15

Quando ripresi i sensi, ero sospeso in aria, circa tre metri sopra il capannello di scienziati, che mi guardavano con la testa rovesciata all’indietro.

Atterrai tra loro con un tonfo, mandandone parecchi a cadere sulle lastre metalliche del pavimento. Mi bastò un’occhiata per capire che non ci trovavamo più nella base Skorpis.

— Che cosa è successo? —mi domandò qualcuno.

— Dove siamo?

— Trasportatore di materia —rispose Delos. Era seduto accanto a me e si massaggiava il collo con le mani. Era uno di quelli che avevo travolto nella caduta.

— Siamo a bordo di una delle navi della flotta, allora.

— Così sembrerebbe.

E davvero tutto lo dava a pensare. La sala in cui ci trovavamo, realizzata interamente in metallo, era perfettamente anonima, tranne che per una vetrata di osservazione posta in alto su una parete, e i contorni di un portello in quella di fronte. Percepii le vibrazioni di un motore appena acceso.

“Trasmissione della materia”, pensai. La flotta degli attaccanti doveva aver saturato lo schermo difensivo della base, e quindi proiettato il raggio perché ci trovasse. Il raggio aveva memorizzato le nostre composizioni molecolari, e dopo averci distrutti, ci aveva fedelmente riprodotti a bordo della nave. Questo spiegava perché io mi ero materializzato a tre metri di altezza dagli altri; quando il raggio ci aveva raggiunti, loro si trovavano già nel rifugio, mentre io ero sul bordo della botola.

Il fascio ci aveva uccisi, e poi ricomposti a bordo della nave. Nessuno accetterebbe volontariamente di affidarsi a un trasportatore della materia, ma a noi non era stato chiesto nulla.

— Siamo prigionieri, allora —interloquì Randa.

— Forse no —replicai io. —Forse non sanno chi siete.

— Benvenuti a bordo del Blood Hunter —disse una voce sopra di noi. Sollevai lo sguardo e vidi il muso rosso di un rettile che ci fissava attraverso la vetrata. Eravamo finiti su una nave Tsihn.

Mi alzai e aiutai Delos e gli altri a fare altrettanto. Il portello si aprì e due rettili entrarono nella stanza. Coperti da lucide scaglie verdi, si assomigliavano al punto che distinguerli era impossibile.

— Venite con noi —disse uno dei due, attraverso il traduttore simultaneo che portava al collo, appeso a una catenella.

Gli scienziati vennero scortati in uno spazioso locale completo di brandine e in tutto e per tutto simile alla camerata di una caserma. In fondo si aprivano i bagni.

— Chi fra di voi è Orion? —domandò uno dei rettili.

Mi feci avanti —Sono io.

— Incontrerai il capitano sul ponte-comando. —Obbediente, seguii i due rettili… dopo che ebbero chiuso a chiave il portello che portava al nuovo alloggio dei miei compagni.

Il ponte era immerso nel silenzio. I rettili non sono chiassosi come i mammiferi, lo sapevo, e tuttavia quella quiete aveva qualcosa di soprannatuale. Non c’era aria di tensione, sul ponte, e solo due lucertole erano collegate ai sensori della nave. La battaglia sembrava finita.

Il capitano dei Tsihn, alto più o meno come me, mi scrutava con l’attenzione di un serpente che fissa la sua preda. Le sue scaglie erano verdi e gialle, con qualche puntino grigio qua e là. Aveva la parte superiore del corpo coperta di insegne e decorazioni, e nell’ampia bocca erano visibili i denti sottili e appuntiti come aghi.

— Non hai un’uniforme?

Solo allora rammentai di avere ancora addosso i calzoncini. Prima che potessi rispondere, lui aggiunse: —Te ne forniremo una.

— Grazie —dissi.

Il rettile aveva un’aria decisamente infelice. —Ho perduto molti validi soldati per salvare te e gli altri umani.

— Siete arrivati troppo tardi. I membri della mia squadra d’assalto sono stati ibernati dagli Skorpis.

La sua lingua balenò brevemente tra i denti. —Dunque i tuoi soldati finiranno nel ventre degli Skorpis.

— Siete ancora in tempo a recuperarli, se non avete distrutto la base.

— Non è stata distrutta. Gli ordini erano di individuarvi e di portare a bordo te e gli altri umani. E questo è ciò ciò che ho fatto. Ho bombardato la base Skorpis, sovraccaricato lo scudo, e vi ho tratto in salvo. Mi è costato una dozzina di vittime, più diversi feriti.

— Ma i miei uomini sono ancora sul pianeta.

— Non è affar mio. Io ho eseguito gli ordini. Sei tu quello che dovevo recuperare. E quelli che erano con te.

— Ma questi non sono i miei soldati! —cercai di spiegargli. —Loro sono rimasti alla base degli Skorpis.

— Ibernati. Sì, ho capito. Ma allora questa gente chi è?

— Scienziati —risposi.

— Mi avevano detto che eri a capo di una squadra d’assalto, non di un gruppo di scienziati.

Esitai. Che cosa sarebbe accaduto, se gli avessi rivelato che quegli umani erano suoi nemici?

Il capitano sembrò leggermi nel pensiero. —Scienziati dell’Egemonia, vero?

— Stavano studiando il pianeta, nel tentativo di entrare in contatto con creature intelligenti del mare. Non sono soldati.

— Ma sono al servizio del nemico.

— Gli Skorpis erano lì per proteggerli.

Il suo sibilo suonò quasi come una risata. —Che razza di protettori! Glieli abbiamo praticamente tolti dagli artigli.

— Ma i miei uomini sono ancora là —insistei. —Erano loro che bisognava salvare. Dovete tornare indietro…

— Tornare indietro? —proruppe il rettile. —A quest’ora, l’Egemonia avrà inviato un’intera flotta a Lunga. Io ho solo quattro navi, due delle quali sono state gravemente danneggiate. La mia missione era di portarti via, non di ingaggiare battaglia con i nemici. Non possiamo tornare indietro.

— Ma i miei soldati…

— Non è possibile aiutarli. Non ora. Siamo in guerra, umano. Un certo numero di perdite è inevitabile.

“Non i miei soldati” dissi a me stesso. Non Frede e Jerron e tutti gli altri. Avevano sofferto abbastanza. Avevano combattuto e obbedito agli ordini. Non avrei permesso che finissero in pasto agli Skorpis.

— Parlami di questi scienziati —riprese il comandante. —Immagino che siano in possesso di informazioni preziose.

— Non sono esperti militari —risposi, diffidente. —Non sanno nulla di armi e strategie.

— E nondimeno costituiscono una bella preda. Riceverò senza dubbio un encomio.

— Ne avresti ricevuto uno molto più entusiasta se avessi riportato i soldati che avresti dovuto salvare —non potei trattenermi dal borbottare.

I suoi occhi rossi ardevano. —Sono stato mandato a salvare “te”, Orion. E ci sono riuscito. Gli ordini erano di trarre in salvo gli umani che erano in tua compagnia. Ho fatto anche questo.

Non mi mossi, lo sguardo fisso nel suo.

Lui si agitò sulla poltrona, poi sollevò una zampa.

— Prendi tu il comando —intimò al comandante in seconda. E guardando me: —Seguimi, Orion.

In silenzio, lo seguii attraverso un portello che dava in una saletta angusta, debolmente illuminata. Vidi una branda incassata nella parete e una scrivania su cui era collocato uno schermo. L’alloggio del comandante, pensai. Essenziale e spartano.

— Siediti —ordinò il rettile, indicandomi uno sgabello. Prese posto sulla sedia dietro la scrivania e premette un pulsante del quadro-comandi. La parete alle sue spalle diventò trasparente.

Non riuscii a trattenere un’esclamazione di stupore. Eravamo nello spazio, e intorno a noi solo le stelle, che la velocità della nave trasformava in nastri luminosi.

— Presto raggiungeremo la velocità della luce, Orion. E allora non ci sarà più niente da vedere.

Mi voltai a guardarlo e vidi che mi tendeva una coppa di metallo. —Una bevanda alcolica ricavata dal malto —spiegò. —La conservo per gli ospiti umani.

Accettai la coppa. —Grazie.

Il comandante si versò a sua volta da bere. —I Tsihn preferiscono bevande contenenti sangue.

Accennammo un brindisi, poi mi accostai la coppa alle labbra. Il liquore dal gusto vellutato mi scaldò.

— Molte razze intelligenti sono abituate a dividere cibo o bevande in segno di amicizia —affermò il comandante. —Voglio tu sappia che, anche se non posso salvare i tuoi uomini, vorrei esserti amico.

— Capisco —mi limitai a commentare.

— La guerra non è mai piacevole. Ma forse i tuoi uomini hanno avuto un destino migliore di quello che avevano previsto loro stessi. Ibernati, non sentono niente.

— Ma non possono aver capito le intenzioni degli Skorpis —obiettai. —I loro ultimi momenti devono essere stati infernali.

Ancora una volta vidi la sua lingua dardeggiare fra i denti; un gesto, compresi, che equivaleva a un sospiro. —E che altro avrebbero potuto aspettarsi? La vostra Suprema Alleanza non onora i suoi guerrieri. E neppure lo fa l’Egemonia. Gli umani trattano i loro soldati in modo molto singolare, Orion.

— Li trattano come se fossero meno che umani —fui costretto ad ammettere.

— Esatto. Li mandano a combattere, e a guerra finita li ibernano. —Scosse il capo. —Li trattano come macchine. Peggio, anzi.

— Ma vorrei salvarli ugualmente, se potessi. Vorrei aiutarli, trovare per loro un luogo dove possano vivere in pace e al sicuro, senza che la Suprema Alleanza li trascini in guerra, senza finire congelati come carne da macello in attesa del giorno in cui ci sarà ancora bisogno di loro. —Stavo pensando ad alta voce, aprendo il mio cuore a quell’estraneo che, pur non umano nelle sembianze, lo era nondimeno molto più dei miei Creatori.

— Dimentica tutto questo, Orion —disse il comandante. —Mi piacerebbe ritirarmi su un pianeta che ho visto una volta, verde e lussureggiante, e così umido che non c’è mattina che la nebbia non si levi dalle paludi. Invece, morirò in una di queste uova di metallo. Passerò la mia vita a bordo di questa o di quella nave e un giorno, da qualche parte, sarò ucciso. Questa è la vita del guerriero, e questo è ciò che siamo, Orion. Tu, io e tutti gli altri, a qualunque razza appartengano. Siamo condannati a combattere. Per noi non esiste altra vita.

Rimasi seduto in quell’angusta stanzetta, a sorseggiare il whisky offertomi dal comandante, e intanto il nostro umore si faceva sempre più tetro. In ultimo mi alzai e presi congedo. Chiesi a uno dei suoi sottoposti di indicarmi il mio alloggio che, scoprii, era identico a quello del comandante. L’alieno mi insegnò a usare la tastiera del computer, e fece scorrere un pannello che rivelò una nicchia in cui erano appese due uniformi.

Rimasto solo, mi lasciai cadere sulla branda. Era un po’ corta per me, ma la cosa non mi preoccupò. Non avevo alcuna intenzione di dormirci.

Chiamai il Radioso. Lo chiamai attraverso le correnti dello spazio-tempo. Parlami, lo implorai: “Concedimi un momento della tua attenzione”.

Nulla. Non voleva rispondermi. Avrei potuto autotrasportarmi nella città dei Creatori, ma a quale scopo? Aton non si sarebbe degnato di manifestarsi. L’ultima volta, aveva inviato il suo messaggero. Ma io non volevo messaggeri. Volevo Aton in persona, il Radioso.

Che rifiutava di rispondermi. Quando mi concentrai e cercai di raggiungerlo con la sola forza del pensiero, avvertii solo un senso di vuoto.

Ma no! Qualcosa c’era… un viticcio di pensiero. Il debole mormorio di un contatto.

“Amico Orion” dissero gli Antichi. “Sei sopravvissuto alla battaglia.”

“Ma i miei soldati” gemetti. “Sono stati ibernati. Verranno uccisi.”

“Tu vuoi salvarli.”

“Da solo non ce la farei. Potete aiutarmi voi?”

“Noi non interferiremo in alcun modo, Orion. Abbiamo fatto una promessa e intendiamo mantenerla.”

“Ma i miei soldati…”

“Sentiamo il tuo dolore, Orion. Stai crescendo in saggezza. Il dolore è il prezzo della saggezza.”

“Dunque non c’è modo di salvarli?”

“Sta a te decidere, amico. Usa tutte le tue risorse. Protenditi a cogliere le opportunità che ti circondano.”

“Quali opportunità?” domandai.

Ma mi rispose solo il silenzio. Gli Antichi avevano detto ciò che dovevano e si erano ritirati.

“Usa tutte le tue risorse” mi avevano detto. “Cogli le opportunità che ti circondano.”

Mi alzai e andai al computer. La paratia trasparente mi disse che stavamo volando a velocità relativistica e che non avevamo ancora effettuato il balzo nell’iperspazio. Digitai la parola chiave relativa al programma tattico: un’intera squadriglia di incrociatori dell’Egemonia ci stava inseguendo. Secondo la strategia elaborata, avremmo raggiunto la velocità della luce prima che loro si avvicinassero al punto da diventare una minaccia. E una volta superata quella barriera, saremmo stati al sicuro.

Ma non avremmo più avuto la possibilità di mandare una nave a recuperare i miei uomini. Qualunque cosa decidessi di fare, avrei dovuto agire prima del salto nell’iperspazio.

Mi restavano meno di due ore.

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