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Ricevetti le istruzioni mentre radunavo i miei uomini e li guidavo verso le navette da sbarco. Un fiume di dati e immagini affluì direttamente nel mio cervello… opera del Radioso, anche questo. Mi stava riferendo telepaticamente tutto quello che avevo bisogno di sapere per eseguire i suoi ordini. E niente di più.

Il nome del pianeta era Lunga. L’area prescelta per l’atterraggio era nella giungla, e il terreno paludoso, ideale per gli attacchi nemici, ci avrebbe reso difficile ricevere aiuti dall’astronave. C’erano oceani sterminati, aspre catene montuose, e nessuna forma di vita intelligente. La specie più elevata di esseri viventi era rappresentata da animali notturni che abitavano sugli alberi, e grandi più o meno come lemuri.

I nemici erano di forma umanoide, ma di dimensioni superiori alle nostre. Alti mediamente due metri e mezzo e di struttura fisica robusta. Non erano tanto soldati professionisti quanto guerrieri nomadi. Si facevano chiamare Skorpis, che nella loro lingua significava “nati per la guerra”. Luogo di provenienza; ignoto. Motivo della loro alleanza con i nostri nemici: ignoto. Avevano iniziato la costruzione di una base a Lunga, ma il perché non mi era stato spiegato. Nelle mie istruzioni non figurava neppure il valore strategico del pianeta. Il mio compito, come Aton aveva detto, era di installare il ricetrasmettitore e difenderlo. O morire.

Salimmo a bordo delle navette divisi in gruppi, ciascuno composto da venticinque unità, fra uomini e donne, equipaggiate con tute mimetiche e armate fino ai denti. Nel silenzio più assoluto entrarono negli angusti compartimenti delle navicelle. Avevano tutti un’espressione tesa, le labbra serrate, ed eseguivano gli ordini cercando di non far trapelare la paura.

Ma, prevedibilmente, qualche battuta non mancò. Alcuni tra i ragazzi cercavano di mascherare la tensione tentando patetici scherzi.

— Com’è che tocca sempre a noi andare? Perché non mandano qualche altra squadra?

— Perché noi siamo tutti eroi, non lo sapevi?

— Già. Avremo tutti una medaglia per il nostro eroismo —commentò un altro con amarezza.

— Che c’è, soldato? L’esercito non ti piace?

— Sai come si dice: “Bisogna esserci nati”.

A quell’ultima battuta, scoppiarono tutti a ridere, anche quello che si era lamentato. Ma la loro risata suonò amara alle mie orecchie.

— Ora basta, bastardi! —abbaiò il sergente. —Ai vostri posti! Questo non è un viaggio di piacere.

Ragazzi. Fisicamente, non sembravo molto più vecchio di loro, ma io sapevo di aver vissuto molte vite, di essere morto e poi tornato in vita. Gli Skorpis erano nati per la guerra, giusto? E così io. Aton mi aveva creato per essere un guerriero, un cacciatore, un assassino.

Lo stesso valeva per quei giovani, stando alle istruzioni che lo stesso Aton mi aveva dato. Clonati da antenati morti da tempo, tenuti in gestazione in uteri artificiali, fin dall’infanzia erano stati addestrati a essere soldati e niente altro. Erano cresciuti in campi militari, senza mai venire a contatto con la società civile che dovevano difendere. Conoscevano solo la guerra, e i brevi periodi di addestramento fra una missione e l’altra.

Alcuni degli ufficiali più anziani erano stati concepiti naturalmente, all’interno di famiglie normali, e si erano arruolati di propria volontà. Ma pochissimi, anche tra quelli di grado più elevato, avevano una casa e una famiglia che non fosse l’esercito. Come me, erano stati creati per combattere fino alla morte.

Ricordai il Contingente Sacro dell’antica Tebe, composto da soldati che preferivano perire in battaglia piuttosto che abbandonare i compagni. E in battaglia erano morti, fino all’ultimo uomo, quando i Macedoni di Filippo li avevano affrontati nella battaglia di Cheronea. Io ero lì, con Filippo e suo figlio Alessandro. Avevo preso parte alla carneficina.

E questi giovani? Avrebbero anche loro combattuto fino all’ultimo uomo… o all’ultima donna? Ripensai alle parole che un vecchio generale aveva rivolto ai suoi uomini: “Il vostro compito non è morire per il vostro paese. Il vostro compito è far sì che un altro povero figlio di puttana muoia per il ‘suo’ paese”.

Il mio compito era fare in modo che quei giovani vincessero le loro battaglie con il minor numero possibile di perdite. Non li conoscevo, almeno non singolarmente, ma ero deciso a essere un buon comandante. Ci sarei riuscito, o li avrei mandati tutti a morire?

Il momento della verifica si avvicinava in fretta. La nostra navetta fu espulsa dalla piattaforma di lancio dell’astronave, e il contraccolpo ci schiacciò con violenza contro i sedili imbottiti di liquido. Non c’erano finestre, né schermi all’interno del piccolo velivolo; solo le oscillazioni del volo ipersonico e poi l’improvviso choc dell’impatto con l’atmosfera, e il suo attraversamento, rapido come la traiettoria di una meteora.

L’intera squadra taceva, ora. La tensione era al massimo. Il nemico aveva scagliato missili nucleari contro la nostra flotta. Il piano prevedeva che atterrassimo sull’altra faccia del pianeta, lontano dall’unica base avversaria, ma se ce ne fossero state altre che i nostri detector non avevano localizzato? Avevamo fatto piazza pulita dei loro in orbita attorno al pianeta, ma se le loro navi ci avessero intercettato? Sarebbe bastato un solo raggio laser o un missile per far esplodere la nostra navetta. E noi con essa.

— Ci stiamo avvicinando alla zona di lancio —annunciò una voce dalla cabina di comando, poco più di un sussurro attraverso gli auricolari del mio casco.

La navetta vibrava, a mano a mano che penetrava l’atmosfera, e per il calore il suo guscio era diventato rosso incandescente. Mi alzai, incerto sulle gambe per i continui scossoni.

— In piedi! —urlò il sergente. Conoscevo il suo nome. Si chiamava Manfred ed era un veterano, un tipo duro, capace di forgiare il suo drappello in un’unità pronta a seguirlo ovunque senza fare domande e al cui interno ciascuno si prendeva cura dei suoi compagni, in guerra come durante gli addestramenti.

I tenenti viaggiavano a bordo delle altre tre navette. Il nostro piano prevedeva l’individuazione di quattro aree di atterraggio in una zona priva di vegetazione e la formazione di quattro squadre che avrebbero proceduto a installare la stazione, mantenendo intorno a essa una cintura difensiva.

Era un atterraggio notturno… a mio avviso, una precauzione inutile, dato che i sensori nemici potevano intercettarci sia al buio sia alla luce del giorno, e che serviva solo a renderci le cose più difficili. Ma nelle alte sfere era stato deciso così, per ragioni che nessuno si era degnato di spiegarci.

Agganciammo i volazaini, indossammo i caschi e ci mettemmo in fila per il lancio. Io ero il primo.

— Dieci secondi al lancio —mi annunciò la voce attraverso gli auricolari.

Il portellone si sollevò lentamente e un vento gelido mi aggredì, facendomi quasi indietreggiare. Automaticamente, abbassai la visiera del casco. Fuori il buio era totale, ma la visiera mi permise una migliore messa a fuoco.

Quello che vidi non mi incoraggiò: una fitta zona alberata che si stendeva senza interruzioni sotto di noi. Lanciarsi in quella barriera verdeggiante sarebbe stato un suicidio.

— Lanciarsi! —fu l’ordine.

Mi lanciai.

Il volazaino vibrava sulle mie spalle e all’improvviso mi trovai a fluttuare in aria. Grazie ai sensori inseriti nella visiera, vedevo il tappeto di alberi farsi lentamente più vicino. Ma dov’era lo spiazzo su cui avremmo dovuto atterrare?

Galleggiavo. La sfera di energia prodotta dal volazaino si opponeva sia alla forza di gravità sia a quella di inerzia, e io cadevo lentamente, come una foglia che si stacca dall’albero e volteggia piano, prima di adagiarsi sul terreno. Era una sensazione piacevole, ma se fossi atterrato sugli alberi, avrei avuto poche possibilità di cavarmela senza danni.

La discesa durò pochi secondi, che a me parvero un’eternità. Finalmente, vidi il bordo della piazzola, nel punto in cui la barriera degli alberi si interrompeva bruscamente per lasciare il posto a un prato.

Girandomi sulla schiena, guardai il cielo stellato e contai venticinque figurette dietro le quali ondeggiavano le sagome più voluminose dei componenti della trasmittente. Con la coda dell’occhio, intravvidi anche il nostro veicolo di atterraggio, pronto a decollare di nuovo per tornare verso la nave.

Mi girai di nuovo, per prepararmi a un atterraggio morbido. Toccai il terreno con gli stivali, poi mossi qualche passo. Immediatamente mi sentii sprofondare.

— È una palude! —gridai nel microfono del casco. —Non atterrate! Cercate un punto più solido!

Tentai di uscire dalle sabbie mobili, ma la gamba sinistra mi era rimasta impigliata in qualcosa. Sentii il sergente Manfred e i suoi uomini gridare: —Sembrano rocce da quassù.

— Scendete lentamente e controllate che sia terreno solido.

— Ma si… Yaargh! —Un grido.

Armeggiai con la leva di comando dello zaino polivalente, lentamente perché avevo ancora la gamba bloccata e non volevo strapparmi un tendine. Allo stesso tempo, cercavo con lo sguardo gli uomini che erano ancora sospesi in aria alla ricerca di un atterraggio sicuro. Uno di loro aveva gridato. Perché?

— Guardate! C’è qualcosa che si muove!

Che cosa diavolo stava succedendo? E in che cosa mi era rimasta impigliata la gamba? I componenti della trasmittente planavano lentamente, toccavano la superficie fangosa poi, con uno strano gorgoglio, affondavano fino a sparire dalla mia vista.

— È qualcosa di vivo!

— Fallo saltare! Attento a non colpire Jerron.

La gamba, compresi, non era rimasta impigliata. Qualcosa l’aveva afferrata e la teneva stretta; tanto stretta da curvare la tuta che indossavo all’altezza del polpaccio. Qualunque cosa fosse, stava cercando di trascinarmi giù, nelle sabbie mobili.

Tirai con più forza la leva inserita nello zaino e riemersi finalmente dal fango, con qualcosa che mi penzolava dalla gamba: uno spaventoso groviglio di tentacoli e chele affilate. Quella mostruosità mi si stava inerpicando sulla gamba, nel tentativo di fracassare la tuta e arrivare alla carne.

Estrassi la pistola laser dalla fondina e presi la mira. “Occhio a non spararti sul piede” dissi a me stesso. Puntai l’arma contro la creatura, nella speranza di farla desistere dal suo proposito. Invece, mi afferrò il polso con uno dei tentacoli.

— O te o me —dissi ad alta voce, premendo il grilletto. Con un lamento, la creatura agitò spasmodicamente il moncone del tentacolo, da cui sgorgavano spruzzi di sangue nerastro.

Fu allora che, abbassando lo sguardo, ne vidi il muso: una fila interminabile di mandibole e occhi luccicanti. Mirai a quelli, aumentando gradatamente la potenza della pistola, sorpreso che l’animale, o quello che era, fosse in grado di assorbirne tanta. Proprio quando cominciavo a dubitare che il raggio laser avesse un qualche effetto su di essa, lanciò un ultimo grido e ricadde lontano da me.

Finalmente libero, mi sollevai ancora più in alto, prima di iniziare la discesa.

Sotto di me, era in corso una vera e propria battaglia. Le pistole a raggio laser lampeggiavano a ripetizione e sentivo gli uomini gridare.

— Queste maledette rocce sono vive!

— E affamate!

— Muoiono dalla voglia di uccidere!

La palude pullulava di creature carnivore, che si avvinghiavano a noi quasi fossimo stati mandati dal cielo per soddisfare i loro appetiti. I miei soldati si muovevano a fatica nel fango, e quando miravano dovevano fare attenzione a non ferirsi a vicenda.

Gli imballaggi contenenti i pezzi del trasmittitore e il resto dell’equipaggiamento erano affondati nel fango.

— Usate le pistole al massimo della potenza —tuonai al microfono. —Chiunque abbia le mani libere, imbracci la pistola e li insegua.

Con il fiato corto, malconci e spaventati, riuscimmo finalmente ad avere la meglio su quelle creature da incubo e a inoltrarci tra gli alberi. Il terreno, lì, era compatto e non c’era nulla smanioso di divorarci. O almeno, così sembrava.

Ci sdraiammo per terra a riprendere fiato.

— Ma chi diavolo erano?

— Pensate che siano in grado di muoversi anche sulla terraferma? —domandò una voce preoccupata.

— Devono essere state proiezioni della nostra fantasia —disse una delle donne in tono amaro. —Dai rapporti in nostro possesso non risulta che su Lunga siano stati identificati carnivori pericolosi.

— La più evoluta forma di creature viventi sul pianeta Lunga —intervenne un altro citando un rapporto —è un mammifero dotato di pelliccia che vive sugli alberi e ha le dimensioni di un lemure.

— Ed ecco sistemata una volta per tutte la rilevazione scientifica di “questo” pianeta.

— E l’Intelligence.

— E quei fottuti rapporti.

— Non c’è un briciolo di intelligenza all’Intelligence.

— Quando è stata l’ultima volta che hai visto uno di quei tizi calvi lontano dal suo computer?

Una voce femminile borbottò: —Ma sono così maledettamente ‘sottili’. Avete fatto caso alla formulazione? “Nessun carnivoro è stato ‘identificato’ sul pianeta.”

— Be’, io ne ho identificato più d’uno. La mia tuta è piena di buchi. Guarda qui!

La tuta era stata semi squarciata proprio in corrispondenza del petto. Abbassai lo sguardo sulla mia gamba e fui sorpreso nel vedere tracce di sangue. Il “mio” sangue, realizzai. Avevo automaticamente chiuso i recettori del dolore e compresso i vasi sanguigni durante la lotta con il mostro tentacolare.

— Sergente —chiamai —stabilisca il perimetro del campo e organizzi i turni di guardia. Voglio tirare fuori quel materiale dalla palude e farlo galleggiare fin qui. Poi ci concederemo un’ora di riposo.

— Sissignore —disse Manfred.

Mi sintonizzai sulla frequenza di comando della mia radio e chiamai le altre squadre. Tutte mi confermarono di essersi imbattute nei mostri della palude. Due soldati erano stati uccisi e molti altri feriti.

Studiai attentamente la mappa dell’area.

— Appuntamento al punto A-Sei —dissi agli altri responsabili delle squadre, scegliendo una località che sembrava piuttosto in alto e all’asciutto. —Fra due ore. Qualche domanda?

— Uno dei miei uomini è in pessime condizioni e non ci potrà essere di alcun aiuto —mi spiegò uno dei tenenti. —Chiediamo che vengano a prenderlo?

— No —risposi. —Porteremo i feriti con noi. E anche i nostri morti.

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