26

Una parte di me esultava. Una battaglia terribile ci aspettava, e io ero stato creato per combattere. L’antica eccitazione tornò ad afferrarmi, riempiendomi di aspettativa.

Ma per un altro verso mi sentivo disgustato. Non era paura quella che provavo, ma ripugnanza. Quanti dei miei uomini erano già morti? E per cosa? Quanti ne avevo uccisi nel corso dei millenni? Ricordai l’assassinio di Ogotai, il Gran Khan dei Mongoli, mio amico e compagno di caccia. Ricordai il massacro, che aveva seguito il nostro ingresso a Troia. E Gerico. Ricordai lo sguardo accusatorio di Filippo, col sangue che gli colava dalla bocca e sgorgava dal suo ventre squarciato.

Quando avrebbe finito di scorrere, il sangue? Il Radioso si vantava di aver creato la razza umana perché combattesse per lui. Davvero non c’era modo di vincere l’aggressività che aveva instillato in noi? Di imparare a vivere in pace?

“Sentimenti che ti fanno onore, amico Orion.” La voce degli Antichi mi echeggiò nella mente.

Ero seduto nella cabina-comandi dell’Apollo, ma i miei occhi vedevano le profondità dell’oceano che era la loro casa. Ed ero tra loro, nuotavo tra loro, caldo e sicuro nella capsula di energia che avevano preparato per me.

— I miei sentimenti non basteranno a risolvere il problema che abbiamo di fronte —replicai.

— Il problema che “voi” avete di fronte, Orion, non noi.

— Non ci aiuterete, dunque?

Percepii un leggero fremito di disappunto tra loro. —Tocca a voi risolvere i vostri problemi, Orion. Altrimenti non saranno risolti, ma solo rinviati.

— Eppure, minacciate di annientare chiunque tenterà di usare il distruttore di stelle.

Un sospiro paziente. —Il nostro codice etico ci impone di lasciare ampio spazio alle razze più giovani, perché siano artefici del loro destino. Ma lo stesso codice non può permettere la distruzione delle stelle. Una razza intenzionata a usare un tale potere per fini distruttivi rappresenta un pericolo non solo per se stessa, ma per l’intero continuum.

— Quindi anche per voi.

Agitarono i loro numerosi tentacoli, spirali di colore si rincorsero nell’acqua al ritmo del loro respiro, mentre i loro corpi si muovevano come danzando.

— Sì —ammisero alla fine. —Una simile razza rappresenta un pericolo per noi, come per tutti gli esseri del continuum.

— Il vostro codice etico vi consente di aiutarmi a prevenire una simile catastrofe?

Ci fu un lungo silenzio. Gli Antichi fluttuavano nell’acqua, inviandosi l’un l’altro lampi di colore.

— Orion, è evidente che ti stai dibattendo nella morsa di un equivoco. A quanto pare, sei convinto che, eliminando uno della tua razza, colui che chiami Aton o il Radioso, tutto sarà appianato.

— Non è così?

— No, temiamo di no.

— Ma…

— La vostra è una razza molto violenta, Orion. La violenza fa parte della vostra natura. Anche tu, che lotti per sconfiggere questa sanguinaria eredità, pensi di risolvere i tuoi problemi uccidendo ancora.

— Ma Aton dev’essere fermato! Lui sta annientando gli altri Creatori. Cerca…

— Lo sappiamo. L’abbiamo letto nella tua mente. Ma supponiamo che tu riesca a uccidere Aton… credi che questo farà cessare la guerra? Centinaia di miliardi di umani sono in lotta fra di loro, e impiegano armi sempre più pericolose. Credi che la morte di uno basterà a tacitare la bramosia di morte insita in voi?

Dovevo pensarci su. Gli Antichi rispettarono il mio silenzio.

— Il primo passo sta nel mettere fine alla guerra —dissi alla fine, soppesando le parole. —Non basterà a estirpare il seme della violenza dalla psiche umana, ma farà cessare questa carneficina. Poi, forse, potremmo imparare a vivere in pace.

— Lo credi possibile?

— Vedete un’altra strada, migliore? —ribattei.

— No —risposero. —A essere sinceri, no.

— Allora, aiutatemi a raggiungere Loris.

— Troverai gli Skorpis ad aspettarti. Da loro non possiamo proteggerti.

— Potete almeno trasportare la criocapsula che ho a bordo nel Campidoglio del pianeta?

Ma dopo che si furono consultati, il verdetto fu: —Questo è un compito che devi eseguire tu stesso, Orion.

— Neppure questo farete per me? Nel nome della pace?

— Dovete conquistare da soli la pace. È un compito che spetta esclusivamente a voi.

Non avrei avuto alcun aiuto dagli Antichi.

— Il tuo arrivo nel sistema di Giotto scatenerà una violenta battaglia —mi avvertirono.

— L’ultima —assentii, rassegnato.

— Auguriamocelo.

Ero pieno d’amarezza —Grazie —dissi…

— Addio, Orion —mi salutarono. —Addio per sempre.

Prima che potessi chiedere che cosa avessero inteso con quella formula di commiato, mi ritrovai a bordo dell’Apollo. Accanto a me, Frede mi guardava perplessa.

— Non vuoi mangiare?

Solo allora notai il vassoio di cibo che avevo davanti.

— No, grazie —borbottai. —Non ho fame.

Come potevo mangiare quando sospettavo che gli Antichi mi avessero detto addio perché sapevano che andavo a morire?


Quando lasciai la cabina per andare a riposare, sognai l’antica Bisanzio, la Nuova Roma dalla triplice cinta di mura che per mille anni, dopo che l’oscurità che era calata sull’Europa occidentale, era rimasta in piedi ad affrontare le orde barbariche.

Ero un soldato, un ufficiale che tornava in città dopo una lunga e faticosa campagna militare contro i predatori Selgiuchidi, venuti dal cuore dell’Asia settentrionale per conquistare le antiche province della Cilicia, della Cappadocia e persino dell’Anatolia. Nobili città, come Antiochia, Pergamo ed Efeso ora erano in mano ai musulmani.

I miei soldati avevano combattuto per mesi, costretti a ritirarsi di continuo davanti ai feroci cavalieri delle steppe, e morendo in gran numero mentre l’ondata barbara ci sospingeva verso il Bosforo. Col cuore gonfio, vedevo villaggi, paesi, intere città messe a ferro e fuoco dagli invasori; chiese e persino grandi cattedrali trasformate in moschee. La nostra ritirata fu segnata da colonne di fumo nero, pire funerarie per il nostro Impero, che si levavano verso il sole come indici accusatori.

Alla fine, li fermammo. Alle nostre spalle, restava solo la sottile striscia di mare che separa l’Asia dall’Europa. Non molto dell’antico impero era stato risparmiato, ma la potente Bisanzio era ancora libera. Il prezzo fu migliaia di ottimi soldati; della mia coorte, soltanto una manciata era ancora in grado di combattere, e tra questi molti erano feriti. Ma potevamo dire a noi stessi e a chiunque avesse voluto ascoltare che avevamo dato molto più di quanto avessimo ricevuto. I Selgiuchidi non erano meno esausti di noi, e le loro cataste di morti più alte delle nostre.

La battaglia era cessata, almeno per il momento, e io rientravo nella potente città. Con il cuore a pezzi e zoppicante per una ferita di freccia a una gamba.

A cavallo varcai i tre cancelli, le mie poche cose legate alla sella. Le guardie non prestarono attenzione a me… solo un soldato che tornava… impegnati a trattare con un mercante arrivato con una lunga carovana di muli carichi di merci. Pretendevano di essere pagati, e generosamente, per lasciarlo entrare.

Attraverso le strade tortuose della città vecchia, cavalcai lentamente, godendomi la vista, i suoni, gli odori. I venditori ambulanti decantavano la loro mercanzia. I negozianti parlavano del tempo o delle mode più recenti con i clienti. Uomini e donne passeggiavano lungo le vie principali, o sedevano nei caffè delle piazze. L’aroma dell’agnello arrosto, delle cipolle e del vino speziato mi dava alla testa, dopo mesi in cui mi ero nutrito di carne secca di capra o di cose peggiori.

Nella piazza del mercato, oltre i tetti bassi delle case, vidi la splendida cupola di Santa Sofia. Spronai il mio cavallo stanco in direzione della cattedrale. Se dovevo pregare per la mia salvezza, perché non farlo nel più imponente monumento della Cristianità?

Una parte della mia mente si chiedeva se fosse un sogno o la vita reale. Vivevo davvero in quell’era del mondo, oppure ero altrove, in un altro luogo e in un altro tempo, e dormivo? Ma che importanza aveva? Ero comunque fortunato a essere vivo, e dovevo a Dio e ai suoi Santi una preghiera di ringraziamento. Ed eccomi finalmente nella piazza di ciottoli antistante la cattedrale.

— Non puoi legare qui quel ronzino!

La voce gracchiante mi fece sobbalzare. Guardai il palo a cui altre cavalcature erano assicurate, poi il vecchio grinzoso, vestito di luridi panni, che mi fissava con ostilità.

— Il palo è riservato agli invitati alle nozze —gracchiò. —Non azzardarti a mettere quel tuo animale mangiato dalle zecche in mezzo a cavalli di razza.

E davvero gli altri cavalli erano ben nutriti e strigliati a dovere, mentre il mio povero compagno mostrava le costole.

— Maledetti soldati! Credete di poter fare tutto quello che volete, vero? Perché non andate a combattere i Saraceni invece di intrufolarvi dove non siete desiderati?

Senza rispondere, mi spostai verso un palo più distante, e dopo aver legato il cavallo tornai dal vecchio.

— Ho lasciato tutto ciò che possiedo su quel ronzino mangiato dalle zecche —dissi. —A eccezione di questa. —Estrassi dalla guaina la spada con l’elsa incrostata di pietre preziose. —La sua lama ha trafitto più Selgiuchidi di quanti peli hai sul viso, vecchio. Se qualcuno si azzarda a toccare il mio cavallo o le mie cose, ne conoscerà il morso.

Nei suoi occhi si accese un lampo di collera, ma tenne la lingua a freno. Mi voltai ed entrai nella cattedrale. Era stranamente freddo all’interno, e buio. Solo un altare laterale era illuminato, e lì si stava celebrando la cerimonia nuziale. Ecco i proprietari dei cavalli che il vecchio sorvegliava, pensai.

In ginocchio sul pavimento gelido, riuscivo a malapena a intravedere il mosaico raffigurante il Cristo risorto, nella cupola… Una luce fioca filtrava dalle alte finestre colorate, e nei suoi raggi danzava il pulviscolo. Mi aspettavo quasi di vedere il mio respiro, tanto faceva freddo.

Vicino all’entrata principale e all’imponente fonte battesimale, c’era una statua di Santa Sofia. La guardai, e i tratti scolpiti dall’artista mi parvero familiari. Li avevo già visti su un’altra statua, ad Atene. Una statua opera di un pagano e raffigurante Atena, protettrice di quella decrepita città.

Ed ecco che ritrovavo lo stesso volto in Santa Sofia. La santa era avviluppata in morbide pieghe di prezioso tessuto, mentre Atena era stretta in un’armatura e portava un elmo di bronzo. La santa ascoltava le preghiere dei fedeli, mentre la dea impugnava una lancia e aveva una civetta sulla spalla. E, nondimeno, il volto era lo stesso. E pareva sorridermi, un sorriso serafico che mi scaldò il cuore.

Non restai a lungo. Giusto il tempo di una breve preghiera di ringraziamento, poi tornai fuori, timoroso che il vecchio si mettesse in testa di rubare le mie cose per poi dileguarsi tra la folla. Ma lo trovai vicino al palo, e il mio cavallo era al suo posto. La povera bestia era davvero mal ridotta.

— Suppongo che i soldati non allunghino qualche soldo a chi sorveglia le loro cavalcature —borbottò quando gli passai accanto.

— I soldati non hanno denaro fino al giorno di paga —risposi. —E nessuno di noi è stato ancora pagato, da quando ha lasciato la città mesi e mesi or sono.

— Bah! —Non credeva alle mie parole.

Ero stato alloggiato presso una famiglia che viveva fuori delle mura. Non furono esattamente entusiasti di vedermi. Per loro, significava avere un’altra bocca da sfamare e un altro cavallo a cui badare per tutta la durata della mia permanenza. Sembrava che avessero già abbastanza difficoltà a sopravvivere, con cinque figli di cui il maggiore aveva appena dieci anni.

L’uomo era un fabbro e si guadagnava da vivere riparando vasi e oggetti di rame al bazaar. L’esercito gli avrebbe pagato una sciocchezza per il mio mantenimento, ma lui mi disse subito chiaro e tondo che gli sarei costato molto di più.

Ma i ragazzi mi si strinsero intorno, avidi di sapere tutto della guerra e dei paesi in cui ero stato. Mi scrutavano con curiosità, affascinati dalle cicatrici che avevo sul viso.

La madre se l’era portata via una febbre che un anno addietro aveva mietuto parecchie vittime. Il padre si era preso in casa una ragazza per cucinare e badare ai figli, una rossa robusta, probabilmente originaria della Moscovia. Era carina, con la pelle bianco latte non ancora segnata dal duro lavoro. Mi chiesi se il padrone se la portasse a letto.

I due ragazzi più grandi mi aiutarono a disfare il misero bagaglio e scaricarono le mie cose su uno dei letti che si trovavano nella camera al piano superiore. Poi condussero il cavallo nella stalla. Durante la cena, vollero che raccontassi storie di guerra e di vittoria. Ma tutto quello di cui potevo parlare erano battaglie perdute e le ritirate davanti a un nemico implacabile. Il padre mangiava la sua zuppa d’orzo e pane nero in assoluto silenzio. Sollevava il capo di rado, e solo per fulminare con gli occhi la serva quando mi sorrideva.

— Quanti barbari hai ucciso? —mi chiese il figlio più grande.

— Troppi —risposi. —Ma non abbastanza.

— Che cosa si prova a uccidere un uomo? —volle sapere la ragazza.

Risposi di getto, senza pensarci. —Meglio lui di me.

Lei scosse il capo. —So che sono barbari infedeli e che la Chiesa non condanna i loro uccisori, ma Cristo non ci ha insegnato che uccidere è peccato?

La sua disapprovazione mi irritò. Avrei voluto dirle che cosa facevano i Selgiuchidi alle donne cristiane che prendevano prigioniere, descrivere i villaggi di donne violentate e poi trafitte con la spada per puro divertimento, di lattanti impalati vivi e usati come palle da calciare, di bambini inermi torturati con fuoco e pugnali.

Ma non dissi nulla. Perché mi vergognavo. Le mie truppe avevano fatto più o meno lo stesso nei villaggi musulmani che avevamo saccheggiato.

— Sono infedeli —saltò su il padrone di casa. —Servi dell’Anticristo. Ucciderli non è come uccidere un cristiano. Così ci hanno detto i padri della chiesa. Non sono neanche umani.

— Il loro sangue è rosso come il nostro —mi sorpresi a mormorare.

— Bene! Fanne scorrere più che puoi.

“Vattene più presto che puoi e tornatene in guerra” mi stava dicendo. E così avrei fatto, decisi. Quella non era la mia casa né lo sarebbe mai diventata. Non appena la ferita alla gamba fosse guarita, sarei tornato a combattere.

Dopo cena, i due ragazzi si offrirono di dividere il loro letto con me. Scoppiai a ridere; avevo dormito sulla nuda terra talmente a lungo, spiegai, che un letto mi avrebbe sicuramente tenuto sveglio. Distesi sul pavimento la mia coperta e mi sdraiai.

Stavo per addormentarmi, quando il maggiore dei due ragazzi disse: —L’anno prossimo avrò l’età per arruolarmi.

— Non farlo —replicai. —Resta qui e aiuta la tua famiglia.

— Non c’è gloria a stare qui.

— Non c’è gloria neanche in guerra. Credimi. Solo sangue e sofferenza.

— Ma combattere i Selgiuchidi significa fare la volontà di Dio!

— Anche vivere significa fare la volontà di Dio, figliolo. Uccidere è opera del demonio.

— Ma è giusto uccidere i Selgiuchidi. I preti hanno benedetto la guerra.

“Sì” pensai con amarezza. “Lo fanno sempre.”

— L’Imperatore stesso…

— Dormi —lo interruppi. —E dimentica l’esercito. Solo uno sciocco va in guerra quando non vi è costretto.

Questo finalmente gli tappò la bocca. Mi voltai su un fianco e sprofondai nel sonno, sognando un lontano futuro in cui le navi volavano tra le stelle.

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