Era mezzogiorno quando raggiungemmo il punto in cui il letto del fiume si allargava in un’ampia baia tranquilla. Verso la metà del pomeriggio, eravamo alla spiaggia e lì ci fermammo per un breve riposo e una breve ricognizione.
Da dove ci trovavamo, accovacciati dietro agli alberi e ai grossi cespugli che fiancheggiavano il corso d’acqua, non riuscivamo a vedere la base nemica, da cui ci separava l’antica città abbandonata. Quanto a me, speravo che loro non vedessero “noi” mentre attraversavamo la spiaggia in direzione delle rovine.
— Nessun segno di pattuglie nemiche —riferì Manfred. Era arrivato di corsa, e sudava. Avevo espressamente vietato ogni comunicazione radio per paura di essere intercettati.
— Sono sicura che hanno messo in funzione i satelliti —brontolò Frede, e Quint manifestò il suo assenso con un cenno preoccupato del capo.
— Se anche è così, restare qui non servirà a nulla —replicai. —Quelle rovine saranno una protezione migliore in caso di combattimento.
Grazie ai volazaini, percorremmo parecchi chilometri di spiaggia, sempre in attesa di un attacco degli Skorpis. Frede continuava a guardare il cielo, quasi sperasse di vedere i satelliti.
Era divertente volare a quella velocità, a pochi centimetri dalla sabbia, con il mare da un lato e i cespugli in fiore dall’altro. Una cosa si stemperava nell’altra, fino a creare un’unica indistinta macchia di colore.
Avvicinandoci alle rovine, rallentammo, e infine, uno alla volta, col fiato corto e sorridenti, planammo sulla spiaggia. Il sole era una palla infuocata sospesa all’orizzonte e proiettava lunghe ombre violacee sulle mura cadenti delle rovine. Ci inoltrammo fra di esse, felici della protezione offerta da quelle vecchie mura, dopo essere stati a lungo all’aperto.
Era stata una città di dimensioni considerevoli: ampi viali si snodavano per chilometri, fiancheggiati da edifici che dovevano essere stati altissimi. Quanto era antica? E che cosa l’aveva distrutta?
— Il residuo radioattivo è irrilevante —mormorò Frede mentre ci facevamo strada tra i mucchi di pietre che ingombravano una delle vie principali. Dalla rete aveva prelevato lo scanner, e ora lo teneva davanti a sé con i gesti rigidi di un cieco che maneggi il bastone bianco.
— La città non è stata bombardata da testate nucleari —dissi.
I soldati si erano automaticamente divisi in due colonne, una a ogni lato del viale, e distanziati tra loro, in modo da offrire un bersaglio ridotto all’eventuale fuoco nemico. Manfred marciava in testa, in compagnia di quattro elementi scelti; Quint si era autoassegnato alla retroguardia. Il suo atteggiamento cominciava a preoccuparmi. La paura è un sentimento naturale nell’uomo, ma in lui stava prendendo il sopravvento sul senso del dovere.
— Che cosa l’ha rasa al suolo, allora? —obiettò Frede, che camminava al mio fianco.
Pensavo di saperlo. —C’è stata una battaglia. Una lunga, atroce battaglia che si è spostata da una strada all’altra, da un edificio all’altro. Un massacro che è durato settimane. Mesi, forse.
Frede scosse il capo. Non capiva. —Ma questo significa che l’intera popolazione era coinvolta. Civili, bambini… tutti, insomma.
I ricordi affluivano alla mia mente. Troia. Stalingrado. L’assedio di Gerusalemme da parte dei Crociati e il bagno di sangue che ne era seguito.
— Civili, bambini, tutti —le feci eco. —Nell’assedio di Stalingrado la maggior parte della popolazione morì di fame, tanto che la gente arrivò al punto di nutrirsi di topi e degli animali dello zoo.
— Santo cielo! —mormorò Frede.
— Puoi stabilire l’età della città? —le chiesi.
— Ne dubito. Bisognerebbe conoscere i tassi di radioattività di questo pianeta, e sono dati di cui il nostro computer non dispone.
— Ne sei sicura?
— Ho già controllato —rispose. —Questa città mi ha incuriosita subito, fin da quando eravamo ancora sulle montagne.
Dunque gli “strumenti” mostravano curiosità, pensai. A dispetto delle intenzioni dei loro creatori, erano molto più di semplici macchine per uccidere.
Ci accampammo al piano terra di uno dei pochi edifici ancora in piedi; era piacevole avere un tetto di cemento sulla testa e solide pareti intorno. Permisi ai soldati di accendere il fuoco e, mentre cuocevano la selvaggina che avevamo cacciato sulle montagne, li lasciai per visitare l’interno di altri edifici alla ricerca di indizi che me ne rivelassero l’età e l’origine.
Non riuscii a trovare nulla. Non un quadro era scampato alle fiamme, non c’erano statue intatte, né mosaici o murales. Di tanto in tanto, trovavo frammenti di intonaco o di piastrelle, affascinanti evocatori di affreschi o, addirittura, di mappe. Ma i frammenti non erano mai abbastanza grandi da lasciar intuire l’insieme di cui avevano fatto parte.
Mentre camminavo tra le macerie, feci un’altra scoperta. Non c’erano animali. Niente topi, né insetti. La distruzione di quella città doveva risalire a tempi così lontani che perfino le ossa dei suoi abitanti si erano tramutate in polvere, soffiata via dai venti marini.
Indugiai al centro di quello che una volta doveva essere stato l’ingresso di un imponente palazzo. Con i piedi protetti dagli stivali, cercai di scalfire le incrostazioni di polvere e scoprii che il pavimento era ricoperto da piastrelle dai colori vivaci, ormai sbiaditi fino a stemperarsi in un grigio quasi uniforme. Mi chinai e con le mani grattai via la dura patina di polvere e detriti.
Ma, sotto, trovai soltanto una scacchiera di piastrelle colorate. Forse, come gli antichi musulmani, i costruttori della città non avevano voluto riprodurre le proprie fattezze.
Che differenza faceva? Una volta, tanto tempo prima, avevano combattuto contro un nemico implacabile. E avevano perso. La loro città si era tramutata in polvere. Una civiltà era andata distrutta. Solo un altro giro della grande ruota.
Mi tolsi il casco e mi stesi sul pavimento, gli occhi rivolti al cielo che andava oscurandosi, alle costellazioni sconosciute. Il mio cuore anelava alla presenza di Anya, a vederla, a parlarle, a perdermi nella purezza dei suoi occhi grigi e sorridenti, a toccarla, ad amarla e a sapere che lei mi amava ancora. Intrecciando le mani dietro la nuca, dissi a me stesso: “Ti sei vantato con il Radioso di poter trovare Anya senza il suo aiuto. D’accordo, allora, dimostra che puoi farlo”.
Potevo provarci, almeno.
Chiusi gli occhi e mi sforzai di ricordare le mie molte traslazioni attraverso il continuum. I momenti di nulla. Il freddo criogeno del vuoto tra spazio-tempi. L’eterna danza degli atomi che rallentavano, mutavano, di energie che splendevano e irradiavano un perenne splendore, che si gonfiavano e poi calavano come le onde, come la luna, come la vita stessa.
Non accadde nulla. Quando aprii gli occhi, ero ancora disteso tra i resti della città morta. Era notte inoltrata; le stelle si erano spostate sopra di me. Il nastro luminoso della Via Lattea brillava nel cielo, tra grappoli di stelle. Quella luna, piccola, pallida e distante pareva guardarmi con tristezza. Mi sembrò stranamente familiare, come se l’avessi conosciuta in un’altra vita, in un’era diversa.
“Chi sei?”
Percepii la voce, più che udirla. L’accenno di una domanda nella mia mente.
“Chi sei?” ripeté.
— Sono Orion —risposi ad alta voce.
“Non sei come gli altri.”
— Quali altri?
“Quelli che si chiamano Skorpis. E i loro alleati.”
A quelle parole sollevai il mento. —Alleati? Quali alleati?
“Ti abbiamo già visto prima. Eri qui, e non eri qui.”
— Che cosa significa? Chi sei tu?
Nessuna risposta. Solo un’intensa sensazione di ripugnanza. E poi più nulla. Ero di nuovo solo. Il mio misterioso visitatore se n’era andato.
Mi sedetti a riflettere. Non avevo immaginato quel contatto; era stato reale. Ed era avvenuto lì, in quello spazio-tempo. La voce sapeva degli Skorpis e aveva detto che non erano soli, che avevano degli “alleati”.
— Chi sei? —gridai forte.
Nessuna risposta.
— Io ti ho detto il mio nome; è giusto che tu faccia altrettanto. —Parole che suonarono ridicole alle mie stesse orecchie. Un’entità mi aveva contattato telepaticamente e io pretendevo che seguisse le regole del galateo.
Percepii una vaga presenza divertita, ma forse a causarla era solo la consapevolezza della mia stupidità.
Aspettai, rannicchiato sul pavimento lurido, fino a che il cielo non diventò grigiastro. Poi, accettando la sconfitta, mi alzai e tornai all’accampamento.
Manfred era in piedi davanti all’ingresso e impugnava il fucile.
— Capitano! —esclamò. —Sta bene?
— Certo che sto bene —replicai.
— Abbiamo passato metà della notte a cercarla. Quando è sparito…
— Stavo ispezionando la città —tagliai corto. —Se avessi avuto qualche problema, mi sarei messo in contatto con voi sulla linea d’emergenza.
Alla luce livida dell’alba, l’espressione sul volto di Manfred tradiva disappunto e, insieme, sollievo. —Sì, signore, immagino di sì. Ma aspettavamo il suo ritorno, e quando non l’abbiamo vista… —La voce lo tradì.
Gli posai una mano sulla spalla. —Hai ragione, Manfred. Avrei dovuto avvertirti che intendevo passare la notte in perlustrazione. È colpa mia. Spero che tu non abbia perso troppo sonno per colpa mia.
— No, signore. Sto bene. —Ma guardandolo da vicino, vidi che aveva gli occhi cerchiati.
Dopo che i soldati ebbero fatto colazione, li divisi in squadre al comando dei sergenti: avrebbero perlustrato le rovine e localizzato le postazioni difensive più idonee. Gli ufficiali restarono con me.
— È necessaria una ricognizione alla base degli Skorpis —dissi. —E, se possibile, penetrare all’interno.
Quint scoppiò in una risatina ironica. —Ma certo! Ci presentiamo e chiediamo il permesso di fare un giro!
— Oppure scaviamo un tunnel che ci porti fin lì —propose Frede, sogghignando.
— Ho fatto anche questo, in passato —replicai —ma credo che stavolta non servirebbe.
— Che cosa ha in mente? —volle sapere Quint. Poi aggiunse: —Signore.
Riflettei sull’opportunità di riferire del mio contatto telepatico, ma alla fine decisi di non farne nulla. Non ero sicuro neanch’io di quanto era accaduto. Ma l’ipotesi che gli Skorpis avessero degli alleati all’interno della loro base era troppo importante perché si potesse trascurarla.
— Andrò da solo —annunciai.
— Non può —reagì immediatamente Frede. —Con tutto il rispetto, signore, non può affrontare una missione suicida e abbandonare i suoi uomini al loro destino.
— Non sarà necessariamente una missione suicida, tenente. Non sono completamente pazzo.
Lei non esitò neppure un secondo. —Lasci andare me, allora.
Scossi il capo. —Ho più esperienza di voi in questo genere di operazioni; devo andare io. Se domani al tramonto non sarò ancora tornato, potrete darmi per morto.
Frede avrebbe voluto replicare, ma sapeva che era inutile. Manfred mi guardò come se fossi impazzito. Quint, invece, era quasi sorridente. Se venivo ucciso, avrebbe assunto lui il comando.
Manfred si schiarì la voce. —Potrei sapere, signore, come intende raggiungere la base? Tra queste rovine e il loro accampamento, ci sono almeno un paio di chilometri di spiaggia.
— Aspetterà il tramonto? —domandò Quint.
— Gli Skorpis vedono molto meglio di noi al buio —gli rammentò Frede. —Se abbiamo un qualche vantaggio, sta proprio nella luce del giorno.
— Conta di attraversare la spiaggia in pieno giorno?
Sorrisi. —No, sarebbe come cercare di nascondersi in mezzo a un branco di tirannosauri.
— Tiranno-che, signore?
— Tirannosauri. Rettili carnivori alti circa dieci metri, con denti grossi come il mio avambraccio —spiegai.
Frede mi guardò come si guarda un bugiardo.
— Ma se non può attraversare la spiaggia senza essere visto —riprese Manfred —come farà a raggiungere la base?
— Nuotando.
— Nuotando?
— La loro base si trova lungo la spiaggia, giusto? E ci sono anche dei piloni conficcati in acqua, vero?
— Sissignore, ma…
— Mi tufferò nella baia e lascerò che la corrente mi trasporti verso il mare; dopodiché nuoterò fino alla base.
— Una bella sfacchinata, signore —mi fece notare Manfred.
— Userò il volazaino. Immagino che sia resistente all’acqua.
— Sissignore, ma l’acqua salata è altamente corrosiva e…
— E se nelle acque ci fossero animali simili a quelli che ci hanno assalito nella palude? —domandò Frede.
A questo non avevo pensato. Sospirai. —Dovrò evitarli, oppure ucciderli.
— È un suicidio —ribadì lei con voce atona.
Le indirizzai un sorrisetto secco. —Non sto chiedendo il vostro permesso.