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Noi uomini siamo creature diurne: dormiano col buio e siamo attivi nelle ore del giorno. Gli Skorpis, stando al rapporto in mio possesso, discendevano dai felini e avevano perciò abitudini notturne. Una ragione di più per non comprendere il motivo del nostro atterraggio notturno. Una ragione di più per credere che Manfred avesse ragione; il prossimo attacco da parte degli Skorpis avrebbe avuto luogo di notte.

Non volevo farmi cogliere impreparato, ma mi trovavo di fronte a un grosso dilemma. Se avessi messo un maggior numero di uomini a guardia del perimetro, ne sarebbero rimasti ben pochi a montare il ricetrasmettitore, senza il quale non avremmo potuto mettere in funzione le armi pesanti e i sensori di cui avevamo bisogno per rendere la base ragionevolmente sicura.

Disponevamo di un solo tipo di arma pesante: il paio di laser antimissili che, una volta montati, avevano una gittata sufficiente a proteggerci dalle testate nucleari. Almeno, stando a quanto era scritto sul rapporto. Rabbrividii al pensiero che contro di noi venissero usate armi nucleari, ed evidentemente l’alto comando condivideva i miei timori: ecco il perché del sistema antimissilistico. Avevamo ricevuto ordine di allestirlo immediatamente ed eravamo stati ben felici di metterci all’opera.

Alla fine decisi di rischiare, e assegnai il maggior numero di soldati, ossia circa la metà, all’opera di installazione. Di più non avrebbero fatto che intralciarsi l’un l’altro. Gli altri furono assegnati alla sorveglianza del perimetro difensivo.

Anch’io ne percorsi più volte il tracciato, studiando il paesaggio e cercando di individuare postazioni favorevoli. Se non fossi stato tormentato da mille timori, forse avrei potuto persino godermi quello splendido pomeriggio. La foresta era bella, gli alberi alti e con i fusti dritti, e il sole filtrava attraverso le fitte chiome disegnando sul terreno macchie luminose. Uccelli variopinti saltavano tra i rami, gli insetti ronzavano. Vidi persino un animaletto coperto di pelliccia attraversare il terreno erboso e inerpicarsi su un tronco. Troppo piccolo per essere uno dei lemuri di cui aveva parlato l’Intelligence, pensai.

Non vedevo segni degli Skorpis o di altri nemici. Non un generatore disattivato, né impronte sul terreno. Molti alberi recavano segni sulla corteccia, ma questo si poteva facilmente spiegare. C’era stato uno scontro armato, e quelle erano certamente le bruciature delle pistole laser. Per le tracce che avevano lasciato, gli Skorpis avrebbero potuto anche non esistere.

Poi però notai qualcosa che attrasse la mia attenzione: un canale largo e dalle acque basse che, diramandosi da un torrente vicino, scorreva proprio verso il centro della nostra base. Un percorso naturale che arrivava al cuore del nostro accampamento. Un battaglione poteva procedere carponi lungo quel canale senza essere individuato, soprattutto di notte e con una battaglia in corso. Doveva essere tenuto d’occhio e bloccato.

O forse no. Cominciai a chiedermi se gli Skorpis avessero già effettuato un giro di ricognizione della zona. Forse, quando avessero attaccato —quella notte stessa, se Manfred aveva ragione —avrebbero mandato una squadra a esplorare. E, se lo avessero trovato indifeso, lo avrebbero usato per irrompere all’interno del campo e distruggere le nostre difese.

Questo era ciò che avrei fatto al loro posto; ma come potevo trasformare il canale in una trappola?

Tornai sui miei passi, una ridda di pensieri che mi affollava la mente.

I mie tre tenenti erano scettici.

— Invitarli noi stessi, in pratica. —L’ansia rendeva stridula la voce del tenente Vorl. —E poi lasciarli penetrare nel campo?

Eravamo nella mia tenda, accosciati sul pavimento di plastica come quattro membri di una tribù del Neolitico. Ancora una volta, fui colpito dalla somiglianza tra gli ufficiali. Capelli color sabbia, occhi azzurro cielo. Avevano la pelle leggermente abbronzata, quasi dorata, il risultato di una mescolanza di tutte le razze esistenti sulla Terra. Vorl e Frede potevano essere sorelle. Quint, il comandante in seconda, loro fratello.

— Non abbiamo abbastanza uomini per difendere la base —le feci notare. —E ci vorranno ancora sei ore per rendere operativo il ricetrasmettitore. Se riusciamo a catturare la maggior parte di loro e ad annientarli, forse resteremo in vita quanto basta per farlo funzionare.

— E i rinforzi? —domandò Quint.

Mi voltai verso Vorl, l’ufficiale addetto alle comunicazioni.

— Niente rinforzi —spiegò la donna con un’espressione accigliata. —Ho inoltrato la nostra richiesta all’ammiraglio e quella dannata lucertola l’ha respinta.

— Dobbiamo resistere fino a quando il ricetrasmettitore non comincerà a trasportare qui le armi pesanti —ripetei, forse per la ventesima volta.

— Ma “invitare” il nemico a utilizzare quel passaggio… —Il tenente Vorl rabbrividì.

— Sono d’accordo —assentì Quint. —Va contro la procedura tattica standard.

— Tenente Frede, qual è la sua opinione? —domandai.

La donna scosse il capo e tacque.

— Bene —ripresi. —Tre contrari e uno favorevole. Seguiremo il mio piano.

Sembrarono sorpresi, quasi incolleriti, ma incassarono senza mugugnare. Dedicammo le ultime ore della giornata a preparare il perimetro difensivo e a minare il canale. Piazzai alcuni fucili automatici a circa un terzo della lunghezza del canale, giusto per dare al nemico l’impressione che non fosse del tutto indifeso. Non volevo però che scoprissero che erano caduti in una trappola fino a quando non fosse stato troppo tardi per darsi alla fuga. In fondo, a una cinquantina di metri dal ricetrasmettitore, piazzai dieci degli uomini migliori, agli ordini del sergente Manfred. Se il nemico si fosse spinto fin là, sarebbero stati in grado di tenerlo impegnato fino al nostro arrivo.

Fummo costretti a bloccare i lavori di assemblaggio non appena fece buio. La sorveglianza doveva essere incessante e non volevo che le luci utilizzate per lavorare servissero al nemico per intercettarci. Non che avessero bisogno di illuminazione per questo. Grazie ai loro antenati felini, gli Skorpis vedevano abbastanza bene al buio.

Ma, almeno, avevamo montato e reso operativi i laser antimissili. Se il nemico avesse tentato di sorprenderci con un attacco missilistico, saremmo stati pronti ad accoglierlo. O almeno lo speravo.

L’attesa era spossante. La notte era buia; non c’era luna e una fitta coltre di nubi faceva da scudo al bagliore delle stelle. Gli insetti erano tornati alla carica, tempestandoci di punture. Gli uccelli notturni emettevano strani richiami a intervalli regolari. Di tanto in tanto, si udiva qualche ululato.

Nessun animale più grande di un lemure era stato identificato su Lunga, rammentai a me stesso. Ma quegli ululati sembravano provenire da bestie decisamente più grosse dei lemuri.

Ci grattavamo le punture, borbottavamo qualcosa tra i denti e aspettavamo.

Io mi ero rannicchiato in una trincea poco profonda sulla destra del canale, con la tuta addosso e il fucile appoggiato su un monticello di terra davanti a me. La retina assicurata alla cintura era piena di granate e confezioni di polvere. La pistola mitragliatrice mi premeva contro il fianco e avevo un pugnale infilato nello stivale. Ripensai a quello donatomi da Ulisse; mi mancava la sua presenza rassicurante, anche se mi sarebbe stato di scarsa utilità sotto la tuta.

Attraverso i sensori della visiera, la foresta appariva tranquilla. Nessun segno del nemico. Vidi un lemure, o un animale simile, arrampicarsi pigramente sul tronco di un albero, fermarsi a guardare nella mia direzione con gli occhioni sgranati, e quindi riprendere la sua corsa fino a scomparire tra il fitto fogliame.

“Devono attaccare questa notte” mi dissi. “Vogliono mettere fuori uso il ricetrasmettitore prima che funzioni. Non ha senso che aspettino fino a…”

— Movimenti sospetti nel quarto settore —bisbigliò al microfono uno dei sergenti.

Era la zona alla mia sinistra. Lanciai un’occhiata oltre il canale: nulla.

Ma nel voltarmi, intravidi qualcosa muoversi tra gli alberi, proprio di fronte a me. “Sono lì” pensai “pronti ad attaccarci.”

E se avessero usato armi nucleari? Quella possibilità mi aveva tormentato per tutto il giorno. I componenti del ricetrasmettitore erano protetti e non sarebbero stati danneggiati neanche da esplosioni ravvicinate. Le nostre tute erano in grado di assorbire le radiazioni, ma una granata nucleare ci avrebbe uccisi quasi tutti in pochi secondi, permettendo così al nemico di avanzare e smantellare la stazione. Non avevamo difese contro armi nucleari tattiche.

E neppure ne possedevamo. La nostra missione era principalmente logistica, e non prevedeva azioni di attacco. Se qualcuno avesse cominciato a lanciare granate nucleari, sarebbe stato il nemico, e per noi sarebbe stata la fine.

Notai altri movimenti tra gli alberi. Certo, noi avevamo i laser telecomandati in grado di intercettare un missile e distruggerlo in alcuni microsecondi. Ma sarebbero riusciti a farlo attraverso il fitto reticolato formato dalle chiome degli alberi? E intercettare una granata a breve distanza e distruggerla? Ne dubitavo.

All’improvviso, tutto si illuminò e un boato scosse la terra. I sensori della mia visiera, sovraccaricati, smisero di funzionare, ma gli occhi mi bastarono per vedere le granate a razzo lanciate contro di noi, rasenti il terreno. I nostri laser risposero, colpendone molte e facendole esplodere in aria come fiori di fuoco.

Tutti i sergenti si misero immediatamente in collegamento con me. Gli Skorpis ci stavano attaccando su circa la metà del perimetro, andando a mettersi proprio sulla nostra linea di tiro.

E ora stavano colpendo anche il mio settore. Uscivano a frotte dalla foresta, sparando ed emettendo spaventose grida di battaglia. Presi il fucile e risposi al fuoco. Erano esseri enormi, persino visti a distanza, con muscoli possenti e occhi da gatto che brillavano sinistri tra i bagliori delle armi.

Mi chinai a regolare il dispositivo antimissile che avevo al polso, in modo che i raggi laser colpissero orizzontalmente. I miei uomini ne sapevano abbastanza per restare incollati al suolo. E intanto gli Skorpis avanzavano inesorabilmente. Vidi corpi divisi a metà, teste scomparire in una nube di vapore, alberi in fiamme. Per un momento l’avanzata parve arrestarsi.

Li tempestammo di granate e vidi il terreno intorno a loro sgretolarsi. Ma non cedevano. Strisciando sugli addominali, continuavano a muoversi verso di noi, incuranti di chi restava indietro, morto o orribilmente ferito. Un’ondata inesorabile e inarrestabile.

E l’allarme che avevo all’altro polso si era attivato. Guardando alla mia sinistra, vidi che i fucili laser telecomandati avevano intercettato qualcosa su cui sparare. Intere squadre di Skorpis stavano scivolando lungo il canale, proprio come avevo previsto. L’attacco alla nostra postazione era stato solo un’azione diversiva.

Un’azione puramente diversiva. Uomini e Skorpis cadevano attorno al perimetro del campo. La foresta era in fiamme. I razzi tagliavano l’aria. Esplosioni violente scuotevano il terreno. I raggi laser lampeggiavano ovunque, in un assurdo fuoco incrociato. Le grida dei miei soldati si mescolavano a quelle disumane degli Skorpis.

E il loro contingente più numeroso stava percorrendo il canale. Avevano superato la barriera delle armi telecomandate ed erano convinti di essersi lasciati alle spalle la difesa nemica. Si muovevano con maggiore rapidità, ora, strisciando sulle ginocchia, in direzione del punto in cui Manfred e i suoi dieci uomini li aspettavano.

Premetti il pulsante collegato alle mine; l’intero canale esplose in una fiammata e cominciò a eruttare polvere e pietre. Vidi corpi smembrati saltare in aria e stagliarsi contro le fiamme che divoravano gli alberi.

Per un istante, fu la quiete. Oppure era stato il tremendo boato della detonazione a rendermi sordo?

— Eccoli di nuovo! —Sembrava la voce del tenente Vorl, appostato a metà strada tra il perimetro e me. Altri Skorpis avanzavano verso la mia postazione, tenendosi chini per evitare i raggi laser. Avanzando, tuttavia.

— Indietreggiare! —gridai al microfono. —Indietreggiare e restringere il perimetro. —Dovendo coprire un raggio inferiore, avremmo potuto intensificare il fuoco.

Per quella che mi parve un’eternità, continuammo a indietreggiare mentre gli Skorpis avanzavano. Il loro numero sembrava sterminato. Ne vidi centinaia smembrati a terra, tuttavia continuavano la loro marcia inarrestabile. Il fucile, ormai incandescente, non funzionava più. Lo buttai da una parte e afferrai la mitragliatrice.

— Ci pisci! —mormorò un soldato al mio fianco. Anche lui doveva avere problemi con il fucile.

— Ci pisci sopra! —ripeté. —Signore.

Dopodiché passò a dimostrarmi quello che intendeva. Mentre i raggi dei laser quasi ci sfioravano la testa, estrasse il pene dalla tuta e orinò sulla canna della pistola. Poi si appiattì sul ventre e riprese a sparare.

— Serve a raffreddarla —spiegò, senza distogliere lo sguardo dal nemico che avanzava. —Un vantaggio che abbiamo sulle donne, signore.

Fu con un certo imbarazzo che lo imitai, ma il fucile riprese a funzionare.

Piano piano, stavamo arretrando verso il centro del nostro campo. Gli Skorpis, evidentemente, erano pronti a sacrificarsi fino all’ultimo uomo pur di distruggerci. Non era una battaglia di logoramento, quella; si combatteva per fare tabula rasa. O noi, o loro.

Come ogni battaglia, tuttavia, ebbe una tregua. Eravamo indietreggiati fino a formare un cerchio compatto attorno al campo. La maggior parte delle tende erano ridotte a brandelli e i laser antimissili erano stati ripetutamente colpiti, ma gli schermi che circondavano il ricetrasmettitore non avevano subito danni. Fino a quel momento, almeno. I numerosi incendi divampati tra gli alberi a ridosso del campo si stavano lentamente spegnendo, lasciando nell’aria un fumo denso e acre.

Chiamai i tenenti per controllare le nostre rispettive posizioni. Ci incontrammo in un cratere aperto nel terreno da una granata. Le perdite erano ingenti, ma le nostre armi funzionavano ancora. Avevamo buone scorte di polvere, ma le bombe erano quasi finite.

— Faccia un rapporto della situazione al comandante della flotta —ordinai al tenente Vorl. Lei rimboccò una manica della tuta e cominciò a digitare sulla tastiera che aveva al polso.

— Il ricetrasmettitore è ancora intatto —ripresi —ma non possiamo arretrare di più. Sono troppo vicini; a questo punto basterebbe quasi una bomba a mano per colpirlo.

— Gli schermi lo proteggeranno —osservò il tenente Quint.

— Ma non proteggeranno noi —rilanciò Frede.

— Manca un’ora o giù di lì all’alba. —Era stato Quinta parlare. —Secondo l’Intelligence, gli Skorpis si ritirano quasi sempre con la prima luce.

— E l’Intelligence fino a ora ha avuto ragione, vero? —commentò Frede.

— È quel “quasi sempre” che mi preoccupa —ammisi io. —Gli Skorpis sembrano intenzionati a combattere fino all’ultimo uomo.

— Nostro o loro?

— A chiunque tocchi per primo.

Un raggio laser ci passò sulla testa, subito seguito dall’esplosione di una granata.

— Ricominciano.

Vorl tornò all’argomento della nostra conversazione. —Signore, ho difficoltà a mettermi in contatto con la flotta. Ci sono interferenze su tutti i canali disponibili.

— Disturbi intenzionali?

— È possibile. Oppure qualcosa non va nelle nostre apparecchiature.

— Splendido! —mormorai io. —Proprio quello che ci voleva! Perdere il contatto con la flotta.

Ancora spari. Ma nessuno dei sergenti si fece vivo, e mi convinsi perciò che non stesse accadendo nulla di troppo grave. Non ancora.

— Per quanto tempo ancora riusciremo a tenerli lontani? —domandò Quint.

— Fino a quando dovremo —rispose Frede.

Mi rivolsi a Quint —Ha qualcos’altro in mente?

Mi guardò con un’espressione strana, tra l’ansia di fare e il timore. —Il morale delle truppe è ancora alto, signore. Per tutta la notte non abbiamo fatto altro che massacrare quei bastardi, ma, se continuiamo a starcene qui seduti, i ragazzi finiranno con lo scoraggiarsi. Soprattutto se gli Skorpis non si ritireranno all’alba.

— Che cosa sta cercando di dirmi?

— Credo che dovremmo contrattaccare, signore. Le battaglie si vincono grazie all’impeto, non solo con la tattica. Attaccarli, costringerli ad arretrare e massacrarli, ecco quello che dovremmo fare!

— Si vive più a lungo difendendosi —osservò Frede. —Attaccare significa maggiori perdite.

— E noi non abbiamo la più pallida idea di quanti Skorpis ci siano ancora là fuori —puntualizzò Vorl. —Potremmo trovarcene davanti a milioni.

— È proprio questo il punto —dissi. —Non sappiamo ancora contro chi stiamo combattendo, quanti siano i nemici e quali siano le loro intenzioni.

Tre bombe esplosero vicinissime a noi, scaraventandoci a terra.

— Eccoli di nuovo in azione! —gridò uno dei sergenti.

Non era più il tempo di discutere. Il nemico aveva risolto la questione per noi. Ci allontanammo carponi dal cratere per raggiungere strisciando le rispettive squadre, o ciò che ne era rimasto. Gli Skorpis attaccavano di nuovo; si avventavano contro le nostre armi lanciando le loro odiose grida di guerra. Noi sparammo, sparammo, sparammo, spiccando teste dal busto, dilaniando corpi… ma non si fermavano.

Il cielo cominciava a schiarirsi, anche se io ero troppo preso per accorgermene. Nuvole di fumo e polvere oscuravano i primi segni dell’alba.

La mia mitraglietta, alla fine, si scaricò. Non c’era tempo per cambiare il caricatore, perciò afferrai la pistola e la puntai senza esitare contro l’enorme guerriero che mi si slanciava addosso. Il raggio laser attraversò la corazza, poi il corpo, ma l’impeto era tale che quasi rovinò su di me, travolgendomi.

Ormai era una lotta corpo a corpo. Estrassi il pugnale da combattimento, trenta centimetri di micidiale acciaio seghettato, ed ecco che mi sentii di nuovo Orion, il guerriero primitivo, che maciullava, infrangeva e dilaniava i nemici. Il mondo si dissolse in una nebbia rossastra, mentre continuavo ad assestare colpi agli Skorpis che avanzavano.

Erano creature enormi, con braccia lunghe più della circonferenza del mio torace, spalle smisurate e volti dai tratti felini, in quel momento alterati da smorfie di dolore, rabbia e odio. La loro armatura, concepita per riflettere i raggi laser, era troppo leggera per fermare i colpi del mio pugnale. Miravo con la pistola agli occhi, se non altro per accecarli, e poi gli affondavo il pugnale nella gola o direttamente nel cuore.

Reagivano, ma io vedevo la lentezza con cui le loro mani gigantesche si chiudevano intorno alla pistola. Vedevo la nuova fissità dei loro occhi, li vedevo vacillare e tentare di sottrarsi alla mia ferocia. Invano.

Quattro di loro mi stavano caricando, mirando con le pistole laser alla mia armatura. Ne colpii uno alla gola, poi mirai alla visiera di un altro. Squarciai il calcio della pistola al terzo e detti un calcio in pieno petto all’ultimo, facendolo barcollare all’indietro. Il secondo si sollevò la visiera e fu allora che lo colpii agli occhi. Poi sparai alla testa del terzo che, con la mano dilaniata, tentava affannosamente di afferrarmi il polso.

L’ultimo puntò la pistola contro di me. Doveva essere scarica, perché la lanciò in aria e io la vidi volteggiare oltre una nube di polvere e fumo. Con un grido soffocato, il gigante si scagliò contro di me, afferrandomi per la gola. Indietreggiai e mirai al collo. La sua testa cominciò a girare come una trottola, poi crollò bocconi. Prima che potesse fare un altro movimento, gli saltai sulla schiena e affondai il pugnale nell’armatura, fino al cuore.

Scattai di nuovo in piedi e mi guardai attorno. Era tutto finito. Non c’erano più Skorpis da uccidere. Ero solo, circondato da corpi enormi e senza vita, e in mano il pugnale da cui sgocciolava sangue denso e scuro.

Aprii e chiusi gli occhi più volte, i sensi ancora sovraeccitati e ogni molecola del corpo tesa ad anticipare altri pericoli, ogni atomo del mio essere ancora avido di morte. Un’avidità che mi era stata deliberatamente installata; ero un essere creato per uccidere. Per la terza volta mi guardai intorno, ma non c’erano più nemici.

Restava una manciata dei miei uomini. Quelli che ancora si reggevano sulle gambe mi guardavano a bocca aperta, come si guarda un’apparizione. Un eroe. Un mostro.

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