21

Ero un ufficiale, e non un ufficiale dell’esercito regolare. Per questo mi era stato riservato un trattamento di favore: mi era stato concesso di restare sveglio durante il viaggio di ritorno alla base sei del settore.

Sull’astronave c’erano altri ufficiali umani, ma sembrava che mi evitassero deliberatamente. Erano ufficiali di stato maggiore, loro. Forse consideravano inferiore chi combatteva; o forse nel profondo del cuore si vergognavano dei loro privilegi e non desideravano sentirsi ricordare che i fogli di carta che esaminavano ogni giorno… memorandum, diagrammi e requisizioni… erano uomini veri, che sanguinavano e morivano.

Il generale Uxley restò a bordo con noi. Lui era di un’altra pasta: aveva combattuto in prima linea e perduto entrambe le gambe in guerra. Adesso era un vecchio borbottone che beveva troppo e amava chiacchierare fino a tardi. Diventammo amici, in un certo senso. Non avevo difficoltà a bere con lui, dato che il mio metabolismo neutralizzava gli effetti dell’alcol quasi immediatamente. E quasi non avevo bisogno di sonno, soprattutto dopo le giornate di riposo di cui avevamo goduto dopo la conquista di Bititu.

Insieme passavamo intere nottate nella sua stanza, a parlare e a bere il suo liquore preferito. L’addetto Tsihn agli approvvigionamenti si lamentava costantemente di dover usare le limitate provviste della nave per preparare bibite con la macchina per il trasferimento della materia. Uxley lo ignorava.

— Queste dannate lucertole credono di essere le padrone del settore solo perché la loro flotta opera qui —biascicò una sera, mentre come al solito ammazzavamo il tempo bevendo.

Amava raccontare storie di guerra, e la sua memoria migliorava a ogni bicchiere di whisky che ingollava. Purtroppo, dimenticava di avermi già raccontato molte volte quasi tutti i suoi aneddoti preferiti, e la narrazione si coloriva spesso di particolari inediti.

— Sei fortunato —mi disse una sera strascicando le parole, mentre ingollava l’ennesimo bicchiere e riempiva il mio.

— Fortunato? —chiesi stupito.

Uxley fece un cenno di assenso. —Hai combattuto contro quei maledetti ragni. E contro gli Skorpis, prima ancora.

— Non la definirei esattamente una fortuna.

— Non capisci. Non sei stato costretto a combattere contro altri esseri umani. È più facile uccidere gli alieni. Con gli uomini, persino con quei bastardi dell’Egemonia, è più dura, credimi.

Non parlai. Anch’io avevo combattuto contro esseri umani, li avevo uccisi in combattimenti corpo a corpo, con spade e pugnali. Avevo combattuto per i Greci a Troia, per gli Israeliti a Gerico, e in mille epoche diverse sulla Terra ora così lontana.

— Io l’ho fatto —raccontò Uxley, chinandosi su di me. Mi stava così vicino che sentivo il whisky nel suo alito. —È allora che ho perduto queste —concluse, indicando le protesi che sostituivano gli arti inferiori.

— Dev’essere stato doloroso.

— Non si sente dolore. Non all’inizio, almeno. Per via dello choc. Avevo tutte e due le gambe staccate dal corpo ma continuavo a strisciare sul ventre e a sparare contro quei bastardi dell’Egemonia. Sono stati loro a portarmi via le gambe. Avrei voluto ammazzarli tutti. E un bel po’ ne feci fuori, credimi! Quando la battaglia finì, ero circondato da mucchi di cadaveri nemici.

Sorseggiai il mio whisky senza parlare.

— Mi sembra ancora di sentirli —riprese Uxley, e la sua voce diventò poco più di un sussurro. —La sera, quando vado a letto. Sento ancora le grida e i lamenti dei feriti. Ogni notte.

In un’altra occasione sì offrì di mostrarmi la registrazione della cerimonia di cui eravamo stati i protagonisti, così come era stata proposta alla popolazione di Loris e di tutti gli altri mondi della Suprema Alleanza. Scoppiò a ridere nel notare la mia titubanza.

— Non preoccuparti, non dovrai sorbirti di nuovo tutti gli interventi. I media l’hanno tagliata un bel po’.

Non avevo scelta. Sedetti mentre lui ordinava al video di mandare in onda le immagini dell’ultimo notiziario di Loris.

Ed ecco i miei soldati, con indosso le uniformi pulite e stirate consegnateci per l’occasione. Invece che sul molo di carico di un’astronave addetta ai trasporti, sembrava che ci trovassimo su un pianeta simile alla Terra, sotto un cielo azzurro smagliante, con bandiere e stendardi mossi da una brezza leggera. Ed eravamo solo una minuscola unità su una piazza d’armi che ospitava decine di migliaia di soldati… appositamente creati dal computer.

Lanciai un’occhiata al colonnello. —Hanno fatto un bel lavoro, non trovi? —osservò lui.

La banda, un altro esempio di altissima tecnologia, suonava una marcia militare mentre un commentatore indicava la mia unità come il gruppo che “aveva annientato i difensori di un pianeta di straordinario valore strategico in soli quattro giorni.”

“Solo quattro giorni” pensai. “Quattro giorni all’inferno.”

L’intera trasmissione non era durata più di novanta secondi.

— Allora? —fece Uxley.

Sentii la collera montarmi dentro. —Una carneficina trasformata in una storiella zuccherosa —proruppi.

Lui annuì e si versò il primo drink della serata. —Confezionata per accontentare i civili, Orion. Per tenergli alto il morale.

— Davvero?

Mi guardò con i suoi occhi iniettati di sangue. —Ehi, ragazzo, la maggior parte di loro non ricorderebbe neppure che c’è una guerra, se ogni tanto non andassero in onda trasmissioni come questa.

— Perché non scene di combattimento, allora? Perché non fanno vedere alcuni dei filmati girati a Bititu dalle telecamere montate nei nostri caschi? Allora sì che tutti capirebbero che c’è una guerra in corso!

Uxley scosse la testa. —Non vogliono spaventarli, Orion. I grandi pensatori, quelli che stanno in alto, gli psicologi e i politologi… loro non vogliono turbare i civili con immagini di sangue e sofferenza. A loro dicono soltanto che stiamo vincendo, ma che siamo ancora lontani dalla vittoria finale. Dalla luce in fondo al tunnel. Ecco le balle che rifilano ai civili.

— Stronzate.

— Immagino di sì —convenne lui con calma. —Io credevo in questa guerra, Orion. Credevo davvero che fosse importante combattere per la Suprema Alleanza. È per questo che mi sono arruolato. Volontario. Nessuno mi ha obbligato. Ho lasciato la mia famiglia appena finiti gli studi e mi sono arruolato nell’esercito.

— E che cosa ne pensavano i suoi?

Si strinse nelle spalle, e i suoi occhi tristi sembravano scrutare nelle profondità del passato. —Papà ne fu orgoglioso. Mamma pianse. Le mie sorelle pensarono che fossi impazzito.

— E ora? —Evitai di guardargli le gambe.

— E chi lo sa? Non li vedo da anni. Probabilmente faremmo persino fatica a riconoscerci. Sono successe troppe cose, ci siamo allontanati troppo.

— Non le piacerebbe tornare a casa?

Uxley finì il suo whisky in un sol sorso. —L’esercito è la mia casa, Orion. Ormai non ne ho altre. Solo l’esercito.

Un’altra sera parlammo della sua mutilazione.

— Tentarono di rigenerarle, ma qualcosa nel mio metabolismo impedì il processo. Queste gambe di plastica vanno benissimo, però. Posso camminare comodamente e avverto qualche dolore solo se sto in piedi per più di un’ora.

Poi mi raccontò, per l’ennesima volta, come aveva perduto le gambe.

— L’addestramento, Orion. Ecco la cosa più importante. L’addestramento. Non è razionale aspettarsi che un uomo resti al suo posto e combatta quando qualcuno gli spara addosso. Per chiunque sia sano di mente, l’istinto è di fuggire, mettersi in salvo. Un buon addestramento è la chiave di tutto.

— Vale anche per i soldati clonati? —domandai.

— Certo! Sono umani e vogliono vivere, clonati o no. Devono essere addestrati per restare al loro posto e combattere, non per ruggire quando intorno a loro si scatena l’inferno.

— Addestrati anche a uccidere —osservai.

— Naturalmente! Uccidere è importante in guerra. Nessuno ha trovato il modo di vincerne una senza uccidere, e scienziati e computer non bastano.

— Generale, che ne sarà dei miei uomini?

Mi guardò senza capire. —Che cosa ne sarà? —ripeté. —Gli verranno affidate altre missioni, che altro?

— Senza neppure un periodo di riposo? Una licenza?

Uxley si raddrizzò nella sedia. —Stiamo parlando di soldati semplici, Orion. Creati per combattere. Non sono persone vere, come te e me. Noi abbiamo una famiglia, amici e una casa. Loro no. Sono soltanto soldati. Che cosa se ne farebbero di una licenza? Non hanno un posto dove andare, una famiglia da cui tornare. Non hanno una casa, eccezion fatta per l’esercito.

— Lei stesso mi ha detto di essersi allontanato troppo dalla sua famiglia —gli ricordai.

— E con questo? Ce l’ho pur sempre! La troverei lì, se dovessi decidere di tornare a casa. Non è così anche per te?

Esitai, incerto, ma alla fine dissi soltanto. —No, io… io sono orfano.

— Ah, un vero peccato! Ma i tuoi soldati sono solo dei cloni. Li abbiamo creati per combattere, non per mescolarsi alla società civile.

— Nella vita non hanno altro che guerra e addestramento.

Uxley ammiccò. —Ma fanno sesso, giusto?

— Perché qualche psicologo ha stabilito che avrebbero combattuto meglio se i loro istinti aggressivo/protettivi fossero stati enfatizzati da relazioni sessuali. Per voi non significano altro? Un fascio di istinti addestrati e impiegati come armi?

Lo vidi arrossire, turbato. —Da’ retta a un veterano, Orion. Essere un soldato vuol dire alternare lunghi mesi di noia a istanti di profondo terrore. Noi abbiamo eliminato la noia dalla loro vita. Dovrebbero essercene grati.

— Lasciando loro nient’altro che il terrore. Le sembra giusto?

— Giusto? —Il rossore sul suo viso si accentuò. Non capivo se stesse per esplodere in una sonora risata o in un accesso di collera. —Giusto? Siamo in guerra, ragazzo! Abbiamo bisogno di tutti i soldati che possiamo creare! E al costo più basso. Non possiamo preoccuparci anche dei loro sentimenti. Servirebbe solo a renderli più deboli, vulnerabili e a diminuirne la capacità di combattere.

Mi sforzai di fargli vedere i soldati come esseri umani. Umani come lo era lui, o come credeva di essere. Ma fu inutile. Ne discutevamo ogni notte, ma Uxley arrivava sempre alla stessa conclusione: —Sono stati creati per combattere. Altrimenti, non sarebbero stati creati affatto. Dovrebbero esserci grati per la vita che gli abbiamo dato e per l’opportunità di servire la Suprema Alleanza.

“Già” pensai. “Proprio come io dovrei sentirmi grato per aver ricevuto una vita dopo l’altra, e tutto per il privilegio di servire Aton e gli altri Creatori.”

— Quale sarà la loro prossima missione? —gli domandai una sera.

Uxley si strinse nelle spalle. —Al quartier generale non hanno ancora deciso. O, almeno, io non sono stato informato.

— Non verranno riaddestrati durante il sonno crionico?

— Per quel che ne so, non ancora.

Cominciai a farmi domande. E a pensare. Dopo aver salutato il generale, sdraiato sulla mia branda riflettevo su ciò che mi aveva detto il Radioso e su quanto avevo visto con i miei occhi in questa era, in quest’epoca di guerra interstellare, in questa battaglia tra gli stessi Creatori.

Il Radioso aveva detto che Anya mi aveva rinnegato, aveva rinnegato la forma umana, e ora era la sua principale avversaria. Io ero programmato per credergli, e nondimeno il dubbio mi logorava. Anya e io ci eravamo amati attraverso i secoli, in ogni era in cui ero vissuto. Perché avrebbe dovuto cambiare proprio adesso?

Il Radioso aveva aggiunto che se l’avessi trovata, Anya mi avrebbe ucciso con la stessa facilità con cui un uomo schiaccia un insetto molesto. E che lui non mi avrebbe riportato in vita; forse perché non ne sarebbe stato in grado, o forse perché non lo avrebbe voluto.

“Molto bene” pensai. Se avessi trovato Anya e scoperto che le parole di Aton rispondevano a verità, ebbene, sarei stato ucciso e quella sarebbe stata la fine di tutto. La fine di ogni sofferenza. La fine di tutte le speranze e di tutte le angosce. La fine dell’amore.

E se invece Aton mi aveva mentito? Se Anya mi amava ancora e mi voleva con lei? Che follia restare al servizio del Radioso. Sì, decisi; dovevo andare a cercarla.

Amore o morte. Non c’erano alternative.

Cominciai a elaborare un piano.

Ma, scoprii, anche il Radioso aveva dei progetti per me.

Una volta alla base sei del settore, decisi di assistere allo scarico delle capsule contenenti i miei soldati. Volevo cominciare ad addestrarli per la missione che avevo in mente e dovevo trovare il modo di inserirmi nei computer che in quella base programmavano i sistemi di addestramento durante il sonno.

Ma avevo appena cominciato a giocherellare con il mio personal computer, quando Aton ricomparve. Un attimo prima, ero alla mia scrivania e subito dopo sedevo sull’erbosa collina che sovrastava la città dei Creatori. Il sole splendeva caldo, una leggera brezza marina agitava i cespugli fioriti. Guardando le onde che andavano a infrangersi sulla riva, pensai ai delfini che mi erano amici.

Una sfera dorata mi comparve davanti, accecante nel suo splendore, costringendomi a coprirmi il volto e ad accasciarmi sulle ginocchia.

— Così va meglio, Orion —disse la voce arrogante di Aton. —La posizione appropriata a un adoratore.

Quando alzai lo sguardo, il Radioso aveva assunto sembianze umane, ed era in piedi davanti a me nella sua uniforme immacolata.

— Ti sei comportato egregiamente a Bititu —commentò.

— È stata una carneficina.

— Ma necessaria.

— Perché?

— Mi stai dicendo che non ci sei ancora arrivato, Orion? Tu, che pretendi di essere pari ai tuoi Creatori? Tu che trami nell’intento di trovare la dea di cui sei tanto innamorato? Perché la Suprema Alleanza dovrebbe volere Bititu?

Era solo un ammasso roccioso, mi dissi. Quindi, il suo valore doveva essere di natura strategica. Ma nel sistema di Jilbert non c’era altro che quella stella nana ormai morente, un unico, gigantesco pianeta gassoso che le orbitava intorno e i resti di altri asteroidi, piccoli ammassi di roccia e metallo…

Cercai gli occhi dai riflessi dorati di Aton. —C’era un altro pianeta nel sistema. E tu l’hai distrutto.

— Altri due —mi corresse. —Li abbiamo distrutti entrambi.

— A prezzo di quante vite?

Si strinse nelle spalle, incurante. —L’Egemonia aveva stabilito delle colonie su quei mondi e li stavano trasformando in potenti basi militari.

— Ma che cosa minacciavano? —domandai. —In quel settore non c’è un mondo della Suprema Alleanza per almeno cento anni-luce, se non di più.

— E dunque? Rifletti, Orion —mi sfidò.

L’unico pianeta del sistema di Jilbert era il gigante gassoso, un enorme mondo blu avvolto di nubi sotto le quali i gas si condensavano in liquidi a causa della massiccia gravità. Un oceano grande quanto un pianeta. D’acqua, probabilmente.

Allora capii. —Gli Antichi.

Aton applaudì. —Bravo, Orion! Il gigante di gas nel sistema di Jilbert è un mondo su cui gli Antichi vivono da tempi immemorabili. Forse è addirittura il loro pianeta d’origine.

— L’Egemonia vi aveva installato delle basi nel tentativo di stabilire un contatto con gli Antichi.

— E per impedire a noi di fare altrettanto —aggiunse il Radioso.

— E ora che l’abbiamo scacciata dal sistema, tu vuoi tentare di raggiungere gli Antichi.

Aton mi spronava come un paziente insegnante. —È così. E dato che tu sei l’unico con cui gli Antichi hanno accentato di parlare…

— Vuoi che cerchi di contattarli di nuovo —conclusi io.

— Esatto.

La mia mente lavorava a pieno regime, sforzandomi di inserire il nuovo elemento nel mio piano senza far capire ad Aton quale fosse il mio vero obiettivo.

— In tal caso, avrò bisogno di una nave e di uomini.

— Posso mandarti laggiù molto più leggero.

— Lasciandomi in balia di un oceano sconfinato, in attesa, e senza averne la certezza, che gli Antichi si degnino di parlarmi? —replicai. —Posso respirare l’atmosfera di quel pianeta? I pesci che popolano le sue acque sono commestibili?

Lui annuì. —Capisco a che cosa stai mirando, Orion. Vuoi che i sopravvissuti della tua squadra d’assalto vengano riaddestrati per venire con te. È toccante questa tua lealtà verso simili creature.

— Sono esseri umani —lo corressi.

— Sono soldati. Armi. Niente di più.

— I tuoi antenati —volli ricordargli.

La sua risata era piena di sarcasmo. —Non diversamente dai topiragno, Orion. La coscienza ti rimorde anche per loro?

E senza darmi il tempo di rispondere svanì. Ero di nuovo nella mia stanza, chino sul computer.

Digitai alcuni tasti e le informazioni che avevo richiesto comparvero sul video: al comando di una navetta da ricognizione sarei tornato nel sistema di Jilbert e lì avrei contattato gli Antichi per invitarli a entrare a far parte della Suprema Alleanza.

Mi assicurai che ai miei uomini venissero forniti tuti i dati necessari alla missione, e io stesso passai gran parte del tempo nel centro di addestramento, con una serie di elettrodi collegati alla testa, mentre il computer mi bombardava di informazioni. Era forse in quel modo che Aton mi aveva preparato alle varie missioni attraverso lo spazio-tempo?

Di lì a una settimana, i miei soldati erano tornati in vita e la nostra nave era arrivata: sottile, a forma di disco, si chiamava Apollo. Un nome che non suonava gradito alle mie orecchie: proprio nelle sembianze di Apollo, il Radioso si era presentato ai Greci e ai Troiani ammutoliti dal terrore. Ma a parte questo particolare, scoprii che la navetta era dotata di ogni comfort e che l’addestramento aveva trasformato i miei soldati in una squadra efficiente e abile.

Frede era ancora comandante in seconda nonché ufficiale addetto alla navigazione. Jerron era ingegnere-capo. Soldati semplici, che a Lunga e Bititu erano stati solo carne da macello, adesso erano ufficiali, addetti a settori quali armamenti, logistica e servizi medici. Parlavano con ironia di quegli avanzamenti, ma prendevano con molta serietà i nuovi doveri.

E nessuno trascurò di venire a ringraziarmi per aver migliorato le loro posizioni. Emon, l’addetto agli armamenti, fu quello che espresse forse in modo migliore la sua riconoscenza: —Più a lungo resteremo con lei, signore, meglio staremo. Se sopravviviamo anche questa volta, cioè.

E credo che parlasse sul serio.

Passammo due giorni a coordinare i robot addetti alle operazioni di carico; quindi lasciammo la base sei del settore diretti al sistema di Jilbert.

Solo che non ci arrivammo mai.

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