e l’inevitabile zuppa d’orzo piccante, si univa a quello di cavalli e polvere proveniente da fuori. Be’, il cibo era un problema in una città piena di profughi e soldati, senza contare gli accampamenti circostanti. Le voci di uomini che cantavano rauchi le loro marce andavano e venivano dalla strada, come anche il rumore di zoccoli e imprecazioni contro il caldo. Anche la sala comune era calda, senza un alito d’aria; se avessero spalancato le finestre la polvere avrebbe ricoperto tutto ma quanto al caldo non avrebbe fatto molta differenza. Maerone era una graticola.

L’intero maledetto mondo stava inaridendosi fino a dove Mat riusciva a vedere, e lui non voleva pensare ai motivi. Avrebbe tanto voluto dimenticare il caldo, dimenticare perché si trovava a Maerone, dimenticare tutto. La giubba verde ricamata in oro sul colletto e i polsini era sbottonata, la fine camicia di lino era slacciata, e lui sudava comunque come un cavallo. Sarebbe stato d’aiuto togliersi la sciarpa di seta nera che portava avvolta attorno al collo, ma non lo faceva spesso quando sapeva di poter essere visto. Bevve l’ultimo goccio di vino e appoggiò il boccale di peltro sul tavolo, quindi prese il cappello a falde larghe per sventolarsi. Qualsiasi cosa bevesse, non appena entrava in corpo evaporava sotto forma di sudore.

Quando aveva scelto di stare al Cervo d’oro i lord e gli ufficiali della Banda della Mano Rossa lo avevano seguito, il che significava che tutti gli altri avventori si tenevano alla larga. Di solito tale situazione non dispiaceva a comare Daelvin. Avrebbe potuto affittare ogni letto almeno cinque volte fra tutti i signori e signorini della Banda e quella gente pagava bene, causava meno risse e di solito le pilotava all’esterno prima che si verificasse uno spargimento di sangue. Quel giorno però solo nove o dieci uomini occupavano i tavoli e la donna guardava occasionalmente le panche vuote, si toccava i capelli e sospirava; non avrebbe venduto molto vino, prima di sera. Una gran parte dei suoi profitti proveniva dal vino. I musicisti però ce la mettevano tutta. Un gruppo di signori soddisfatti della musica — chiunque avesse addosso dell’oro meritava di essere chiamato signore — poteva essere più generoso che una stanza piena di soldati ordinari.

Sfortunatamente per i borsellini dei musicisti, Mat era il solo uomo che li ascoltasse, e faceva una smorfia ogni tre note. Non era colpa loro; la musica era bella, se non si sapeva cosa si stesse ascoltando. Mat lo sapeva — gliela aveva insegnata dando loro il tempo e canticchiando — ma nessun altro aveva sentito quel motivo almeno negli ultimi duemila anni. La cosa migliore che poteva dire era che avevano preso bene il ritmo.

La sua attenzione fu presa da uno stralcio di conversazione. Mettendo giù il cappello, fece un cenno con il calice per chiedere altro vino e si sporse per rivolgersi ai tre uomini che bevevano al tavolo vicino. «Che cos’era quello?»

«Stiamo cercando di escogitare un sistema per vincerti parte dei soldi che ci hai sfilato» rispose serio Talmanes, davanti al calice di vino. Non era arrabbiato. Con solo qualche anno più dei venti di Mat e un po’ più basso, Talmanes sorrideva raramente. A Mat quell’uomo ricordava sempre una molla compressa. «Nessuno riesce a batterti a carte.» Il comandante di metà della cavalleria della Banda lì a Cairhien era un lord, ma aveva la fronte rasata e incipriata, anche se il sudore aveva rimosso il trucco. Molti giovani signori di Cairhien avevano adottato lo stile dei soldati. La giubba di Talmanes era semplice, senza le strisce di colore dei nobili, anche se aveva diritto a portarne ben più d’una.

«Non è così» protestò Mat. Era vero che quando la sua fortuna girava tutto era perfetto, ma andava a cicli, in particolar modo con le cose ordinate come un mazzo di carte. «Sangue e ceneri! Hai vinto cinquanta corone da me la scorsa settimana.» Cinquanta corone; circa un anno prima sarebbe stato felice per la vincita di una corona e avrebbe pianto al pensiero di perderla.

«Quante centinaia ancora dovrei recuperarne?» chiese asciutto Talmanes. «Voglio avere la possibilità di rifarmi.» Se mai avesse incominciato a vincere in modo sistematico contro Mat, avrebbe iniziato a preoccuparsi. Come la maggior parte della Banda, riteneva la fortuna di Mat un talismano.

«I dadi non vanno bene, maledizione» protestò Daerid. Era il comandante della fanteria della Banda e bevve assetato ignorando una smorfia nascosta solo in parte dietro la barba untuosa di Nalesean. La maggior parte dei nobili che Mat aveva conosciuto ritenevano il gioco dei dadi adatto solo ai contadini. «Non ti ho mai visto perdere giocando a dadi. Dev’essere qualcosa che non puoi controllare, dove non puoi mettere mano, se mi capisci.»

Solo di poco più alto dell’altro Cairhienese, Talmanes, Daerid aveva almeno quindici anni di più, si era rotto il naso diverse volte e tre cicatrici bianche gli attraversavano il viso. Il solo dei tre a non essere di nobili natali, aveva la fronte rasata e incipriata, ma era stato un soldato per tutta la vita.

«Abbiamo pensato ai cavalli» intervenne Nalesean, gesticolando con il boccale di peltro. Un uomo imponente più alto di entrambi i Cairhienesi, era a capo dell’altra metà della cavalleria della Banda. Con quel caldo, Mat si chiedeva spesso perché non si radesse la barba rigogliosa, che invece l’uomo curava ogni mattina per mantenerne la forma appuntita. Mentre Talmanes e Daerid indossavano delle semplici giubbe grigie sbottonate, Nalesean portava la sua — seta verde con l’imbottitura tipica tarenese, le maniche a strisce e i polsini di raso dorato — abbottonata fino al collo. Aveva il viso madido di sudore ma faceva finta di non notarlo. «Che la mia anima sia folgorata, la tua fortuna resiste bene con le carte e le battaglie. E i dadi» aggiunse, con un’altra smorfia rivolta a Daerid. «Ma con le corse dei cavalli tutto dipende dalle bestie.»

Mat sorrise e appoggiò i gomiti sul tavolo. «Trovati un buon cavallo e vedremo.» Forse la fortuna di Mat non avrebbe potuto influenzare la corsa — al di fuori di carte, dadi e simili, non era mai certo di cosa potesse toccargli in sorte e quando — ma era cresciuto guardando suo padre commerciare cavalli e aveva un buon occhio per quegli ammali.

«Lo vuoi questo vino o no? Non posso versarlo se non riesco a raggiungere il boccale.»

Mat si guardò alle spalle. La cameriera dietro di lui, che portava una brocca di peltro lucidata, era bassa e snella, occhi scuri, guance pallide e bei riccioli neri che le scendevano sulle spalle. Il preciso accento musicale tipico di Cairhien le rendeva la voce simile a uno scampanellio. Mat aveva posato gli occhi su Betse Silvin fin dal primo giorno che era entrato al Cervo d’oro, ma quella era la prima possibilità che aveva di parlarle; c’erano sempre cinque cose che doveva fare subito e dieci che avrebbe dovuto fare già il giorno precedente. Gli altri uomini si erano già concentrati sui loro boccali di vino, lasciandolo il più possibile solo con la donna senza però uscire dal locale. Avevano delle belle maniere, anche i nobili.

Sorridendo, Mat scavalcò la panca e protese la coppa per farla riempire. «Grazie, Betse» disse, e la donna rispose facendo la riverenza. Quando le chiese di versare una coppa anche per sé e unirsi a lui, la donna appoggiò la brocca sul tavolo, incrociò le braccia e inclinò la testa da un lato, guardandolo dall’alto in basso.

«Non credo proprio che a comare Daelvin piacerebbe. No, non credo proprio. Sei un signore? Sembra che tutti scattino ai tuoi ordini, ma nessuno ti chiama ‘mio signore’. Non ti fanno nemmeno l’inchino, solo la gente comune.»

Mat sollevò le sopracciglia. «No,» rispose, più severo di quanto volesse «non sono un signore.» Rand forse lasciava che la gente lo chiamasse lord Drago, ma quel tipo di atteggiamento non andava bene a Matrim Cauthon. No davvero. Inspirando profondamente, riprese a sorridere. Alcune donne cercavano di sbilanciare un uomo, ma in quel tipo di ballo lui era bravo. «Chiamami solo Mat, Betse. Sono certo che comare Daelvin non si arrabbierà se siedi con me.»

«Oh sì che lo farà. Ma suppongo di poter parlare un po’; devi essere quasi un signore. Perché indossi quella cosa, con questo caldo?» Chinandosi in avanti la ragazza spinse in basso la sciarpa nera con un dito. Mat non vi aveva prestato attenzione e lasciò che scivolasse un po’. «Che cos’è questa?» chiese lei facendo scorrere un dito lungo il bordo chiaro che circondava il collo di Mat. «Qualcuno ha cercato di impiccarti? Perché? Sei troppo giovane per essere un fuorilegge.» Mat sollevò veloce il capo e sistemò in fretta la sciarpa di seta nera per nascondere la cicatrice, ma Betse non si arrese. Affondò la mano nella camicia sbottonata ed estrasse il medaglione d’argento con la testa di volpe che Mat portava appeso a un laccio di cuoio. «Forse perché hai rubato questo? Sembra di valore. Lo è?» Mat le strappò il medaglione di mano e lo rimise a posto. La donna non faceva nemmeno una pausa per prendere fiato e non gli consentiva di inserirsi nella conversazione. Sentì che Nalesean e Daerid ridacchiavano alle sue spalle e divenne torvo. A volte la sua fortuna a carte si capovolgeva con le donne e queste lo trovavano sempre buffo. «No, non avrebbero lasciato che tu lo tenessi se lo avessi rubato, giusto?» Betse proseguì. «E se sei quasi un signore, immagino che tu possa avere cose simili. Forse era perché sapevi troppo. Sembri davvero un giovane che sa un bel po’ di cose. O che crede di saperle.» Gli rivolse uno di quei sorrisetti scaltri che le donne usavano quando volevano confondere un uomo. Non sempre significava che sapessero qualcosa, ma potevano farti pensare il contrario. «Hanno cercato di impiccarti perché credi di sapere troppo? O forse perché facevi finta di essere un signore? Sei sicuro di non esserlo?»

Adesso Daerid e Nalesean ridevano apertamente e perfino Talmanes ridacchiava, anche se tentavano di far finta di farlo per qualche altro motivo. Daerid aveva inventato la storia di un tale che cadeva da cavallo ogni volta che respirava a fondo, ma non c’era nulla di divertente nei brani che Mat sentiva, eppure mantenne comunque il sorriso.

Non si sarebbe fatto prendere in castagna anche se la ragazza parlava più rapidamente di quanto lui corresse. Era molto carina e lui aveva trascorso le ultime settimane conversando con tizi come Daerid e peggio, uomini sudati che a volte si dimenticavano di radersi e spesso non avevano l’opportunità di fare un bagno. Le guance di Betse erano imperlate di sudore, ma da lei emanava un profumo di sapone alla lavanda. «Per la verità ho ricevuto quel graffio perché non sapevo abbastanza» rispose Mat spensierato. Alle donne piaceva sempre quando si sminuivano le ferite. Solo la Luce sapeva se lui ne aveva abbastanza. «Adesso so troppo, ma allora era troppo poco. Puoi comunque dire che fui impiccato per conoscenza.»

Scuotendo il capo, Betse si umettò le labbra. «Questo dovrebbe essere spiritoso secondo te, Mat? I giovani signori fanno sempre strane battute, ma tu hai detto di non esserlo. E poi io sono una donna semplice; lo spirito non lo capisco. Credo che le parole semplici siano la cosa migliore. Visto che non sei un signore, dovresti parlare in maniera semplice, altrimenti qualcuno potrebbe pensare che stai giocando a fare il signore. A nessuna donna piace un uomo che fa finta di essere quello che non è. Forse potresti spiegarmi cosa stavi cercando di dire.»

Mantenere il sorriso adesso era diventato uno sforzo. Lo scambio di parole con la ragazza non stava andando affatto come lui voleva. Non riusciva a stabilire se la donna fosse un’idiota assoluta o se stesse solo cercando di coglierlo in castagna mentre tentava di risponderle. In ogni caso era sempre carina e profumava di lavanda, non di sudore. Nalesean e Daerid pareva stessero per soffocare dalle risate. Talmanes canticchiava Un rospo sul ghiaccio. Quindi adesso stava scivolando con le gambe all’aria, vero?

Mat posò il boccale di vino e si alzò, inchinandosi davanti a Betse. «Sono chi sono e niente di più, ma il tuo viso ispira tutte le mie parole.» Quel complimento le fece battere le ciglia; qualunque cosa sostenessero, alle donne piacevano sempre le parole galanti. «Vuoi ballare?»

Senza attendere la risposta la guidò verso il pavimento sgombero che percorreva in lunghezza tutta la sala comune fra i tavoli. Se fosse stato fortunato, ballare le avrebbe tenuto a freno la lingua per un breve periodo e, dopotutto, lui era fortunato. Inoltre non aveva mai visto una donna che non cedesse davanti al ballo. Danza con lei e ti perdonerà molti errori, balla bene e perdonerà tutto, pensò. Era un vecchio proverbio. Molto vecchio.

Betse si fece indietro, mordendosi il labbro e cercando comare Daelvin con lo sguardo, ma la locandiera grassoccia sorrise e le fece cenno di proseguire, quindi tentò di sistemare invano i ciuffi di capelli sfuggiti dall’acconciatura e si mise a sgridare le altre ragazze come se tutti i tavoli fossero occupati. Comare Daelvin avrebbe attaccato ogni uomo che secondo lei si comportasse scorrettamente — malgrado l’aspetto calmo aveva un corto manganello dietro la cintura della gonna e a volte lo usava; Nalesean ancora la guardava cauto quando si avvicinava — ma se un uomo che spendeva con facilità voleva ballare, che male c’era? Mat prese Betse per entrambe le mani, a braccia distese. Lo spazio fra i tavoli era sufficiente. I musicisti cominciarono a suonare più forte, anche se non meglio.

«Seguimi» le disse. «I primi movimenti sono semplici.» Mentre la musica iniziava, diedero il via a passi profondi e scivolate laterali verso destra, accompagnate dal piede sinistro. Passo profondo e scivolata laterale, a braccia distese.

Betse imparò rapidamente e aveva il passo leggero. Quando raggiunsero i musicisti Mat sollevò le braccia e fece una piroetta, ritrovandosi schiena contro schiena con la ragazza. Quindi di nuovo un passo profondo, una scivolata laterale e una piroetta per ritrovarsi faccia a faccia, tutta la sequenza ancora e ancora, fino a ritornare al punto da dove erano partiti. La ragazza imparò tutto rapidamente, sorridendogli deliziata quando le giravolte glielo consentivano. Era davvero carina.

«Adesso diventa un po’ più complicato» mormorò Mat, voltandosi per poter guardare i musicisti, mentre lui e la donna avevano i polsi intrecciati e le mani unite davanti a loro. Ginocchio destro alzato, un calcetto con il piede sinistro, quindi una scivolata a destra e una a sinistra. Betse rise mentre si avviavano ancora una volta verso i musicisti. I movimenti diventavano più intricati a ogni passaggio, ma la ragazza aveva bisogno di vederli una sola volta per imparare. Leggera come una piuma, volteggiava fra le sue braccia. Ma la cosa più bella era che non parlava affatto.

Mat fu preso dalla musica, nonostante le note mancanti, e dalla danza. I ricordi affluivano nella mente mentre ballavano avanti e indietro nel salone. In quelle memorie era più alto, con dei lunghi baffi biondi e gli occhi azzurri. Aveva addosso una giubba di seta a strisce color ambra, attorno al colletto di fine merletto di Barsine e bottoni di zaffiri gialli di Aramelle, e danzava con una bellissima emissaria degli Atha’an Miere, il Popolo del Mare. Alla sottile catena d’oro che univa l’anellino al naso, con uno dei tanti orecchini erano appese diverse medaglie che la identificavano come Maestra delle Onde del clan Shodin. Non gli importava di quanto fosse potente: quella era una preoccupazione del re, non da lord di media grandezza. Era bella e leggiadra fra le sue braccia, stavano danzando sotto la grande cupola di cristallo della corte di Shaemal, quando il mondo intero invidiava lo splendore e il potere di Coremanda. Ai margini della mente di Mat si affacciavano altri ricordi, parti di quella danza. La giornata seguente avrebbe portato la notizia dell’aumento delle incursioni Trolloc dalla Grande Macchia e il mese successivo quella che le guglie dorate di Barsine erano state saccheggiate e incendiate e le orde di Trolloc si stavano dirigendo a sud. Sarebbero iniziate quelle che più tardi vennero chiamate le Guerre Trolloc, anche se all’inizio nessuno aveva dato loro quel nome. Trecento anni di battaglie ininterrotte, sangue, fuoco e rovina prima di riuscire a cacciare i Trolloc e abbattere tutti i Signori del Terrore. A quel punto era iniziata la caduta di Coremanda, con tutto il suo benessere e il suo potere, di Essenia, con i suoi filosofi e grandi insegnanti, del Manetheren e Eharon, di tutte le dieci nazioni, ridotte in briciole anche in caso di vittoria, terre dove sarebbero sorti altri stati che avrebbero ricordato appena le dieci nazioni, forse solo come il mito di un tempo felice. Ma tutto ciò era ancora nel futuro e Mat scacciò quei ricordi per il piacere di quello attuale. Stasera danzava con...

Batté le palpebre, colpito per un istante dalla luce del sole che filtrava dalle finestre e alla vista di quel viso pallido che lo osservava, coperto da un velo di sudore. Inciampò quasi nell’intrico dei passi mentre lui e Betse si chinavano verso il pavimento, ma si riprese prima di caderle addosso, compiendo una serie di passi istintivi. Quella danza ora era sua come lo erano i ricordi, che fossero prestati o rubati, intessuti in maniera tale fra quelli che aveva vissuto davvero che se non ci pensava con attenzione non vedeva più la differenza; sembrava li avesse vissuti tutti.

Era vero quello che le aveva raccontato della cicatrice sul collo. Impiccato per conoscenza e per la mancanza di essa. Aveva attraversato due volte quel ter’angreal, come uno stupido capoccione, un idiota di campagna che l’aveva ritenuta una semplice passeggiata in un campo. Be’, quasi altrettanto semplice. I risultati avevano solo aumentato la sua mancanza di fiducia in tutto ciò che aveva a che fare con l’Unico Potere. La prima volta, fra le altre cose che non voleva sentire, gli era stato detto che era destinato a morire per poi vivere di nuovo. Qualcuna di quelle rivelazioni lo aveva spinto al secondo viaggio che aveva intrapreso attraverso il ter’angreal e a quello lo aveva portato ad avere una corda attorno al collo.

Una serie di passi, ciascuno fatto per un buon motivo o per necessità, ciascuno che era parso ragionevole al momento della decisione e aveva portato a conseguenze che non avrebbe mai nemmeno immaginato. Aveva sempre l’impressione di ritrovarsi ogni volta intrappolato in quel tipo di danza. Era sicuro di essere morto prima che Rand tagliasse la corda e lo riportasse in vita. Per la centesima volta si fece la stessa promessa. D’ora in poi avrebbe controllato dove metteva i piedi. Niente più salti dentro oggetti misteriosi senza pensare alle conseguenze.

Per dirla tutta, quel giorno aveva guadagnato più che la cicatrice. Il medaglione d’argento con la testa di volpe, il cui unico occhio era modellato in maniera da assomigliare all’antico simbolo Aes Sedai. A volte ne rideva al punto che le costole gli facevano male. Non si fidava di nessuna Aes Sedai, quindi con quell’oggetto ci faceva anche il bagno e ci dormiva. Il mondo era un posto divertente — divertente in modo strano.

Un altro guadagno era stata la conoscenza, anche quella che non voleva. Stralci delle vite di altri uomini che adesso erano compressi nella sua testa, migliaia, a volte solo poche ore, a volte anni, anche se frammentati, ricordi di corti e di combattimenti che si estendevano per millenni, da molto prima delle Guerre Trolloc fino alla battaglia finale e la salita al potere di Artur Hawkwing. Adesso pareva appartenessero tutti a lui.

Nalesean, Daerid e Talmanes battevano le mani a tempo di musica, come anche gli altri uomini sparsi nella stanza. Uomini della Banda della Mano Rossa che sostenevano il proprio comandante nella danza. Luce, quel nome faceva rabbrividire Mat. Era appartenuto a una leggendaria squadra di eroi morti nel tentativo di salvare il Manetheren. Non un solo uomo di quelli che marciavano o cavalcavano sotto la bandiera della Banda pensava che sarebbero finiti anche loro nelle leggende. Comare Daelvin batteva le mani insieme agli altri, e le altre cameriere si erano fermate a guardare.

I ricordi degli altri uomini erano il motivo per cui la Banda seguiva Mat, anche se non lo sapevano. Perché nella sua testa c’erano più ricordi di battaglie e campagne di quante avrebbero potuto affrontare cento persone. Che si fosse trovato dal lato dei vincitori o dei perdenti, ricordava come si erano svolte quelle battaglie e ci metteva poco a trasformarle in mosse vincenti per la Banda. Se non altro fino ad allora. Quando non riusciva a trovare il modo di evitare lo scontro.

Più di una volta aveva desiderato che quei ricordi frammentari fossero fuori dalla sua testa. Senza di essi non si sarebbe trovato dov’era, al comando di quasi seimila soldati e con altri ancora che volevano unirsi a loro ogni giorno, pronto a guidarli a sud e prendere il comando della maledetta invasione di una terra controllata da uno dei maledetti Reietti. Lui non era un eroe e non voleva esserlo. Gli eroi avevano la cattiva abitudine di finire ammazzati. Essere un eroe significava lanciare un osso al cane e lasciarlo in un angolo fuori dai piedi, a meno che al cane non venisse promesso un altro osso e fosse mandato di nuovo a caccia. Lo stesso valeva per i soldati.

D’altro canto senza quei ricordi non avrebbe avuto seimila soldati attorno a sé. Si sarebbe trovato da solo, un ta’veren legato al Drago Rinato, un bersaglio scoperto e noto ai Reietti. Alcuni di loro sapevano fin troppo su Mat Cauthon. Moiraine sosteneva che lui fosse importante, che forse Rand avrebbe avuto bisogno di lui e di Perrin per vincere l’Ultima Battaglia. Se la donna aveva ragione, lui avrebbe dovuto fare quanto doveva — lo avrebbe fatto; doveva solo abituarsi all’idea — ma non voleva diventare un maledetto eroe. Se fosse riuscito a capire cosa fare per quanto riguardava il maledetto Corno di Valere... Recitando una piccola preghiera per l’anima di Moiraine, sperò che si fosse sbagliata.

Lui e Betse raggiunsero la fine dello spazio libero per l’ultima volta e, quando si fermarono, la ragazza crollò contro il petto di Mat. «Oh, è stato bellissimo. Pensavo di trovarmi in un palazzo reale. Possiamo farlo ancora? Oh, possiamo? Possiamo?» Comare Daelvin applaudì per un istante, poi si accorse che le altre cameriere erano tutte in piedi intorno a loro e, con ampi gesti delle braccia, le fece scappare come galline.

«Figlia delle Nove Lune significa nulla per te?» Le parole erano semplicemente spuntate dalle sue labbra. Era colpa del pensiero di quei ter’angreal. Quando avesse trovato la Figlia delle Nove Lune — ti prego, Luce, fa che passi ancora molto! —, ovunque l’avesse trovata, non si sarebbe trattato di una cameriera di una locanda in una piccola città piena di soldati e profughi. Ma in fondo chi poteva dire quando si sarebbe avverata una profezia? In un certo modo si era trattato di quello. Morire e vivere di nuovo. Sposare la Figlia delle Nove Lune. Rinunciare a metà della Luce del mondo per salvare il mondo, qualunque cosa significasse. Dopotutto era morto appeso a una fune. Se quella profezia si era avverata, allora anche alle altre sarebbe spettato lo stesso destino. Non c’era via d’uscita.

«Figlia delle Nove Lune?» ripeté Betse senza fiato. L’affanno non la rallentò. «È una locanda? Una taverna? Non qui a Maerone. Questo lo so. Forse oltre il fiume Aringill. Non sono mai stata...»

Mat le appoggiò un dito sulle labbra. «Non importa. Balliamo ancora.» Stavolta fu un ballo di campagna; qualcosa di attuale, legata solo ai suoi ricordi personali. Adesso però doveva concentrarsi per distinguere i pensieri suoi dagli altri.

Il rumore di qualcuno che si schiariva la gola lo fece voltare, e sospirò alla vista di Edorion in piedi sulla soglia, con i guanti rivestiti d’acciaio infilati nel cinturone e l’elmetto sotto un braccio. Il giovane lord tarenese era stato grassoccio e aveva le guance rosse quando Mat lo aveva conosciuto giocando a carte con lui nella Pietra di Tear, ma da quando si era spostato a nord era diventato più massiccio e abbronzato. Sull’elmetto bordato non vi erano piume, scheggiature e ammaccature coprivano il pettorale dorato una volta immacolato. Le maniche a sbuffo della giubba erano blu a righe nere, ma erano consumate.

«Mi hai chiesto di ricordarti della ronda.»

Edorion tossì coprendosi il viso con la mano; evitò intenzionalmente di guardare Betse. «Se vuoi posso tornare più tardi.»

«Vengo adesso» gli disse Mat. Era importante fare il giro tutti i giorni, ispezionare qualcosa di diverso ogni volta; glielo avevano detto i ricordi degli altri uomini e, su cose come quelle, cominciava a fidarsi di loro. Se era incastrato in quel lavoro, tanto valeva che lo facesse bene. Fare le cose per bene avrebbe potuto tenerlo in vita. Inoltre Betse si era allontanata, stava tamponandosi il sudore dal viso con il grembiule e cercava di sistemarsi i capelli allo stesso tempo. L’euforia stava svanendo dal viso della ragazza. Non importava. Avrebbe ricordato. Balla bene con una donna, pensò compiaciuto, e sarà almeno un po’ tua.

«Dai questi ai musicisti» le disse, infilandole tre marchi d’oro in mano. Per quanto avessero suonato male, per un breve periodo quel motivo lo aveva portato fuori da Maerone e lontano dall’immediato futuro. E poi alle donne piacevano gli uomini generosi. Stava procedendo tutto per il meglio. Con un inchino, senza però baciarle la mano, aggiunse: «Alla prossima, Betse. Danzeremo ancora quando farò ritorno.»

Con sorpresa di Mat la ragazza gli agitò un dito ammonitore sotto al naso, scuotendo il capo come se gli avesse letto nei pensieri. Be’, non aveva mai affermato di capire le donne.

Dopo essersi messo il cappello in testa raccolse la lancia dal manico nero che era appoggiata vicino alla porta. Era un altro regalo che aveva ottenuto dall’altro lato del ter’angreal, con l’iscrizione sull’asta nella lingua antica e la strana lama, come una corta spada marchiata con due corvi.

«Oggi andremo nelle sale dove sì beve» annunciò a Edorion, incamminandosi nella calura del giorno e nella confusione di Maerone.

Era una piccola città senza mura di cinta, anche se cinquanta volte più grande di ogni altro centro che avesse mai visto da quando aveva lasciato i Fiumi Gemelli. Un villaggio cresciuto a dismisura: pochi degli edifici in mattoni erano più alti di un piano e solo le locande arrivavano a tre, con tetti in assi di legno e paglia in pari numero rispetto a quelli di ardesia o tegole. Le strade, la maggior parte in terra battuta, erano piene di gente. Gli abitanti della città erano di tutti i tipi, prevalentemente Cairhienesi e Andorani. Anche se sorgeva sulla sponda Cairhienese del fiume Erinin, Maerone adesso non si trovava in alcuna nazione ma a metà fra le due, con abitanti che provenivano da una mezza dozzina di terre, di passaggio o residenti. C’erano anche state tre o quattro Aes Sedai da quando Mat era arrivato. Pur avendo il medaglione si teneva alla larga da loro — non c’era bisogno di andare a caccia di problemi — ma tutti lasciavano rapidamente quel posto. Nelle faccende importanti era sempre fortunato. Se non altro sino ad allora.

I cittadini erano tutti affaccendati, la maggior parte ignorava gli uomini vestiti di stracci o le donne e i bambini che erravano senza meta. Tutti Cairhienesi, di solito arrivavano al fiume prima di fare ritorno al campo profughi attorno alla città. Pochi però se ne andavano davvero. Forse la guerra civile era finita a Cairhien, ma c’erano ancora i briganti e temevano gli Aiel. Per quanto ne sapeva Mat, temevano anche di incontrare il Drago Rinato. La verità era che si erano spinti il più lontano possibile; nessuno aveva l’energia residua per fare altro che recarsi al fiume e guardare Andor.

I soldati della Banda erano mescolati alla folla, da soli o in gruppi di tre, e visitavano i negozi e le taverne; c’erano anche le truppe in formazione, balestrieri e arcieri con i giustacuore coperti di dischi di metallo, i picchieri con i pettorali ammaccati, scarti di qualcuno che se ne era procurati di migliori o li aveva recuperati dai cadaveri. Ovunque si vedevano cavalieri con i pettorali di metallo, lancieri tarenesi con gli elmetti bordati, i Cairhienesi con gli elmi a forma di campana e anche qualche andorano con gli elmetti conici e la visiera a sbarre. Rahvin aveva cacciato molti uomini dalla guardia della regina, uomini leali a Morgase, e alcuni si erano uniti alla Banda.

I venditori ambulanti attraversavano la massa umana con i loro vassoi, pieni di aghi e fili, unguenti che secondo loro erano eccellenti per ogni tipo di ferita e rimedi per tutte le malattie, dalle vesciche alla diarrea o la febbre da campo, sapone, tazze e coppe che non si sarebbero arrugginite, calzini di lana, coltelli, pugnali del miglior acciaio di Andor — parola del commerciante — ogni tipo di cosa di cui avrebbe potuto avere bisogno un soldato, o almeno i venditori così sostenevano e speravano. Il fracasso era tale che le grida degli ambulanti non si sentivano a tre passi di distanza.

I soldati riconobbero subito Mat e molti lo acclamarono, anche gli uomini troppo lontani che vedevano solo il cappello e la lancia. Questi due elementi lo rendevano riconoscibile come il sigillo di un nobile. Aveva sentito ogni sorta di voce sul perché sdegnasse l’armatura e l’elmetto; spiegazioni di tutti i tipi, dal coraggio folle fino all’idea che solo le armi forgiate dal Tenebroso in persona potessero ucciderlo. Alcuni raccontavano che quel cappello gli era stato donato dalle Aes Sedai e fino a quando lo avesse indossato nulla lo avrebbe ucciso. In realtà era un comunissimo cappello e lo portava perché gli faceva ombra. E perché era un buon promemoria per tenersi alla larga da qualsiasi luogo dove avrebbe potuto avere bisogno di un elmetto o un’armatura. I racconti sulla lancia, con quell’iscrizione che pochi anche fra i nobili sapevano leggere, erano ancora più stravaganti. Nessuno però si avvicinava alla verità. La lancia con i marchi dei corvi era un prodotto Aes Sedai, creata durante la Guerra dell’Ombra prima della Frattura; non doveva mai essere affilata, e Mat dubitava che potesse spezzarsi.

Rispondendo con un cenno alle grida di: «La Luce illumini lord Matrim!» o «Lord Matrim e la vittoria!» e insensatezze simili, si fece largo tra la folla in compagnia di Edorion. Se non altro non aveva bisogno di spingere; tutti si allontanavano non appena lo vedevano. Avrebbe tanto voluto che i profughi non lo guardassero come se lui avesse nascoste in tasca le chiavi delle loro speranze. A parte assicurarsi che ricevessero cibo dai carri provenienti da Tear, non sapeva cos’altro fare. Molti erano sporchi oltre che malconci.

«Hanno finito il sapone?» si lamentò.

Edorion lo sentì, malgrado il rumore. «Sì. La maggior parte lo baratta con gli ambulanti in cambio di vino a buon mercato. Non vogliono il sapone, vogliono attraversare il fiume o altrimenti annegare nelle loro miserie.»

Mat gemette, amareggiato. Il passaggio per Aringill era una delle cose che non poteva dare loro.

Fino a quando la guerra civile e cose peggiori avevano divelto Cairhien, Maerone era stata un punto di passaggio fra Cairhien e Tear per i commercianti, e per questo aveva quasi tante taverne e locande quanto case. Le prime cinque che aveva visitato erano simili: da La volpe e l’oca a La frusta del carrettiere, si trattava di edifici in pietra pieni di tavoli e delle risse occasionali che Mat ignorava. Nessuno era davvero ubriaco. Il cancello del fiume, dall’altro lato della città, era stata la migliore locanda di Maerone, ma le pesanti tavole inchiodate davanti alle porte con i soli intagliati servivano da monito per locandieri e baristi a non far ubriacare i soldati. Purtroppo anche i soldati sobri litigavano, Tarenesi contro Cairhienesi contro Andorani, fanteria contro cavalleria, gli uomini di un signore contro quelli di un altro, veterani contro reclute, militari contro civili. Le dispute venivano sedate prima che sfuggissero di mano, da soldati armati di manganelli con delle fasce rosse sulle braccia che andavano dal polso al gomito. Ogni unità doveva fare dei turni per fornire delle Braccia Rosse, uomini diversi di giorno in giorno, e le Braccia Rosse dovevano pagare per ogni danno causato quando erano in servizio. Questo li rendeva molto scrupolosi nel mantenere la pace.

A La volpe e l’oca un menestrello stava facendo giochi di prestigio con delle torce accese, un uomo tarchiato e di mezza età, mentre un altro, un tizio calvo e magro alla Locanda dell’Erinin, aveva l’arpa in mano e stava recitando parte de La Grande caccia al Corno. Malgrado il caldo, entrambi indossavano un mantello particolare, tutto coperto di pezze colorate che svolazzavano quando si muovevano. Avevano un pubblico discretamente attento — molti degli spettatori provenivano da villaggi che accoglievano volentieri i menestrelli —, più della ragazza che cantava a un tavolo di una taverna chiamata Le tre torri. Era abbastanza carina, con dei lunghi ricci neri, ma una canzone sul vero amore non avrebbe attratto l’interesse degli uomini rozzi che bevevano in quel locale. Le ultime taverne non avevano nessuna forma di intrattenimento se non un musicista o due, ma la folla era anche più rumorosa e alla metà dei tavoli giocavano a dadi, cosa che fece prudere le mani a Mat. Vinceva quasi sempre, almeno a dadi, e non sarebbe stato carino spillare denaro ai propri soldati, che costituivano la maggior parte degli avventori; pochi fra i profughi avevano denaro da spendere nelle sale comuni.

Un pugno di altre persone si era unito ai membri della Banda. Un uomo di Kandor magro, con la barba biforcuta, una pietra di luna grande come un pollice infilata nel lobo di un orecchio e una catena d’argento che gli passava sul torace davanti alla giubba rossa, una donna domanese dalla pelle ramata, con gli occhi veloci e le dita ingioiellate che però aveva addosso un modesto abito blu, un uomo di Tarabon con il cappello conico dalla punta piatta color blu, i baffi folti nascosti dietro un velo trasparente. Uomini paffuti con le giubbe di Tairen strette in vita o altri ossuti con le giubbe del Murandy che arrivavano fino alle ginocchia; donne dagli occhi attenti con addosso vestiti a collo alto lunghi fino alle caviglie, ma sempre in lana fine e colori sobri. Tutti mercanti, pronti a scattare non appena si fosse riaperto il commercio fra Andor e Cairhien. In ogni sala comune c’erano sempre due o tre individui seduti in disparte, di solito da soli, quasi sempre uomini dallo sguardo duro, alcuni vestiti bene, altri poco meglio dei profughi, ma ciascuno con l’aspetto di chi sapeva come usare la spada che aveva al fianco o dietro le spalle. Mat aveva identificato due donne appartenenti a quel gruppo, anche se nessuna mostrava armi. Una aveva un lungo bastone da passeggio appoggiato al tavolo e probabilmente l’altra teneva dei pugnali celati sotto l’abito da cavallerizza. Anche lui aveva dei pugnali da lancio nascosti addosso. Mat era certo di sapere cosa stessero combinando quei tipi, e la donna sarebbe stata una sciocca ad andare in giro disarmata.

Mentre lui e Edorion uscivano da La frusta del carrettiere, Mat si fermò a guardare una donna corpulenta con la gonna da cavallo a spacco, color marrone, che camminava fra la folla. Gli occhi che non si chiudevano mai e che si accorgevano di tutto quanto accadesse per strada tradivano la calma apparente di quel viso rotondo, come il manganello chiodato dietro la cintura e un pugnale con la lama pesante che sarebbe andato bene a un Aiel. La terza donna del gruppo. Cercatori del Corno, ecco cos’erano, il leggendario Corno di Valere che avrebbe rievocato gli eroi morti dalla tomba per combattere durante l’Ultima Battaglia. Chiunque lo avesse trovato avrebbe guadagnato un posto nelle leggende. Se rimarrà qualcuno in vita per scrivere una maledetta storia, pensò Mat asciutto.

Alcuni credevano che il Corno sarebbe spuntato dove c’erano sommosse e conflitti. Erano passati quattrocento anni da quando era stata dichiarata l’ultima caccia al Corno e adesso la gente era sbucata da ogni luogo per prestare il giuramento. Lui stesso aveva visto greggi di Cercatori nelle strade di Cairhien e si aspettava di incontrarne altri una volta raggiunta Tear. Senza dubbio sarebbero sciamati anche verso Caemlyn. Avrebbe davvero voluto che uno di loro avesse trovato quella cosa. Per quanto ne sapeva, il maledetto Corno di Valere era da qualche parte nella maledetta Torre Bianca, e se lui conosceva un minimo le Aes Sedai, sarebbe rimasto sorpreso se più di una dozzina di loro ne fossero state al corrente.

Una truppa di fanti che seguiva un ufficiale con un pettorale in ferro battuto e l’elmetto di Cairhien marciò fra lui e la grossa donna, circa duemila picchieri, un’alta foresta di lance, seguite da cinquanta o più arcieri, faretre sui fianchi e archi dietro le spalle. Non gli archi lunghi dei Fiumi Gemelli con cui era cresciuto Mat, ma delle belle armi. Doveva trovare abbastanza balestre per rimpiazzarli, sebbene gli arcieri non avrebbero fatto volentieri quel cambio. Cantavano mentre marciavano e le voci erano abbastanza alte da soffocare il resto del rumore.

«Mangerai fagioli e fieno marcio,

e lo zoccolo di un cavallo è il regalo dell’onomastico.

Suderai e sanguinerai fino a quando Invecchierai,

e il solo oro che avrai sarà quello che sogni,

se vuoi diventare un soldato.

Se vuoi diventare un soldato.»

Un gruppo di civili li seguiva, cittadini e profughi mischiati fra loro, tutti giovani, che osservavano con curiosità e ascoltavano. La cosa non cessava mai di stupire Mat. Più era brutta l’impressione che davano le canzoni sulla vita da soldato — e quella non era certo la peggiore — più era grande la folla. Con la stessa certezza con cui l’acqua era bagnata, alcuni di questi uomini avrebbero parlato con dei portabandiera prima del calar della sera e quasi tutti avrebbero lasciato il proprio nome o si sarebbero uniti a loro. Dovevano credere che la canzone fosse un tentativo di spaventarli e tenere la gloria e i saccheggi lontani da loro. Se non altro i picchieri non stavano cantando Danza con Jak delle Ombre. Mat odiava quella canzone. Una volta che i soldati avevano capito che Jak delle Ombre era la morte, avevano cominciato a perdere i portabandiera.

«La tua ragazza sposerà un altro uomo,

una tomba fangosa sarà tutta la tua terra.

Cibo per i vermi e nessuno da piangere.

Maledirai il giorno che sei nato,

se diventerai un soldato.

Se diventerai un soldato.»

«Stanno ponendosi molte domande» disse distrattamente Edorion mentre la formazione girava in fondo alla strada con il suo seguito di idioti «su quando ci dirigeremo a sud. Circolano delle voci.» Osservò Mat con la coda dell’occhio per capire di che umore fosse. «Ho notato che i veterinari stavano controllando i tiri di cavalli dei carri viveri.»

«Ci muoveremo quando ci muoveremo» rispose Mat. «Non c’è bisogno di lasciare che Sammael scopra quando arriviamo.»

Edorion lo guardò inespressivo. Quel Tarenese non era stupido. Non che Nalesean lo fosse — a volte era solo troppo zelante — ma Edorion aveva una mente davvero acuta.

Nalesean non avrebbe mai notato i veterinari. Era un peccato che la casata Aldiaya superasse la casata Selorna, altrimenti Mat avrebbe messo Edorion al posto di Nalesean. Quegli sciocchi nobili, con le loro assurde fissazioni sui ceti sociali. No, Edorion non era cocciuto; sapeva che non appena la Banda si fosse mossa verso sud le voci li avrebbero preceduti con il traffico fluviale e forse anche con i piccioni. Mat non avrebbe scommesso sull’assenza di spie a Maerone neanche se avesse sentito la fortuna battergli talmente forte nel cranio da aprirlo in due.

«Circolano anche voci che il lord Drago ieri fosse in città» aggiunse Edorion, a voce bassa per quanto consentiva il rumore della strada.

«La cosa più importante che è successa ieri» rispose asciutto Mat «è stato il mio primo bagno dopo una settimana. Adesso proseguiamo. Ci vorrà mezza giornata per finire.»

Avrebbe offerto una ricompensa per scoprire come nascevano le voci. Era andato via solo mezza giornata e nessuno aveva assistito all’accaduto. Era stato nelle prime ore del mattino, quando un raggio di luce era apparso all’improvviso nella sua camera al Cervo d’oro. Mat si era lanciato disperatamente oltre il letto, con un solo stivale addosso, estraendo il pugnale che nascondeva fra le scapole prima di accorgersi che si trattava di Rand che usciva da uno di quei maledetti buchi nel nulla, proveniente in apparenza dal palazzo di Caemlyn, a giudicare dalle colonne visibili prima che l’apertura svanisse. Fu stupefacente, Rand che spuntava nel mezzo della notte, senza Aiel, approdando nella stanza di Mat: l’immagine gli faceva ancora rizzare i capelli. Quella scena avrebbe potuto aprirlo da parte a parte se si fosse trovato nel punto sbagliato. Non gli piaceva l’Unico Potere. Tutta la faccenda era stata assai strana.

«Affrettati con lentezza, Mat» aveva detto Rand camminando avanti e indietro. Non guardava mai in direzione dell’amico. Aveva il viso madido di sudore e la mascella tesa. «Deve vederci arrivare. Dipende tutto da questo fattore.»

Seduto sul letto, Mat si tolse lo stivale e lo lanciò sul tappeto che comare Daelvin gli aveva offerto in dotazione. «Lo so» rispose amareggiato, fermandosi per massaggiarsi una caviglia che aveva sbattuto contro il letto. «Ti ho aiutato a progettare il maledetto piano, ricordi?»

«Come fai a capire se sei innamorato di una donna, Mat?» Rand non aveva smesso di camminare, aveva rivolto la domanda come se avesse un nesso con la precedente.

Mat batté le palpebre. «Come faccio a saperlo, per il Pozzo del Destino? Quella è una trappola nella quale non ho mai infilato il piede. Perché me ne parli?»

Rand si strinse nelle spalle come se stesse liberandosi di qualcosa. «Finirò Sammael, Mat. L’ho promesso; lo devo ai morti. Ma dove sono gli altri? Devo finirli tutti.»

«Uno alla volta però.» Era riuscito appena a evitare la domanda. Non c’era modo di sapere cosa avesse in mente Rand in quei giorni.

«Nel Murandy ci sono i fautori del Drago, Mat. Anche nell’Altara. Uomini che mi hanno prestato giuramento. Una volta che Illian sarà mia, Altara e Murandy cadranno come pere mature. Prenderò contatti con i fautori del Drago a Tarabon — e nell’Arad Doman — e se i Manti Bianchi cercheranno di tenermi fuori dall’Amadicia, li schiaccerò. Il Profeta ha preparato il Ghealdan e anche l’Amadicia è quasi pronta. Se non altro così ho sentito dire. Riesci a immaginare Masema come profeta? La Saldea verrà a me, Bashere ne è sicuro. Tutte le Marche di Confine lo faranno. Devono! Ci riuscirò, Mat. Ogni nazione unita prima dell’Ultima Battaglia. Devo riuscirci!» La voce di Rand adesso era febbrile.

«Certo, Rand» rispose Mat con lentezza, sistemando l’altro stivale vicino al primo. «Ma una cosa per volta, va bene?»

«Nessun uomo dovrebbe avere la voce di un altro nella testa» mormorò Rand, e le mani di Mat si immobilizzarono nell’atto di togliersi un calzino. Stranamente, si scoprì a chiedersi se avrebbe potuto indossarli per un altro giorno. Rand sapeva qualcosa di quanto era accaduto nel ter’angreal del Rhuidean — almeno sapeva che aveva acquisito le conoscenze militari —, ma non tutto. Mat non credeva che sapesse tutto. Non dei ricordi degli altri uomini. In apparenza Rand non notò nulla fuori dall’ordinario. Si limitò a passarsi le mani fra i capelli e proseguì. «Può essere ingannato, Mat — Sammael pensa sempre in modo lineare — ma esistono delle aperture dalle quali potrebbe fuggire? Se commettiamo anche un solo errore, moriranno migliaia di persone. Decine di migliaia. Ci saranno comunque centinaia di caduti, ma non voglio che diventino migliaia.»

Mat fece una smorfia così truce che un ambulante che stava cercando di vendergli un pugnale con l’impugnatura coperta di ‘gemme’ di vetro colorate fece cadere l’arma e si infilò nella folla. Con Rand era sempre così, passava dall’invasione di Illian alle donne per balzare ai Reietti — Luce, era Rand quello che aveva sempre saputo cosa fare con le donne, lui e Perrin —, dall’Ultima Battaglia alle Fanciulle della Lancia a cose che Mat capiva a stento; ascoltava raramente le sue risposte e a volte nemmeno le aspettava. Sentire Rand che parlava di Sammael come se lo conoscesse era molto più che sconcertante. Sapeva che un giorno il suo amico sarebbe impazzito, ma se la follia stava già facendo capolino...

E cosa dire degli altri, gli sciocchi che Rand stava radunando, quelli che ‘volevano’ incanalare e quel tizio, Taim, che già poteva farlo? Rand lo aveva accennato casualmente; Mazrim Taim, un maledetto falso Drago, che insegnava a Rand e ai suoi maledetti studenti o qualunque cosa fossero. Quando avessero iniziato tutti a impazzire, Mat non avrebbe voluto trovarsi nel raggio di mille chilometri.

Ma aveva la stessa possibilità di scelta di una foglia in un mulinello. Era un ta’veren, ma Rand era più forte. Le Profezie del Drago non menzionavano Mat Cauthon, ma lui vi era impigliato, una donnola sotto un recinto. Luce, come avrebbe voluto non avere mai visto il Como di Valere. Fu con il viso incupito che camminò attraverso le altre dodici sale comuni e taverne che circondavano il Cervo d’oro. Non erano diverse dalla prima, tavoli ammucchiati pieni di uomini che bevevano e giocavano a dadi o a braccio di ferro, musicisti spesso sommersi dal fracasso, Braccia Rosse che sopprimevano le risse non appena iniziavano, un menestrello che recitava La Grande Caccia in una locanda — era popolare anche senza i Cercatori del Corno — e in un’altra una donna bassa dai capelli chiari che cantava una canzone vagamente oscena e la faceva sembrare ancor più oscena con quel viso rotondo e gli occhi innocenti.

Il malumore ancora persisteva quando lasciò Il corno d’argento — nome idiota! — e la sua cantante. Forse era quello il motivo per cui corse verso le grida che erano scaturite in fondo alla strada, davanti a un’altra locanda. Le Braccia Rosse sarebbero intervenute se la rissa avesse coinvolto dei soldati, ma Mat si fece comunque avanti. Rand stava impazzendo se lo lasciava da solo nell’uragano. Taim e quegli altri idioti pronti a seguirlo nella follia. Sammael che aspettava a Illian e il resto dei Reietti solo la Luce, sapeva dove, probabilmente tutti alla ricerca di un’opportunità di prendersi la testa di Mat con l’occasione. Senza considerare cosa gli avrebbero fatto le Aes Sedai se gli avessero nuovamente messo le mani addosso. Se non altro, quelle che sapevano troppo. E tutti pensavano che sarebbe diventato un maledetto eroe! Di solito cercava di risolvere le discussioni a parole se proprio non riusciva a tenersene alla larga, ma in quel momento voleva una scusa per colpire qualcuno sul naso. Ciò che trovò non fu affatto quanto si aspettava.

Una folla di cittadini; bassi Cairhienesi in abiti spenti e un gruppo di alti Andorani con vestili più colorati che creavano un anello attorno a due uomini alti e snelli con i baffi ricurvi, le lunghe giubbe del Murandy di seta colorata e le spade con le impugnature decorate. Il tizio con la giubba rossa stava in piedi e rideva divertito mentre guardava quello con la giubba gialla che scuoteva come un ratto, tenendolo per la collottola, un ragazzino poco più alto della vita di Mat.

Mat mantenne sotto controllo la propria ira; si rammentò che non sapeva cosa avesse dato il via a tutta la faccenda. «Andateci piano» disse, appoggiando una mano sul braccio dell’uomo con la giubba gialla. «Che cosa ha fatto per meritare...»

«Ha toccato il mio cavallo!» scattò l’uomo con un accento del Mindean, liberandosi della mano di Mat. Gli abitanti del Mindean si vantavano — si vantavano! — di avere il peggior carattere di chiunque altro nel Murandy. «Gli spezzerò quello stupido e magro collo da contadino! Torcerò la sua scarna...»

Senza aspettare un’altra parola Mat sollevò con forza il fondo della lancia, colpendo proprio in mezzo alle gambe del tizio. La bocca dell’uomo del Murandy si spalancò, ma non ne uscì alcun suono. Gli occhi rotearono verso l’alto fino a quando non si vide quasi solo il bianco. Il ragazzino scappò quando l’uomo si accasciò, rimanendo in ginocchio con il viso rivolto verso la strada. «Non credo che lo farai» rispose Mat.

Quella non fu la fine del problema; l’uomo con la giubba rossa impugnò la spada. Riuscì a snudarne un centimetro prima che Mat gli spezzasse il polso con l’impugnatura della lancia. Sbuffando, l’altro lasciò la spada ma con la mano integra afferrò il pugnale dalla lunga lama appeso alla cintura. Mat lo colpì rapidamente sull’orecchio, non forte, ma il tizio cadde sopra l’altro uomo. Maledetto idiota! Mat non era certo se si riferiva allo sconosciuto con la giubba rossa o a se stesso.

Alcune Braccia Rosse si erano finalmente aperte un varco fra la folla di curiosi, cavalieri di Tairen che si muovevano goffamente a piedi, con gli stivali fino al ginocchio e le maniche rigonfie nere e oro schiacciate sotto le fasce rosse. Edorion aveva preso il ragazzo, di circa sei anni, scarno e dall’aspetto scontroso, che agitava le dita dei piedi nude nella polvere e di tanto in tanto cercava di liberarsi dalla presa di Edorion. Forse era il ragazzino più brutto che Mat avesse mai visto, il naso schiacciato, la bocca troppo larga per quel viso e le orecchie troppo grandi che spuntavano di lato. A giudicare dai buchi nella giubba e nelle brache, doveva trattarsi di uno dei profughi. Sembrava più sporco di chiunque altro.

«Pensaci tu, Harnan» disse Mat. Era uno delle Braccia Rosse, un capofila con un’espressione sofferente e il tatuaggio di un falco sulla guancia sinistra. Quella moda pareva diffondersi fra la Banda, ma la maggior parte dei soldati si limitava a parti del corpo di solito coperte. «Scopri la causa di tutto il disordine, poi caccia questi due fuori dalla città.» Era il minimo che si meritavano per la provocazione.

Un uomo magro con una giubba di lana scura del Murandy si fece strada fra gli spettatori e cadde in ginocchio vicino alla coppia in terra. L’uomo con la giubba gialla aveva preso a lamentarsi e quello con la giubba rossa cominciava a tenersi la testa fra le mani e imprecava. Il nuovo arrivato faceva più baccano degli altri due messi insieme. «Oh, miei signori! Mio signore Paers! Mio signore Culen! Vi hanno ucciso?» Tese le braccia tremanti verso Mat. «Oh, non ucciderli, mio signore! Non indifesi come sono! Sono Cercatori del Corno. Io sono il loro servitore, Padry. Sono eroi, mio signore.»

«Non ucciderò nessuno» lo interruppe Mat. «Ma metti questi eroi a cavallo e portali fuori da Maerone prima del tramonto. Non mi piace sentire degli uomini adulti che minacciano di spezzare il collo di un bambino. Prima del tramonto!»

«Ma, mio signore, sono feriti. Quello è solo il figlio di un contadino e stava infastidendo il cavallo del signor Paers.»

«Mi ci ero solo seduto sopra» gridò il ragazzino. «Io non stavo... quello che hai detto.»

Mat annuì torvo. «Ai ragazzini non viene spezzato il collo per essersi seduti su un cavallo, Padry. Nemmeno ai figli di contadini. Porta via questi due o farò in modo che qualcuno spezzi loro il collo.» Fece un cenno ad Harnan che annuì secco in direzione delle altre Braccia Rosse — i capofila non facevano mai nulla di persona, come i portabandiera — che afferrarono Paers e Culen con violenza e li spinsero via mentre si lamentavano, con Padry che li seguiva strofinandosi le mani e protestando che i suoi signori non erano in condizione di cavalcare, che erano Cercatori del Corno ed eroi.

Mat si accorse che Edorion stringeva ancora per un braccio la fonte di tutti i loro problemi. Le Braccia Rosse erano andate via e i cittadini si stavano allontanando. Nessuno guardò il ragazzino due volte; avevano i loro figli da controllare ed era già duro occuparsene. Mat sospirò forte. «Non ti sei reso conto che avresti potuto farti del male solo per il fatto di ‘sederti’ sul cavallo di uno straniero, ragazzo? Un uomo come quello probabilmente monta uno stallone che potrebbe scalciare un piccoletto come te fino in fondo alla stalla, così nessuno ti avrebbe trovato mai.»

«Un castrone.» Il ragazzino strattonò ancora il braccio che lo bloccava e, scoprendo che la presa non si era allentata, assunse un’espressione imbronciata. «Era un castrone e non mi avrebbe fatto del male. Io piaccio ai cavalli. E non sono piccolo, ho nove anni. E mi chiamo Olver, non ragazzino.»

«Olver, eh?» Nove anni? Poteva essere. Mat non era bravo a indovinare le età, specialmente con i bambini cairhienesi. «Be’, Olver, dove sono tuo padre e tua madre?» Si guardò intorno, ma vide solo i profughi che gli passavano rapidamente davanti, come cittadini ordinari. «Dove sono, Olver? Devo riportarti da loro.»

Invece di rispondere, il piccolo si morse le labbra. Da un occhio scese una lacrima e lui l’asciugò furioso. «Gli Aiel hanno ucciso mio padre. Uno di quegli... Shaido. Mamma mi aveva detto che saremmo andati ad Andor. Che avremmo vissuto in una fattoria. Con i cavalli.»

«E dove si trova lei adesso?» chiese Mat con dolcezza.

«Si è ammalata. Io... l’ho sotterrata dove c’erano dei fiori.» Olver diede un calcio improvviso a Edorion e ricominciò ad agitarsi. Adesso le lacrime scendevano copiose. «Lasciami andare. Posso badare a me stesso. Lasciami andare.»

«Prenditi cura di lui fino a quando riusciremo a trovare qualcuno» ordinò Mat a Edorion, che rimase a bocca aperta mentre cercava di parare i colpi del piccolo e tenerlo allo stesso tempo.

«Io? Cosa dovrei farmene di questo leopardo chiuso nel corpo di un topo?»

«Per prima cosa, dagli da mangiare.» Mat arricciò il naso; a giudicare dall’odore Olver doveva aver trascorso del tempo sul pavimento della stalla del castrone. «E fagli fare un bagno. Puzza.»

«Tu, parla con me» gli gridò Olver pulendosi il viso. Le lacrime lo aiutarono a spargere bene la polvere. «Parla con me, non sopra la mia testa!»

Mat batté le palpebre e poi si chinò in basso. «Mi dispiace, Olver. Anche io ho sempre odiato la gente quando me lo faceva. Ecco come stanno le cose. Tu puzzi terribilmente, quindi Edorion ti porterà al Cervo d’oro dove comare Daelvin ti farà fare il bagno.» Il broncio sul muso di Olver crebbe. «Se lei protesta, dille che hai il mio permesso. Non può fermarti.» Mat trattenne un sorriso davanti allo sguardo stupito del ragazzino; avrebbe rovinato tutto. A Olver forse non piaceva l’idea di un bagno, ma se qualcuno avesse tentato di impedirgli di farlo... «Fai quello che ti dice Edorion. È un vero signore di Tairen e ti troverà un buon pasto caldo e degli abiti che non siano bucati. E delle scarpe.» Decise che era meglio non aggiungere: «E qualcuno che si prenda cura di te.» Se ne sarebbe occupata comare Daelvin; un po’ d’oro avrebbe spento la sua riluttanza.

«Non mi piacciono i Tarenesi» brontolò Olver, guardando torvo prima Edorion e poi Mat. Edorion stava a occhi chiusi e imprecava fra sé. «È un vero lord? Anche tu lo sei?»

Prima che Mat potesse rispondere, Estean arrivò di corsa fra la folla, la faccia butterata rossa e intrisa di sudore. Il pettorale scheggiato aveva ancora qualche traccia di doratura e le strisce di raso rosso sulle maniche gialle della giubba erano consumate. Adesso non pareva più il figlio del nobile più ricco di Tear. Ma in fondo non lo era mai sembrato. «Mat» ansimò, passandosi le dita fra i capelli sottili che gli ricadevano sulla fronte. «Mat... al fiume...»

«Cosa?» lo interruppe Mat irritato. Doveva farsi ricamare sulla giubba la frase ‘non sono un maledetto lord’. «Sammael? Gli Shaido? Le guardie della regina? I maledetti Leoni Bianchi? Cosa?»

«Una nave, Mat» ansimò Estean, toccandosi i capelli. «Grande. Credo che appartenga al Popolo del Mare.»

Era alquanto improbabile. Gli Atha’an Miere non portavano mai le loro imbarcazioni lontano dal mare aperto, se non per raggiungere il porto più vicino. Eppure... non c’erano molti villaggi lungo l’Erinin verso sud, e le provvigioni che i carri potevano trasportare si sarebbero ridotte presto, prima che la Banda raggiungesse Tear. Aveva già noleggiato dei battelli fluviali che li seguissero nella marcia, ma un veliero più largo sarebbe stato ben più che utile.

«Tieni d’occhio Olver, Edorion» disse, ignorando la smorfia dell’uomo. «Estean, mostrami la nave.» Questi annuì ansioso, e avrebbe corso di nuovo se Mat non lo avesse afferrato per la manica per farlo rallentare. Estean era sempre impaziente e lento a imparare; quella combinazione era il motivo per cui aveva ben cinque lividi lasciati dal manganello di comare Daelvin.

Il numero di profughi crebbe con l’avvicinarsi al fiume: andavano e tornavano con fare letargico. Una mezza dozzina di traghetti dai grandi timoni erano ancorati ai lunghi moli di legno coperto di catrame, ma i remi erano stati portati via e non c’era un marinaio in vista. Le sole barche che mostrassero qualche attività erano sei velieri fluviali: uno grosso e due con dei grandi alberi si erano appena avviati verso fondo valle. La ciurma scalza si muoveva appena sulle navi che Mat aveva affittato; le stive erano piene e i capitani gli avevano assicurato di poter salpare non appena lo avesse ordinato. Le navi percorrevano l’Erinin, che cullava imbarcazioni dalla prua bombata con delle vele quadrate e dei velieri stretti con le vele triangolari, ma nessuno andava da Maerone ad Aringill, dove sventolava il Leone Bianco di Andor.

Quella bandiera aveva garrito anche sopra Maerone, e i soldati andorani che avevano occupato il villaggio non avevano voluto lasciar entrare la Banda della Mano Rossa. Rand aveva preso Caemlyn, ma il suo comando non si estendeva alle guardie della regina da quelle parti, o alle unità che aveva messo insieme Gaebril, come i Leoni Bianchì. Adesso questi ultimi si trovavano da qualche parte a est — erano fuggiti in quella direzione, e una qualunque delle voci che parlavano di briganti poteva riferirsi alla loro opera — ma il resto aveva attraversato il fiume dopo una schermaglia con la Banda. Da allora nessun altro aveva oltrepassato l’Erinin.

La sola cosa che Mat riusciva a vedere era un’imbarcazione ancorata sempre nel mezzo dell’ampio fiume. Era davvero un veliero del Popolo del Mare, più alto e lungo dei battelli fluviali, lucente e con due slanciati pennoni. Delle sagome scure si arrampicavano sulle corde, alcune a torso nudo con le brache a sbuffo, intente a controllare l’orizzonte, altre con delle bluse dai colori brillanti che le identificavano come donne. La metà della ciurma era femminile. Le grandi vele quadrate erano state issate sui boma, ma pendevano comunque mollemente ripiegate, pronte a essere calate in un istante.

«Trovami una barca,» chiese Mat a Estean «e qualche rematore.» Estean doveva essere istruito su ogni cosa. Il Tarenese lo guardò passandosi le mani fra i capelli. «Sbrigati!» Estean annuì di colpo e si mise a correre.

Procedendo fino in fondo al molo più vicino, Mat si poggiò la lancia su una spalla e prese il cannocchiale dalla tasca della giubba. Quando si portò il cilindro di ottone vicino all’occhio, la nave fece un balzo in avanti. Pareva che il Popolo del mare aspettasse qualcosa, ma cosa? Alcuni guardavano verso Maerone, ma la maggior parte osservava il lato opposto, inclusi tutti quelli sul cassero, dove si trovava la Maestra delle Vele con gli altri ufficiali della nave. Puntò il binocolo sulla riva opposta e vide una lunga imbarcazione con degli uomini scuri ai remi che raggiungeva rapida la nave.

Ad Aringill ci fu una certa agitazione sulle banchine, quasi gemelle di quelle di Maerone. Giubbe rosse dai colletti bianchi e i pettorali lucidati identificavano le guardie della regina, che chiaramente stavano incontrando un gruppo di nuovi arrivati dalla nave. A far fischiare sommessamente Mat fu la coppia di parasole frangiati che usavano questi ultimi, uno dei quali era a due strati. A volte i vecchi ricordi erano comodi: il parasole a due strati apparteneva alla Maestra delle Onde, l’altro dal Mastro della Spada.

«Ho la barca, Mat» annunciò Estean affannato, alle sue spalle. «E alcuni rematori.»

Lui puntò nuovamente il cannocchiale sulla nave. A giudicare dall’attività sul ponte, dall’altro lato stavano issando la scialuppa, ma gli uomini al verricello stavano già tirando su l’ancora e le vele venivano liberate. «Sembra che non ne avrò bisogno» borbottò.

La delegazione degli Atha’an Miere scomparve lungo la banchina sull’altra riva del fiume con una scorta di soldati. Quella faccenda non aveva senso. Il Popolo del Mare a oltre mille chilometri dal mare. Solo la Maestra della Nave era di grado superiore alla Maestra delle Onde e solo il Maestro della Lama era superiore in grado al Mastro della Spada. Non aveva alcun’ senso, nemmeno secondo tutte le altre memorie. Erano antiche; Mat ‘ricordava’ che degli Atha’an Miere non se ne sapeva nulla, meno di tutti gli altri popoli, a esclusione degli Aiel. Di questi ultimi, lui sapeva molto di più, per esperienza diretta. Ed era abbastanza. Forse qualcuno che conoscesse il Popolo del Mare ai tempi correnti avrebbe potuto capire cosa stava succedendo.

Sulla nave del Popolo del Mare le vele erano già gonfie, mentre ancora issavano l’ancora che gocciava sul ponte di prua. Qualsiasi cosa avesse messo loro una tale fretta, era evidente che non li avrebbe riportati al mare. Lentamente il veliero si avviò a risalire il fiume, virando verso l’imboccatura dell’Alguenya fiancheggiata dalle paludi a qualche chilometro da Maerone.

Be’, non aveva nulla a che fare con lui. Con un ultimo sguardo pieno di rimpianto rivolto all’imbarcazione — da sola avrebbe potuto trasportare quanto tutti i gusci di noce che aveva noleggiato messi assieme — Mat ripose il cannocchiale in tasca e si voltò verso il fiume. Estean indugiava ancora, guardandolo.

«Riferisci ai rematori che possono andare via» sospirò Mat, e il Tarenese si incamminò passandosi una mano fra i capelli.

Adesso c’era più fango dell’ultima volta che era venuto al fiume, alcuni giorni prima. Solo una striscia larga meno di un palmo fra l’acqua e la fascia larga un passo di fango screpolato, ma dimostrava che anche il fiume Erinin si stava lentamente prosciugando. La cosa, però, non lo riguardava. Si voltò per ritornare al giro delle taverne e delle sale comuni; era importante che quel giorno nulla sembrasse fuori dall’ordinario.

Quando il sole tramontò, Mat fece ritorno al Cervo D’oro, a ballare con Betse, senza grembiule, mentre i musicisti suonavano più forte che potevano. Stavolta erano danze di campagna e i tavoli erano stati spostati per fare spazio a otto coppie. La sera aveva portato una lieve frescura, tollerabile solo se paragonata al giorno. Sudavano ancora tutti. Uomini che ridevano e bevevano avevano riempito le panche e le cameriere correvano ovunque per servire montone, rape e zuppa d’orzo piccante e per tenere pieni i boccali di birra e i calici di vino.

Sorprendentemente le donne parevano considerare la danza un intervallo rispetto al trascinarsi dietro i vassoi. Ognuna di loro sorrideva impaziente quando arrivava il suo turno di tamponarsi il viso e abbandonare il grembiule per una danza, anche se riprendeva a sudare subito, non appena iniziava a ballare. Forse comare Daelvin aveva organizzato una specie di turno. Se lo aveva fatto, Betse era un’eccezione. La snella ragazza serviva il vino solo a Mat, danzava solo con lui, e la locandiera li osservava come una madre al matrimonio della figlia, cosa che metteva Mat a disagio. Betse ballò con lui fino a quando gli fecero male i piedi e le caviglie, ma non smise mai di sorridere, con gli occhi che splendevano dal piacere puro. Escluse le pause per riprendere fiato. A lui serviva, ma la ragazza non pareva averne bisogno. Non appena si fermavano la lingua di Betse partiva al galoppo. Lo faceva anche ogni volta che lui cercava di baciarla e voltava sempre il capo, parlando concitata dell’una o l’altra cosa, quindi alla fine Mat si ritrovava a baciare un orecchio o i capelli, invece delle labbra. La ragazza appariva sempre sorpresa. Mat ancora non capiva se fosse davvero stupida o molto furba.

Erano circa le due del mattino, quando alla fine le disse che per quella sera ne aveva avuto abbastanza. La ragazza, delusa, assunse un’espressione leggermente imbronciata. Pareva pronta a ballare fino all’alba. Non era la sola; una delle cameriere più grandi era appoggiata con una mano contro la parete mentre si massaggiava un piede con l’altra, ma la maggior parte sembrava sveglia e riposata come Betse. Quasi tutti gli uomini invece parevano stanchi, sui volti di quelli che si lasciavano trascinare via dalle panche erano stampati sorrisi fissi, ma molti mandavano via le donne. Mat non capiva. Doveva essere perché erano gli uomini a fare la maggior parte del lavoro nella danza, tutti i sollevamenti e le giravolte. Le donne erano leggere, saltare per loro era meno faticoso. Guardando la cameriera robusta che stava facendo volteggiare Estean anziché il contrario — l’uomo sapeva ballare, aveva del talento — Mat regalò una moneta d’oro a Betse, una grossa corona andorana, perché si comprasse qualcosa di carino.

La ragazza osservò la moneta per un istante, quindi si alzò in punta dei piedi e lo baciò leggermente sulle labbra, come il tocco di una piuma. «Io non ti avrei mai impiccato, qualunque cosa avessi fatto. Ballerai ancora con me domani?» Prima che Mat potesse rispondere, la ragazza rise e corse via, guardandolo da sopra le spalle mentre cercava di trascinare via Edorion dalla pista da ballo. Comare Daelvin intercettò la coppia e, infilando un grembiule fra le mani di Betse, fece un cenno con un dito verso le cucine.

Mat si diresse zoppicando leggermente verso il tavolo vicino al muro in fondo alla sala, dove Taimanes, Daerid e Nalesean si erano rifugiati. Taimanes fissava la coppa del vino come se fosse alla ricerca di risposte profonde. Daerid, sorridente, guardava Nalesean che tentava di mandare via una cameriera grassoccia con gli occhi grigi e i capelli castano chiaro, perché non voleva ammettere di avere mal di piedi. Mat appoggiò i gomiti sul tavolo. «La Banda si dirigerà verso sud alle prime luci dell’alba. Farete meglio a iniziare i preparativi.» I tre uomini lo guardarono a bocca aperta.

«Sono solo poche ore» protestò Taimanes, mentre Nalesean diceva: «Impiegheremo tutto il tempo rimasto per separare gli uomini dai boccali.»

Trasalendo Daerid scosse il capo. «Stanotte nessuno di noi dormirà.»

«Io sì» rispose Mat. «Che uno di voi mi svegli fra due ore. Alle prime luci dell’alba saremo in marcia.»

Fu così che si ritrovò in groppa a Pips, il grosso castrone marrone, nel grigiore che precedeva l’alba, con la lancia appoggiata sulla sella e l’arco lungo senza corda infilato nel sottopancia del cavallo, senza aver dormito abbastanza e con gli occhi che gli facevano male, mentre guardava la Banda della Mano Rossa che lasciava Maerone. Tutti i seimila uomini. Una metà a cavallo, l’altra a piedi, facevano abbastanza rumore da svegliare i morti. Malgrado l’ora la gente aveva affollato le strade e altri li guardavano da ogni finestra, a bocca aperta.

La bandiera della Banda, quadrata con le frange rosse, era davanti alla fila, una mano rossa in campo bianco, il motto ricamato in rosso proprio sotto la mano. Dovie’andi se tovya sagain. ‘È il momento di lanciare i dadi’. Daerid e Taimanes cavalcavano in prossimità della bandiera, dieci uomini a cavallo battevano il tempo su dei tamburini di ottone legati con del nastro scarlatto, accompagnati dagli squilli delle trombe. Il gruppo era seguito da Nalesean e i suoi cavalieri, un miscuglio di soldati tarenesi e Difensori della Pietra, signori cairhienesi con i ‘con’ sulle spalle e gli inservienti al seguito, più un gruppo di Andorani. Ogni squadrone e ogni truppa aveva la propria bandiera che riportava la Mano Rossa, una spada e un numero. Mat aveva dovuto estrarre a sorte i numeri da assegnare.

Il miscuglio aveva provocato delle lamentele; per dire la verità, più di qualche lamentela. Al principio i cavalieri Cairhienesi seguivano Talmanes e i Tarenesi Nalesean. La fanteria era stata un ibrido fin dall’inizio. C’erano state delle voci sul creare unità tutte della stessa dimensione, e ruotare i numeri sui vessilli. Lord e capitani erano sempre riusciti a riunire tutti i soldati di cui avevano bisogno, e questi erano noti come gli uomini di Edorion, o Meresin o Alhandrin. Lo facevano ancora — per esempio i cinquecento uomini di Edorion si facevano chiamare i Martelli di Edorion, non il primo squadrone — ma Mat aveva inculcato nelle loro teste che ognuno apparteneva alla Banda, non alla terra di nascita, e chiunque non avesse voluto seguire i suoi ordini era libero di andare via. Il fatto notevole era che nessuno lo aveva fatto.

Perché fossero rimasti era difficile da capire. La vittoria era sempre certa quando comandava Mat, ma alcuni morivano comunque. Era difficile nutrirli, fare in modo che ciascuno venisse pagato più o meno in tempo, e potevano anche dimenticarsi dei beni che credevano di poter saccheggiare. Nessuno fino ad allora aveva visto una moneta e Mat non intravedeva grandi opportunità di pagarli in futuro. Era pura follia.

Il primo squadrone lo acclamò, seguito dal quarto e dal quinto.

I Leopardi di Carlomin e le Aquile di Reimon, così si facevano chiamare. «Lord Matrim e la vittoria! Lord Matrim e la vittoria!»

Se Mat avesse avuto un sasso a portata di mano, glielo avrebbe tirato.

Seguì la fanteria, come un serpente, ogni compagnia dietro un tamburo che dava la cadenza, e uno dei lunghi vessilli, una picca al posto della spada, venti file con le lance dritte, seguite da cinque arcieri o balestrieri. Ogni compagnia aveva uno o due flauti, e gli uomini cantavano.

«Beviamo tutta la notte e balliamo l’intera giornata

Spendiamo la paga con le ragazze.

Quando abbiamo finito, andiamo via,

per danzare con Jak delle Ombre.»

Mat attese che la canzone finisse per vedere apparire il primo gruppo della cavalleria di Talmanes, quindi affondò i talloni nei fianchi di Pips. Non c’era bisogno di aspettare i carri con i viveri in coda alla processione, o la fila di cavalli di scorta. Gli animali si sarebbero azzoppati nel percorso fino a Tear o sarebbero morti di malattie che i veterinari non potevano curare, e i cavalieri senza cavallo non servivano a molto. Sul fiume, sette piccole imbarcazioni poco più veloci della corrente discendevano il torrente sotto vele triangolari. Su ognuna c’era una piccola bandiera bianca con la Mano Rossa. Anche altre barche stavano salpando, qualcuna verso sud, e usavano tutte le vele che potevano.

Quando Mat raggiunse l’inizio della colonna, il sole finalmente fece capolino all’orizzonte, proiettando il primo raggio attraverso le colline ondulate e i boschetti sparsi. Mat abbassò il cappello contro lo splendore dell’argento. Il cavallo di Nalesean aveva le protezioni per gli stinchi rivestite di metallo e l’uomo cercava di reprimere uno sbadiglio, Daerid si era accasciato sulla sella con gli occhi pesanti, come se stesse per addormentarsi. Solo Talmanes stava a schiena dritta, occhi spalancati e all’erta. Mat si sentiva più vicino a Daerid.

Ciò nonostante, alzò la voce per farsi sentire sopra i tamburi e le trombe. «Mandate avanti gli esploratori non appena perderemo di vista la città.» Sia la foresta che la campagna aperta si trovavano a sud, ma le strade erano decenti e le attraversavano entrambe. La maggior parte del traffico era fluviale, ma molti durante gli armi si erano spostati a piedi o con i carri e avevano lasciato una traccia. «E fate smettere tutto quel maledetto rumore.»

«Gli esploratori?» chiese meravigliato Nalesean. «Che la mia anima sia folgorata, non c’è nessuno con una lancia per almeno tre chilometri, a meno che i Leoni Bianchi non abbiano smesso di scappare e, se anche così fosse, non si avvicineranno a meno di cinquanta chilometri se hanno un minimo di cervello.»

Mat lo ignorò. «Oggi voglio percorrere cinquantacinque chilometri. Quando riusciremo a farlo ogni giorno, vedremo quanto ancora potremo spingere.» Chiaramente lo guardarono a bocca aperta. I cavalli non potevano mantenere quel passo a lungo, e chiunque tranne gli Aiel avrebbe considerato quaranta chilometri una giornata eccellente di marcia a piedi, ma Mat doveva giocare come era stato programmato. «Comadrin ha scritto: ‘Attacca su un terreno che i tuoi nemici non pensano userai, da una direzione inaspettata e in un momento inaspettato. Difenditi dove i tuoi nemici non credono tu lo stia facendo, o quando credono che fuggirai. La sorpresa è l’elemento essenziale della vittoria e la velocità è la chiave della sorpresa. Per i soldati, la velocità rappresenta la vita’.»

«Chi è Comadrin?» chiese Talmanes dopo un istante, e Mat dovette pensare a fondo prima di rispondere.

«Un generale. Morto molto tempo fa. Ho letto un libro.» Si ricordava di averlo sfogliato più di una volta; dubitava che ne esistesse una copia ancora in circolazione. Ricordava anche di aver incontrato l’autore, dopo aver perso una battaglia contro di lui, circa seimila anni prima di Artur Hawkwing. Quelle memorie si infiltravano nella sua mente. Se non altro non aveva parlato nella lingua antica; ormai di solito riusciva a evitarlo.

Osservando le vedette a cavallo che si aprivano a ventaglio sulla pianura erbosa, Mat si rilassò. La sua parte del piano era iniziata, proprio come avevano concordato. Una partenza veloce con poco preavviso, ma abbastanza rumorosa per essere certo che tutti la notassero.

Quella combinazione lo avrebbe fatto sembrare uno sciocco, e questo era quanto voleva. Insegnare alla Banda a muoversi rapidamente era un bene — poteva tenere tutti fuori dalla battaglia — e il loro progredire poteva essere notato dal fiume. Osservò il cielo. Nessun corvo o cornacchia, ma non significava molto. Nessun piccione, ma se nessuno di quei volatili avesse lasciato Maerone la mattina stessa, lui si sarebbe mangiato la sella.

Ben presto Sammael avrebbe saputo che la Banda era in marcia e sì muoveva in fretta, e le istruzioni di Rand a Tear avrebbero reso chiaro che l’arrivo di Mat era il segnale dell’imminente invasione di Illian. Con la massima velocità che la Banda potesse sostenere, c’era ancora un mese di viaggio fino a Tear. Con un po’ di fortuna, Sammael sarebbe stato schiacciato come un pidocchio fra due rocce prima che Mat arrivasse anche a soli centocinquanta chilometri da lui. Il Reietto poteva vedere tutto ciò che accadeva — quasi tutto — ma sarebbe stato un ballo diverso da quello che si aspettava. Diverso per tutti tranne Rand, Mat e Bashere. Quello era il vero piano. Mat si accorse di fischiare. Una volta tanto, tutto avrebbe funzionato come si aspettava.

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