Frede digitò la nostra rotta verso il pianeta Zeta con molta riluttanza. Quando era di servizio in sala-comandi, era efficiente, pronta e competente. Controllava costantemente l’andamento della navigazione, abbandonando l’iperspazio a casaccio, così da poter osservare le stelle.
Ma la sera, a letto, cercava in tutti i modi di dissuadermi dal mio progetto.
— È un suicidio, Orion! Ci faranno saltare in aria in un batter d’occhio. Il sistema avrà certamente delle basi difensive in orbita intorno alla stella. E certamente saranno programmate per colpire qualunque velivolo non autorizzato che entri nel settore controllato.
— Ci faremo precedere da messaggi-capsula —le ripetevo ogni volta che affrontava l’argomento. —Comunicando tutte le coordinate del nostro arrivo.
— Splendido! Così sapranno esattamente dove e quando colpire!
— La nostra è una missione pacifica. L’Egemonia capirà che una nave come la nostra non può certo rappresentare una minaccia.
— Infatti. La considereranno una semplice opportunità per un’esercitazione.
Inevitabilmente, la discussione arrivava a un punto morto. E inevitabilmente io la concludevo dicendo: —Tenente, il tempo è scaduto. Come suo superiore, dichiaro chiuso il dibattimento.
Frede borbottava qualcosa e si arrendeva. Fino alla notte successiva. Facemmo l’amore di rado, durante la navigazione verso Prime. Era difficile provare passione quando ciascuno accusava l’altro di testardaggine.
La vigilia dell’invio del primo messaggio, Frede si decise a confessarmi ciò che realmente la turbava.
— Nel sonno chiami Anya, sai?
Si stava spogliando. Io non mi sentivo per nulla stanco. Non risposi.
— È per questo che vuoi andare a Prime, vero? —incalzò lei. —Perché lì c’è Anya.
— Infatti —ammisi.
— E ci farai uccidere tutti, per lei?
— Anya può far cessare questa guerra.
— Sciocchezze! Nessuno può far cessare questa guerra. Durerà per sempre.
— È questo che vuoi?
— È il motivo per cui sono viva. Per cui noi tutti siamo vivi. Se la guerra finisce, ci iberneranno di nuovo.
— Se la guerra continua, prima o poi moriremo.
Lei si passò una mano tra i capelli corti. —Le alternative non sono incoraggianti, eh?
— Forse io posso cambiare le cose —dissi senza troppa convinzione. Ma volevo accendere in lei una fiammella di speranza.
Mi ricompensò con un debole sorriso. —Mi hai chiesto che cosa volessi. Voglio te, Orion. Voglio smetterla con questo schifo di vita, voglio andarmene e trovare un piccolo mondo felice di cui l’Egemonia e la Suprema Alleanza non abbiano mai sentito parlare e dove condurre un’esistenza normale. Con te.
L’espressione del suo viso! Come se si aspettasse di essere schiaffeggiata. Mi aveva aperto il suo cuore sapendo che da me poteva aspettarsi solo sofferenza.
La presi tra le braccia con tutta la dolcezza possibile e la tenni stretta a lungo.
Fu lei a sciogliersi dal mio abbraccio. Sorrideva, ma nei suoi occhi brillava ancora qualche lacrima. —Che razza di soldato! Dovrei essere sbattuta immediatamente in una cella frigorifera e venire sottoposta a un lungo corso di disciplina, non trovi?
— Avresti tutti i diritti di condurre una vita normale —mormorai.
— Sì. Già. —Si scostò e finì di spogliarsi. —Be’, la vita normale per noi soldati consiste nell’eseguire gli ordini, combattere il nemico quando siamo svegli e addestrarci per la successiva missione quando dormiamo. Non è così, Orion?
Che cosa potevo risponderle? Mentre la guardavo, Frede entrò a letto e scostò il lenzuolo.
— Be’, quantomeno conosco i miei diritti. Sarò pure carne da macello, ma i miei diritti li conosco. Quindi porta qui quel tuo bel culetto e fa’ il tuo dovere.
Mi costrinsi a sorridere. —Sì… Sissignore.
L’indomani, la tensione in sala-comandi era tanto forte da essere quasi palpabile. Rallentammo un’ultima volta e Frede usò quel breve lasso di tempo per fotografare i tracciati stellari. Una volta compiuto nuovamente il salto nell’iperspazio, verificò la nostra posizione, corresse leggermente la rotta e infine annunciò con una voce stridula: —Prossima fermata, sistema di Zeta!
Nessuno degli altri parlò, ma notai che si irrigidivano ed evitavano il mio sguardo.
Ordinai che le capsule fossero sganciate a distanza di quattro ore l’una dall’altra per le ventiquattro successive. Di lì a trenta ore, avremmo rallentato fino a raggiungere la velocità relativistica ai margini del sistema di Zeta. Forse ci avrebbero accolti come ambasciatori di pace, o forse ci avrebbero fatti esplodere in pochi nanosecondi.
Furono trenta ore di tensione. L’Egemonia poteva dedurre la nostra postazione analizzando il percorso delle capsule e quindi concentrare tutte le difese nel settore in cui avremmo fatto la nostra comparsa. Ciò che invece non avrebbero potuto fare era inviarci un messaggio. Avrei dato chissà che cosa per conoscere le loro intenzioni. L’attesa era logorante.
— Velocità della luce in un minuto —annunciò il computer.
— C’è ancora tempo per tornare indietro, signore —disse Emon, l’ufficiale addetto agli armamenti. Mi voltai a fulminarlo con gli occhi e vidi che stava sorridendo. Scherzava, o perlomeno ci provava.
— Quarantacinque secondi.
— Chissà che effetto fa diventare una nuvola di plasma —borbottò Magro a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti.
— Tranquillizzante —rispose Frede.
— Un’esplosione della mente.
— Facciamo un’esplosione e basta.
— Trenta secondi.
— Nel caso non lo sapeste —dissi —è stato un piacere lavorare con voi.
— Lo sappiamo, signore!
— Un soldato lo capisce sempre, quando il suo comandante si diverte.
— Bisogna esserci nati, signore.
Mi voltai verso Frede e intercettai il suo sguardo. Non una parola. Non un sorriso. Ma ci comprendevamo.
— Velocità della luce —annunciò il computer. Tutti gli schermi si accesero a rivelare un cielo pieno di stelle luminose. E di navi dell’Egemonia.
“Alla nave della suprema alleanza: entrate in un’orbita circolare a cinquanta unità astronomiche dalla stella Zeta e restate in attesa dell’ispezione.”
Non avrebbero aperto il fuoco.
— Seguiremo le istruzioni —risposi.
Furono dei guerrieri Skorpis a ispezionare la nave e disinnescare i sistemi difensivi. Quindi requisirono le armi leggere. Fui io stesso ad accompagnare la squadra. Setacciarono l’Apollo in cerca di armi nascoste, ma senza fare danni.
— Aspetterete a bordo nuovi ordini —mi disse il capo della squadra al momento di congedarsi.
Eravamo in piedi davanti al portello principale. Lo Skorpis mi sovrastava di almeno venti centimetri e aveva le spalle tanto larghe che per uscire avrebbe dovuto mettersi di lato. Sperai che si ricordasse di chinarsi, altrimenti avrebbe battuto il capo contro l’intelaiatura.
— Siamo militari della Suprema Alleanza in missione diplomatica —gli ricordai. —Siamo disposti ad accettare istruzioni dai suoi superiori, non ordini.
Le sue labbra si curvarono in una parvenza di sorriso. —Istruzioni, allora —si corresse. Si volse e uscì. Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo.
— Cominciavo a pensare che ci avrebbero requisito anche i coltellini per il burro —commentò Jerron quando tornai in sala-comandi.
— Senza pistola mi sento nudo —si lamentò Emon.
— Siamo qui per parlare, non per combattere —gli rammentai.
— Sissignore, lo so, ma mi sento nudo ugualmente.
Aspettammo per due giorni a bordo dell’Apollo in orbita ai margini del sistema di Zeta. Prime, il pianeta-capitale, era molto più vicino a Zeta, ma noi eravamo confinati nelle tenebre dello spazio e il nostro compagno più prossimo era un gigante gassoso grande come quello del sistema di Jilbert.
Mi sarebbe piaciuto sapere se gli Antichi vivevano anche lì, ma quando cercai di raggiungerli con il pensiero, non ebbi in risposta che il silenzio.
Non avendo altro da fare, chiesi al computer i dati relativi ai giganteschi mondi gassosi di Zeta, e su nessuno erano state riscontrate tracce di vita. Ma sul più grande, quello più vicino alla stella, c’era un oceano. Sugli altri la temperatura era troppo bassa perché l’acqua mantenesse lo stato liquido, a dispetto della forte pressione dei campi di gravità.
Mi concentrai allora su Prime, per documentarmi quanto più possibile su quel mondo grigio, cupo e battuto dalla pioggia.
Poi arrivò un messaggio: VISITE IN ARRIVO. Ordinai all’equipaggio di mettersi in ghingheri e di accogliere gli Skorpis con un certo brio. Si lamentarono a gran voce, ormai dimentichi dei passati timori, ma obbedirono.
— Cercare di fare buona impressione sugli Skorpis è come tentare di addestrare un gatto al riporto —brontolò un soldato.
Ma la squadra che salì a bordo dell’Apollo era composta da umani. Due uomini armati e una donna con una fascia rossa sulla tunica.
— Sono Nella, del corpo diplomatico dell’Egemonia. Ho ricevuto ordine dai miei superiori di scortare il vostro rappresentante a Prime.
Mi feci avanti. Per un istante restammo a guardarci in silenzio. Nella era piccola, sottile e molto giovane. Forse i suoi superiori, sospettando qualche trappola, avevano mandato lei, la più giovane del corpo diplomatico e quindi la più sacrificabile.
Solo quando mi accorsi dell’interesse con cui la guardava Frede, mi resi conto che era anche molto carina.
— Sarà un piacere scortarti fino alla capitale —disse Nella con un sorriso radioso.
Mi voltai verso Frede: —Tenente, lei assumerà il comando in mia assenza.
— Sissignore —rispose lei scattando sull’attenti. Un po’ sorpreso da tanta formalità, ricambiai il saluto. —Abbia cura della nave —aggiunsi. —E di sé.
Il viso come una maschera di pietra, Frede ripeté: —Sissignore.
La città capitale di Prime fu una sorpresa per me. Molti edifici erano effettivamente costruiti in pietra grigia, ma gli altri dati fornitimi dal computer si rivelarono menzogneri. O, quantomeno, distorcevano la realtà.
Il cielo era attraversato da nuvole che un caldo vento di mare stava spazzando via, liberando ampi squarci di cielo azzurro. I viali brulicavano di gente che passeggiava tranquillamente, sostando davanti alle vetrine sfavillanti di luci e traboccanti di merci provenienti da centinaia di mondi.
In giro c’erano parecchi Skorpis, ma nessuno in tenuta da combattimento, che avevano tutta l’aria di essere in licenza. Vedemmo anche molti altri alieni, alcuni con indosso le tute per proteggersi da un ambiente a loro ostile.
Nel complesso, la città appariva allegra, brulicante di vita e normalmente impegnata nelle attività quotidiane. I suoi abitanti facevano acquisti, trovavano l’amore, andavano a cena fuori e lavoravano… in una parola, vivevano. Niente a che vedere con la tetra raffigurazione offerta dai computer della Suprema Alleanza. In un primo momento il contrasto mi choccò; poi realizzai che la città non sembrava minimamente toccata dalla guerra. Se quella gente sapeva che i loro soldati e alleati combattevano e morivano per loro, non lo davano a vedere. Pochi chilometri sopra alle loro teste orbitavano incrociatori da guerra e stazioni mobili pronti a ridurre in atomi un invasore, ma per quelle strade la vita scorreva solare e senza affanni.
Vidi tutto questo dal finestrino di una limousine. Nella mi aveva portato direttamente allo spazio-porto cittadino, e da lì l’auto ci aveva condotti nel cuore della città. Avevo la sensazione che si stesse godendo l’avventura, e che non fosse abituata a muoversi con un mezzo tanto sofisticato.
Percorremmo le strade eleganti del centro, poi oltrepassammo una lunga fila di costruzioni simili ad antichi templi. In quella zona il traffico era meno intenso.
— Gli uffici governativi —rispose Nella quando le chiesi ragguagli sui grandi edifici. Ne indicò uno. —Io lavoro lì. Ma il mio ufficio da qui non si vede, è sul retro. E comunque non ha finestre.
La strada si inerpicava su una collina dominata da un’imponente costruzione.
— Il Campidoglio, nel vecchio castello —disse ancora Nella. —È lì che siamo diretti.
Un intero squadrone di Skorpis era allineato lungo la scalinata, pronto ad accoglierci. Notai che erano tutti armati. Indietreggiarono al nostro passaggio mentre Nella mi guidava in un ingresso enorme e squisitamente arredato e lungo un corridoio più stretto che finiva davanti a una porta di metallo.
Era un ascensore. All’interno c’erano due soldati umani, armati soltanto di pistola. Le porte si richiusero alle nostre spalle, lasciando fuori la guardia d’onore degli Skorpis.
L’ascensore, mi accorsi, stava scendendo. —Esami clinici —mormorò Nella. —Dobbiamo assicurarci che tu non sia portatore di qualche malattia.
“O di bombe” aggiunsi io tra me e me. Gli accertamenti furono veloci, grazie a una serie di strumenti automatizzati. Venni fatto passare sotto quattro diversi scanner; poi un medico umano mi osservò attentamente mentre il mio corpo veniva radiografato per intero.
— Perfettamente normale —commentò alla fine, seguendo con il dito i contorni dell’immagine sul display. —Anzi, direi che gode di ottima salute.
Finalmente rassicurati, Nella e i due soldati mi condussero di nuovo verso l’ascensore. Scendemmo ancora, fino a raggiungere il cuore della rupe su cui sorgeva la città.
La mia accompagnatrice si fermò davanti a una massiccia porta blindata.
— Devo lasciarti —disse in tono quasi di scusa. —Quando la porta si aprirà, entra e va’ dritto davanti a te. Il Direttore ti sta aspettando.
Corse via, verso l’ascensore. Io restai davanti alla pesante porta, sentendomi un po’ sciocco e molto solo.
Poi la porta si aprì, senza un cigolio. Entrai in una stanza scarsamente illuminata. Vidi un lungo tavolo tirato a lucido che sembrava di granito o di onice. Sedie dai lunghi schienali erano disposte lungo entrambi i lati del tavolo. Erano tutte vuote.
La porta si chiuse alle mie spalle, gettando la stanza nell’ombra.
C’era qualcuno seduto al capo del tavolo. Solo, appena visibile nella semioscurità. Mi accorsi di essere all’interno di un cono di luce mentre la penombra avvolgeva il mio ospite.
Mossi qualche passo e il cono di luce mi seguì. “Bene” pensai “gli andrò vicino e finalmente potrò guardarlo in faccia.”
Ma mi fermai quasi subito. I miei occhi si stavano abituando alla penombra e riconobbi la figura che mi osservava dal capo del tavolo.
Le gambe mi cedettero.
Anya!