Riprendemmo il nostro cammino verso la base degli Skorpis. Mandai alcuni ricognitori in avanscoperta, ma nessuno rilevò segni di presenze nemiche.
Emergemmo dalla grande foresta il secondo giorno, e ci fermammo il tempo necessario perché io consultassi le mappe archiviate nel computer inserito nel casco. Il display sulla visiera mostrava una larga fascia di terra, poi una catena di aspre montagne. Non mi piaceva affatto l’idea di muovermi su un terreno aperto. Mi sentivo più al sicuro dietro alla fitta schiera di alberi. Benché consapevole che i sensori nemici potevano intercettarci anche attraverso la fitta vegetazione, l’istinto mi diceva che all’aperto era pericoloso.
Ci mettemmo in marcia, diretti a un fiume che sgorgava da quelle lontane montagne… così lontane che non se ne intravedevano neppure le cime. Il fiume era contornato da filari di alberi e il paesaggio era movimentato dall’abbondante presenza di selvaggina. Quanto all’acqua fresca, era una necessità, dato che le attrezzature di riciclaggio erano rimaste al campo.
Fedele al mio nome, insegnai ai soldati a cacciare. I fucili laser non sono le armi più adatte a questo sport, ma il nostro obiettivo era la sopravvivenza, e abbattemmo senza esitazione uccelli e conigli.
— Vorrei proprio che ci “fosse” qualcosa di più grosso di un lemure su questo pianeta —si lamentò uno dei soldati.
— Insomma, qualcosa con più carne intorno alle ossa —gli fece eco un suo compagno.
Ma passarono i giorni e le settimane senza che avvistassimo animali più grossi. Lentamente i nostri feriti guarirono, eccezion fatta per due che morirono durante la marcia. Li cremammo: accendevamo il fuoco ogni sera, dato che dei nemici non si era vista più traccia. Certo, gli Skorpis potevano aver messo in orbita satelliti spia, ma se anche ci avevano intercettato non avevano fatto nessuna mossa contro di noi. E comunque, non ce la sentivamo di rischiare mangiando carne cruda: la cottura, oltre a renderla più gradevole al palato, uccideva parassiti e microbi.
L’avanzata lungo il fiume si rivelò più ardua della marcia nella foresta. Gli alberi erano molto più bassi e i cespugli molto fitti, così che spesso decidevamo di volare sul pelo dell’acqua per evitare gli ostacoli.
— Ehi, ci sono cose vive nell’acqua! —esclamò una mattina una delle donne.
Le spiegai che l’uomo è solito pescare pesci e nutrirsene. Era un’informazione del tutto nuova per lei, come per tutti gli altri, ufficiali compresi, e ancora una volta mi stupii dei limiti della loro esistenza. Sapevano soltanto quello che era necessario per combattere.
Presto, però, feci di alcuni di loro dei pescatori provetti, e ogni sera, quando accendevamo il fuoco, c’era sempre pesce fresco a garantirci una dieta ricca di proteine.
E finalmente arrivammo in vista della catena montuosa. La roccia nuda, quasi violacea alla luce del tramonto, contrastava con il bianco azzurrino della neve che copriva le cime. Quella sera, il tenente Frede si tolse l’ingessatura rigenerante e azzardò qualche passo intorno al falò.
— È bello sentirsi di nuovo libera —esclamò, il volto illuminato da un sorriso. —Mi sento proprio bene!
Dormì rannicchiata contro di me, quella notte, accanto al fuoco che languiva. La sera seguente, mi prese per mano e mi condusse tra gli alberi, lontano dal campo.
— È giunto il momento, Orion —disse, sedendosi con la schiena contro un tronco. Con un gesto mi invitò a sedermi accanto a lei.
— Sì —risposi, lanciando uno sguardo verso il campo. Eravamo protetti da una fitta schiera di alberi, lontani da occhi indiscreti. —Immagino di sì.
Cominciammo con un pizzico di esitazione, ma di lì a poco Frede ridacchiava piano, mentre si spogliava e aiutava me a fare altrettanto. Ero sorpreso dall’intensità del mio desiderio. Avevo pensato di limitarmi a compiacere Frede, ma ben presto mi resi conto di essere eccitato almeno quanto lei. L’immagine di Anya mi balenò davanti agli occhi e sognai che fosse lei la donna con cui stavo facendo l’amore: Anya, calda, dolce, adorabile, irraggiungibile Anya, la donna che avevo cercato in tutto lo spazio-tempo, la dea che aveva assunto sembianze umane per amor mio.
Le stelle brillavano attraverso le chiome degli alberi. Frede e io giacevamo vicini, sudati e rilassati, e guardavamo la luna levarsi oltre il profilo delle montagne. Era una luna lontana, fredda, che non gettava luce sullo spoglio paesaggio.
— A che cosa stai pensando? —bisbigliò Frede.
Mi strinsi nelle spalle. —A niente.
— Balle. Stavi pensando a lei, non è così? Alla donna a cui ti sei promesso.
Negare non avrebbe avuto senso. —Sì, è vero —mormorai.
— Anche mentre lo stavamo facendo?
— Sì.
— Bene.
— Bene?
— Durante l’addestramento non te lo dicono, ma non è consigliabile, tra soldati, restare coinvolti emotivamente. Anche se dovessimo sopravvivere a questa missione, verremmo di nuovo ibernati in vista di nuove missioni che ci vedrebbero assegnati a partner diversi.
— Vi cancellano la memoria durante il criosonno?
— Dipende. Nella maggior parte dei casi, si limitano a sottoporci a un nuovo addestramento e ad aggiungere altri dati nella nostra memoria riguardanti la nuova missione.
Più o meno come Aton faceva con me, pensai.
— Quindi, bando ai coinvolgimenti —concluse Frede con molta chiarezza.
Il suo tono era distaccato e mi chiesi se fosse davvero persuasa di quanto mi stava dicendo. Sembrava piuttosto che cercasse prima di tutto di convincere se stessa.
Restammo distesi a lungo. Poi Frede mi fece scorrere una mano lungo la coscia.
— Sei pronto per rifarlo?
Lo ero, come lo era lei.
Più tardi, le chiesi con voce assonnata: —Che cosa succede se una donna soldato resta incinta?
Lei restò in silenzio per qualche istante, poi rispose con un filo di voce: —Non succede mai, Orion. Noi siamo stati tutti sterilizzati. Per un soldato il sesso è soltanto un modo per scaricare le tensioni. Non avremo mai figli.
E per i loro signori, lo sapevo, il sesso era lo strumento per mantenere integri negli uomini gli istinti di aggressività e protezione. Ricordai le parole amare di un vecchio cantore, accecato da Agamennone dopo l’assedio di Troia: “Più miserabili degli schiavi, ecco che cosa siamo, Orion. Vermi sotto i loro piedi. Cani. È così che ci trattano”.
Scossi la testa. Ai cani, almeno, era permesso riprodursi.
Quella notte dormii abbracciato a Frede. E sognai.
O forse, più che un sogno, a visitarmi fu uno dei messaggi del Radioso. Spesso Aton o uno degli altri Creatori mi chiamava dallo spazio-tempo in un altro luogo nel continuum per parlarmi, per darmi ordini, oppure per rimproverarmi.
Nel sogno, sempre che di sogno di trattasse, non apparve nessuno dei Creatori. Ero solo e camminavo su un’ampia striscia di sabbia bianca; le onde che si infrangevano, mi lambivano i piedi nudi. Il sole era caldo, bruciante, in un cielo di bronzo colato.
Sul limitare della spiaggia, cresceva una fila di cespugli, alcuni coperti di fiorellini rossi e blu. Dietro, le sagome di costruzioni somiglianti a candele disciolte, informi e annerite. Costruzioni antiche. Per un qualche motivo, sapevo che erano abbandonate da un tempo inenarrabile. Abbandonate, esattamente come lo ero io.
Una voce mi chiamò. Non la udii, ma echeggiò nella mia mente. Non pronunciò il mio nome, non usò parole. Ma avvertivo una presenza che cercava di raggiungermi, di stabilire un contatto mentale con me. Percepii un’intelligenza, una curiosità… e poi un senso di paura, collera e disgusto insieme. Un rifiuto. La presenza scomparve di colpo, come un delfino che si tuffa nelle onde.
Restai solo sulla spiaggia, travolto dalla tristezza e da un disperato bisogno di capire chi e che cosa fossi, dolorosamente consapevole di un vuoto nel cuore stesso della mia esistenza.
— Anya! —gridai. —Anya, dove sei?
Nessuna risposta. Le onde continuavano a inseguirsi. Il vento mi schiaffeggiava il volto. Il sole mi bruciava. Per quel che potevo dire, ero solo su quella spiaggia, solo su quel pianeta, solo nell’universo.
Piansi.
Frede mi scosse per svegliarmi. —Orion, che cosa c’è? Svegliati!
Di colpo balzai a sedere. Eravamo al campo, sotto gli alberi, e i primi bagliori dell’alba diradavano le nubi che incombevano basse e grigie sopra di noi. Gli altri dormivano ancora, da soli o in coppia. Solo le sentinelle continuavano a camminare lungo la riva del fiume.
Frede mi cinse le spalle nude. —Nel sonno gemevi.
— Sognavo.
— E chiamavi una donna, Anna.
— Anya —la corressi.
Lei si infilò la maglietta. —È quella a cui sei promesso?
Abbozzai un sorriso per quell’espressione così antiquata. —È la donna che amo.
Frede annuì. —Se usciremo vivi da questa missione, tornerai da lei?
— Non lo so. Lo vorrei, ma non so se mi sarà possibile.
— L’esercito non ti rimetterà in una cella frigorifera fino alla prossima missione?
Scossi la testa e ammisi: —Non lo so. Davvero.
— Ecco tutto quello che possiamo sperare: il criosonno o la battaglia —mormorò Frede. —E, negli intervalli, gli addestramenti. È una gran vita, Orion, quella dei soldati! Bisogna esserci nati.
Dunque era questo il senso di quel motto. Bisogna esserci nati. Una battuta amara, ma valida per me, così come per tutti quei soldati clonati. Bisogna esserci nati. Oppure creati. E così era per noi.
— Coraggio —sospirai alzandomi. —È ora di muoversi.
Lei si alzò, ma mi guardò dritto negli occhi mentre chiedeva: —Perché?
— Che vuoi dire?
— Perché dobbiamo muoverci?
— Lo sai bene quanto me…
— Per attaccare la base degli Skorpis? E perché dovremmo? A che servirebbe? Forse solo a farci uccidere tutti.
Sapevo che le truppe erano state condizionate a ubbidire, a combattere, a eseguire gli ordini. Durante quella missione il condizionamento si era indebolito notevolmente, ma era possibile rafforzarlo con una sequenza di parole chiave che tutti gli ufficiali di grado superiore a quello di tenente avevano memorizzato. Mi venne di pensare che i gradi superiori utilizzassero con i loro subalterni altre analoghe sequenze di frasi. Aton le aveva inserite nella mia memoria e ora mi tornavano tutte in mente, come se lui fosse al mio fianco a suggerirmele.
“Tu sei la punta della lancia, la punta della freccia.” Una semplice frase, ma sufficiente a travolgere il nascente senso di indipendenza di Frede, a trasformare una donna impaurita e dubbiosa in un soldato ligio agli ordini. Un soldato brontolone e lamentoso, forse, ma che non avrebbe più messo in discussione la missione a cui era stato assegnato né vacillato al pensiero della sua impossibilità.
Non me la sentivo di pronunciare quelle parole. Non ancora. Non a Frede. Condannata a una vita che non aveva chiesto, in cui le era stata negata ogni possibilità di scegliere, stava cominciando a manifestare i primi segni di una volontà libera… non era tanto la morte che temeva, quanto una morte inutile.
Lei fraintese il mio silenzio. —D’accordo, puoi sempre degradarmi a soldato semplice e mettere qualcun altro al mio posto. Ma resto dell’opinione che ciò che stiamo per fare non abbia senso, che è assurdo mandare cinquantadue uomini ad attaccare una base Skorpis.
— Vedi qualche alternativa?
Lei trasse un lungo sospiro, come se temesse di dare voce ai suoi pensieri. Sbatté più volte le palpebre e infine trasse un lungo sospiro. —Potremmo restare qui. —disse —Vivere qui. Dimenticare la guerra, dimenticare il suo inferno e restare qui per il resto dei nostri giorni.
— Dimenticare gli ordini?
— Loro ci hanno abbandonato, Orion! Non siamo stati noi a fuggire!
— E credi che i nemici ci lascerebbero in pace?
— Se restiamo qui, non rappresenteremo di certo una minaccia per loro. E sanno che sappiamo difenderci in caso di attacco. Perché dovrebbero preoccuparsi di noi?
Ci pensai su per un momento. Probabilmente Frede aveva ragione. Ma se restavamo lì, non avrei mai trovato Anya. E per quanto odiassi il Radioso e tutti gli altri Creatori… eccetto Anya… sapevo che doveva esserci un motivo se mi aveva mandato lì, in quello spazio e in quel tempo.
— Frede —dissi con voce pacata —ho l’ordine di annientare la base degli Skorpis. L’istallazione del ricetrasmettitore era solo il primo passo verso l’obiettivo finale, lo sai anche tu.
La sua espressione si fece dura. —Hai intenzione di farlo con cinquantadue uomini?
— È per questo che siamo qui.
— Allora ci manderai tutti a morire.
— È per questo che siamo qui —ripetei.
Lei mi indirizzò un’occhiataccia, poi, stranamente, scoppiò in una risata amara. —Ogni giorno che passa assomigli sempre di più a un vero ufficiale.
Si allontanò e cominciò a impartire ordini ai soldati, come se tra noi non fosse accaduto niente. Ero felice di non essere stato costretto a usare le parole di condizionamento. Ma pensavo che i tentennamenti di Frede non sarebbero stati l’unico problema di disciplina che avrei dovuto affrontare. Sicuramente, era soltanto il primo.
A mano a mano che ci avvicinavamo alla catena montuosa, la temperatura scendeva. Le notti erano gelide, umide, con un vento forte che scendeva a spazzare i fianchi delle montagne. Piovve per diversi giorni di fila; vittime della prolungata permanenza tra fango e umidità, ormai tossivamo tutti. Ma continuavamo il nostro cammino, seguendo il corso naturale del fiume, fino a quando questo non si risolse in tanti ruscelli gorgoglianti che formavano suggestive cascatelle.
La pioggia si trasformò in neve, che con il passare dei giorni si fece sempre più fitta. Ci lasciammo alle spalle i ruscelli per arrancare attraverso gole innevate. La notte ci rifugiavamo nelle caverne, dove, almeno, potevamo accendere il fuoco e dormire all’asciutto. I picchi frastagliati delle montagne si stagliavano sopra di noi, coperti di neve. Talvolta, i venti che infuriavano inclementi trasformavano i cristalli di ghiaccio in meravigliosi prismi, che catturavano la luce del sole, creando splendidi giochi di colore. Sarebbe stato un incanto, se non fossimo stati stretti in una morsa di gelo. Avanzavamo tra cumuli di neve, tremando per il freddo e sempre sul punto di scivolare sulle lastre di ghiaccio. Poi, finalmente, arrivammo a corsi d’acqua non gelati. Avevamo superato la barriera montuosa e ora i nostri passi si dirigevano a valle.
Una settimana dopo, la neve era solo un ricordo. Sudavamo e ci lamentavamo per il caldo, a mano a mano che scendevamo a valle, ed ecco che alla fine la distesa dell’oceano apparve davanti ai nostri occhi. Insieme alla base degli Skorpis.
Non era immensa né fortificata come avevo temuto. Ma era abbastanza grande perché mi chiedessi come avrei fatto anche solo ad avvicinarmi, con quella manciata di uomini che avevo a disposizione. Dovevano esserci almeno un migliaio di guerrieri in quell’accampamento.
I sensori della visiera, regolati sul massimo della potenza, non mi mostrarono né trincee né fortificazioni, benché abbondassero le piazzole di tiro, disposte a semicerchio. La base sorgeva in riva al mare, lungo un’ampia spiaggia di sabbia bianca. Costruzioni basse sui cui tetti erano montati pannelli solari. File di tende quadrate, allineate con precisione militare. Dall’acqua, sporgevano lunghi pali metallici, inframmezzati da costruzioni di forma conica.
Qualcosa si agitava nella mia mente. Guardai in lontananza, oltre la postazione nemica, oltre le dune di sabbia e i cespugli di piante grasse, e…
Ma certo! Era la spiaggia che avevo visto nel sogno. E la città, bombardata e ridotta in monconi e detriti… esisteva.
Indicandola, chiesi ai miei ufficiali: —Sarebbe possibile raggiungere quelle rovine senza che gli Skorpis ci vedano?
Quint scosse immediatamente il capo. Frede sembrava scettica. Manfred invece disse: —Potremmo inerpicarci sul crinale, superare le rovine, e scendere laggiù, dove il fiume confluisce nel mare. A quel punto, niente ci impedirebbe di risalire la spiaggia, con le rovine della città tra noi e la postazione degli Skorpis. A meno che non mandino squadre di perlustrazione così lontano, dovremmo passare inosservati.
— A meno che —sottolineò Quint.
— E se non hanno satelliti spia in orbita —rincarò Frede. —Gli infrarossi non perderebbero un solo atomo delle nostre persone.
— Non ci saranno problemi, se cammineremo sulla spiaggia di giorno —replicai. —È inondata dal sole.
— Ma i sensori dei satelliti potrebbero comunque intercettare oggetti in movimento.
Considerai la cosa per qualche minuto: —Prenderemo quella strada —decisi alla fine —Cominciate a far preparare gli uomini; ci metteremo in marcia entro mezzogiorno di domani.
Sebbene riluttanti, scattarono sull’attenti.
— E se avvisteremo pattuglie Skorpis, ci butteremo a terra e le lasceremo passare. Che nessuno spari, a meno che non siano loro a cominciare. Voglio che entriamo all’interno delle rovine passando inosservati, se possibile.
Trascorremmo il resto della giornata aprendoci un varco lungo il crinale montuoso, per poi riscendere fino al crepaccio dove il fiume scorreva diretto al mare. Nella luce morente del tramonto, allestimmo il campo per la notte sulle sponde del corso d’acqua. Niente fuochi. E nessuna pattuglia degli Skorpis in vista.
Non cercai neanche di dormire, quella notte. Mi aggirai tra le ombre, con tutti i sensi all’erta, consapevole che gli Skorpis si trovavano a loro agio nell’oscurità e, soprattutto, chiedendomi se sarebbero stati così compiacenti da restare nel loro campo, e se ci avevano già individuati. Il fiume scorreva tumultuoso, come ansioso di raggiungere il mare. Il vento era caldo e umido come il respiro di un amante. La notte era scura, senza luna, e le stelle che punteggiavano il cielo non avevano alcun significato per me. Non riconoscevo nessuna delle familiari costellazioni della Terra.
Notai un guizzo di luce in prossimità del punto in cui il letto del fiume si allargava a formare una piccola baia. Una pattuglia nemica? Come mai gli Skorpis, creature amanti del buio, avevano bisogno di una luce? Ma non potevano essere i miei soldati, che si trovavano alle mie spalle con l’ordine di non sparare.
Mi diressi cautamente in quella direzione, attento a tenermi vicino alla schiera di alberi che crescevano ai piedi delle rupi. Estrassi la pistola dalla fondina.
La luce si dilatò, si fece più intensa, e all’improvviso capii che cosa stessi guardando. Chi.
Aton, il Radioso, era in piedi, circondato da un’aura luminosa, con le braccia incrociate sul petto e un sorriso pieno di aspettativa dipinto in volto. Non indossava più l’uniforme militare, ma un lungo mantello bianco sopra una tuta aderente di metallo scintillante.
Aveva l’aspetto di un dio, dovevo ammetterlo. Splendido nel volto e nel corpo, sembrava il modello umano ideale a cui Michelangelo o Prassitele si erano ispirati per scolpire i loro capolavori. Eppure, sapevo che la sua apparizione era un’illusione o, meglio, un gesto di pura condiscendenza da parte sua. La vera forma di Aton era una sfera di energia luminosa; assumeva sembianze umane soltanto per trattare con le sue creazioni mortali.
— Ti stai comportando molto bene, Orion —fu il suo saluto.
— Questo pianeta è così importante per i tuoi fini, perché tutti i miei soldati vengano sacrificati?
— È ovvio —rispose. —Perché pensi che ti abbia mandato qui? Ho grande fiducia nelle tue capacità. Dopotutto, sono stato io a crearle.
In quel momento, eravamo fuori dal continuum spazio-temporale, avvolti in una nube di energia che né i miei uomini né gli Skorpis erano in grado di vedere.
— Hai creato anche i miei soldati? —volli sapere.
— Quelle cose? Oh, no! Devi avere una pessima opinione di me, se pensi che avrei potuto costruire strumenti così limitati. No, sono stati concepiti dalla loro stessa specie, dagli umani di questa era.
— E che cosa c’è di tanto importante in questa era?
Lui accennò a una smorfia di derisione. —Come spiegare il tempo a una creatura che lo percepisce in modo così lineare? Vedi, Orion, per quelli di noi che “comprendono”, il tempo è come un oceano, come quell’immenso mare che si stende oltre il vostro ridicolo accampamento. Che tu ti trovi da una parte o dall’altra, l’oceano è sempre lo stesso. Puoi attraversarlo, oppure perderti nelle sue profondità.
— Ci sono correnti nell’oceano. —dissi.
— È così! E ci sono correnti anche nello spazio-tempo.
— E dove, in questo oceano di spazio-tempo, si trova Anya?
Lo vidi rabbuiarsi. —Non pensare a lei. È impegnata altrove. Il tuo compito, invece, è qui.
— Questa è la crisi definitiva di cui parlavi, vero? Qui, su questo pianeta?
— Qui se ne sta svolgendo una parte, Orion. Solo una piccola parte. Piccola ma importante.
— E ti aspetti che distrugga la base degli Skorpis con cinquantadue uomini, senza rinforzi né armi pesanti?
Aton si strinse nelle spalle. —Vorrei poterti aiutare, Orion, ma devi cavartela con i mezzi di cui disponi. Non abbiamo rinforzi da inviarti.
— Allora falliremo. Saremo tutti uccisi, senza speranza di successo.
— Forse ti resusciterò. Se mi sarà possibile.
— E gli altri?
— Non sono affar mio. Non sono stato io a crearli. È stata la loro stessa razza a concepirli.
— Che li considera carne da macello. E in più sono meno costosi dei robot.
Ancora una scrollata di spalle. —Strumenti, Orion, sono solo strumenti. Non puoi pensare che qualcuno si prenda cura di semplici strumenti. Si usano solo per lo scopo per cui sono stati creati.
— E quando il loro scopo si sarà esaurito?
— Si rimettono a posto, fino a quando non se ne avrà nuovamente bisogno.
— Oppure si gettano via perché sono stati danneggiati mentre facevano il proprio dovere.
Aton scosse la chioma dorata. —Come sei sensibile, Orion. Le emozioni servono a motivarti, lo so, ma diventa noioso parlare con te.
— Voglio vedere Anya. Parlare con lei.
— Impossibile.
— Allora andrò a cercarla.
Scoppiò a ridere. —Ma certo, Orion! Fatti spuntare le ali e vola via!
— Ho viaggiato attraverso il continuum da solo —dissi.
— Da solo, dici? Senza l’aiuto della tua adorata Anya? Oppure senza il mio?
— Da solo —insistetti. Ma dentro di me mi chiedevo se era stato davvero così.
— Fa’ il tuo lavoro, Orion. —disse aspro Aton. —Distruggi la base degli Skorpis, anche solo parzialmente, prima che il tuo piccolo esercito venga annientato. Poi, forse, ti porterò da Anya. Se tutto andrà bene.
— Ma i miei soldati…
— Saranno tutti morti, Orion. E non sarai più costretto a preoccuparti per loro.
E scomparve, come una stella eclissata da una nuvola. Restai solo, sulla riva del fiume che scorreva veloce verso il mare.