10

Calò il silenzio. Sui volti di tutti si leggevano choc, paura, sconcerto. Persino la mia feroce carceriera si irrigidì, sorpresa non meno degli altri dall’esplosione di Randa.

E in quel breve momento agii. Se non lo avessi fatto, sarei morto… E non avevo alcuna intenzione di morire.

Con una mossa fulminea, assestai un violento calcio al mento della Skorpis, che barcollò e cadde all’indietro. Prima che potesse risollevarsi, saltai sul tavolo, e tra le urla atterrite degli umani mi catapultai verso una delle finestre, fracassandone il vetro. Le grida dell’ufficiale, simili ai ruggiti di una leonessa in calore, mi seguirono mentre correvo verso la rete d’energia.

Era alta oltre due metri ma, si sa, la paura fa miracoli. Mentre correvo fra le tende e i fabbricati, sentivo alle mie spalle grida eccitate. Il campo brulicava di enormi Skorpis intenti ai lavori più disparati. Sembrarono più sorpresi che allarmati dalla mia corsa disperata verso il mare.

Sapevo che l’ufficiale avrebbe ordinato via radio di fermarmi, e già vedevo sciami di guerrieri uscire dalle baracche allestite in fondo ai due moli gemelli. Altre urla, poi una rossa freccia di energia mi sfiorò sibilando l’orecchio. Un colpo d’avvertimento. Non mi volevano morto, dunque, ma vivo e vegeto per potermi interrogare, ma per fermarmi non avrebbero certamente esitato a ferirmi alle gambe.

Saettai dietro un prefabbricato, poi spiccai nuovamente la corsa in direzione della spiaggia. I moli brulicavano di sentinelle, ma se fossi riuscito a tuffarmi, ragionai, avrei potuto attendere qualche minuto e quindi tornare a nuoto là dove avevo lasciato armi e volazaino. Sempre che gli Skorpis non mi acciuffassero prima.

Sbucando da dietro l’angolo di un’altra costruzione, mi trovai di fronte a una squadra di sei Skorpis, armati fino ai denti e dall’espressione minacciosa. Non detti loro il tempo di sparare: afferrai un macigno e lo lanciai con forza verso di loro. L’adrenalina mi scorreva rapida nelle vene. Crollarono a terra. Li vidi tentare di rimettersi in piedi aggrappandosi l’uno all’altro, e li udii imprecare. Strappai il fucile dalle mani di uno di loro, e cominciai a sparare all’impazzata, piroettando su me stesso.

Non avevo il tempo di verificare quanti ne avessi uccisi o feriti. Ripresi la mia fuga verso la spiaggia. Un’altra squadra stava convergendo su di me da sinistra. Dovevo arrivare all’acqua prima che mi vedessero.

Troppo tardi. Al buio ci vedevano molto meglio di me, e parecchi colpi mi sfiorarono le gambe e andarono a conficcarsi a terra, sollevando nubi di polvere. Quando mi fermai, la sparatoria cessò e i guerrieri si precipitarono verso di me.

Sparai tenendo il fucile con una mano sola, e vidi cadere i due più vicini, poi fui pronto a gettarmi a terra, per schivare i colpi dei loro compagni.

Non potevo indugiare ancora. Ancora pochi minuti, e avrei avuto addosso tutti gli Skorpis della base. Non avevo scelta. Saltai in piedi e, sparando come un forsennato in tutte le direzioni, corsi a perdifiato verso il mare.

Avevo percorso solo pochi metri quando un raggio laser mi trapassò l’anca. Feci pressione sui vasi sanguigni per chiudere i circuiti del dolore e continuai a correre.

Fu il secondo colpo a farmi cadere. Ero stato ferito a una gamba. Puntellandomi sulla canna del fucile, mi risollevai da terra, disperatamente proteso verso il mare, e la salvezza, mentre un nutrito gruppo di Skorpis correva verso di me.

— Vivo! —sentii che gridava uno di loro. —Prendetelo vivo!

Era la mia unica speranza. Riuscii ad abbatterne due, ma ormai parecchi raggi mi avevano raggiunto alle gambe e al petto. Ormai non si preoccupavano più di risparmiarmi: avevo ucciso troppi dei loro.

Mi tuffai che ancora sparavo e altri colpi mi raggiunsero. A dispetto del rigido autocontrollo che mi imponevo, il dolore alle gambe era insopportabile. Un raggio mi attraversò la spalla, costringendomi a mollare il fucile.

Il mondo girava vorticoso intorno a me. Le onde frustavano le mie gambe sanguinanti, e altri raggi mi passavano sibilando sopra la testa. Gli Skorpis sparavano per uccidere.

Scivolai in acqua. Era fredda e il sale bruciava nelle ferite. Come un granchio, cercai rifugio sul fondo. Non c’era un solo centimetro della mia pelle che non fosse ustionato, e a dispetto del controllo che esercitavo sui segnali di dolore, sapevo di essere allo stremo. Avevo le gambe fuori uso, un braccio bruciato fino all’osso e un ampio squarcio nel petto.

Riemersi faticosamente per ingollare lunghe boccate d’aria. Non avevo la forza per nuotare. Stavo per morire, e sapevo che questa volta il Radioso non mi avrebbe riportato in vita. La mia missione era fallita, lo avevo deluso. Avevo deluso me stesso.

Non avrei più visto Anya. Non mi sarei più smarrito nei suoi occhi grigi. Non avrei più sentito il suo tocco, la sua voce.

Il Radioso mi aveva abbandonato, e mi lasciava morire su quell’orribile pianeta. Tutti mi avevano abbandonato, tutti i Creatori. Persino Anya.

Un torrente di amarezza mi travolse. In un angolo della mia mente, echeggiava la risata beffarda di Aton, la sua voce che diceva come fosse stato certo del mio fallimento. Ero solo una creatura, dopotutto. Come avevo osato amare uno dei Creatori? Mi avevano creato perché fossi un loro strumento, non un loro pari.

Rimpianto. Amore per Anya. Odio per il Radioso. Tutti questi sentimenti fluivano dentro di me mentre, agonizzante, ballonzolavo fra le onde di un oceano senza nome.

E qualcos’altro. Qualcosa di cui ero sempre stato ignaro, ma che adesso erompeva con prepotenza. Me stesso. Orion. Non lo schiavo del Radioso. E neppure l’amante della dea Anya. Me stesso. Non contava come fossi stato creato, e da chi. Non contava chi amassi e da chi fossi amato. Esistevo. Vivevo e respiravo, amavo e odiavo. Non mi sarei arreso docilmente alla morte, piangendo sui miei fallimenti e maledicendo il mio destino.

Feci appello alle poche forze rimaste nel mio corpo martoriato e concentrai ogni atomo della mia volontà. C’erano vie all’interno dello spazio-tempo, lo sapevo. Il continuum era come l’oceano, ed esistevano correnti capaci di trasportare da un luogo-tempo all’altro.

Chiusi gli occhi, e ripensai a tutte le volte in cui ero stato traslato attraverso il continuum dello spazio-tempo. Sarei riuscito a spostarmi da solo, con la sola forza della volontà? A raggiungere la città dei Creatori, quella che avevo salvato dalla distruzione di Set, la città protetta da uno scudo di energia?

Con gli occhi chiusi, non potevo vedere le stelle nel cielo notturno. Il mio corpo si raggelò, perse ogni sensibilità. Non percepivo più la carezza delle onde. Il freddo si intensificò, un freddo criogenico che durò un istante infinito.

Poi, sentii il tepore del sole sulla pelle nuda. Aprii gli occhi. Ero disteso sulla pendice erbosa di un colle, e sotto di me la meravigliosa città dei Creatori, avvolta in una luminosa sfera di energia, si stagliava contro il mare calmo e intensamente azzurro.

Una città di monumenti e statue di eroi, tutti dedicati ai Creatori stessi. Piramidi e templi appartenenti a tutte le epoche, tutte le civiltà terrestri. Una città senza abitanti, eccezion fatta per una manciata di Creatori, i sedicenti signori della razza umana, coloro che avevano voluto concedersi l’adorazione dovuta agli dei. Lì avevano trasportato i monumenti che gli umani avevano eretto in loro onore, riunendoli in quella luminosa città destinata alla loro gratificazione.

Mi alzai. Il mio corpo era integro e forte. La brezza che spirava dal mare era fresca, il sole, alto nel cielo, caldo e luminoso. Mi incamminai fra cespugli di fiori selvatici lungo il pendio che portava alla città. Nei boschi alla mia destra, i caprioli ruzzavano felici. Conigli e lepri saltellavano fra l’erba, a volte indugiando a guardarmi e ad annusarmi con nasi frementi.

La città era deserta. Sapevo che c’erano robot e altri congegni meccanici che potevano essere attivati con la sola forza del pensiero. Ma i Creatori non erano lì. Ne fui deluso, ma non sorpreso. Aton mi aveva detto che erano sparsi fra le stelle, e combattevano per risolvere la crisi suprema. Ma se erano esseri in grado di muoversi a loro piacimento nello spazio-tempo… perché la loro casa era vuota, in quel particolare nesso del continuum?

Vagabondai a lungo, chiedendo a me stesso che cosa mi aspettassi da quella visita e ottenendo in risposta solo un vago disagio.

Oltre il tempio maya del Sole, solo in quella città senza tempo. Oltre il Partenone e il grande Buddha dorato che pareva sorridermi con fare allusivo. Attraversai la città da un capo all’altro, fino a trovarmi ai piedi dell’imponente piramide di Cheope, al di là del Colosso di Rodi.

Dietro l’angolo della grande piramide si stendeva l’oceano, limpido e splendente sotto i raggi del sole. Piccole onde spumeggianti lambivano delicatamente la sabbia. Il mare mi chiamò e io camminai verso l’acqua. Quando mi arrivò ai fianchi, mi lasciai andare e cominciai a nuotare lentamente verso l’orizzonte.

— Benvenuto, amico Orion —mi salutò un delfino, improvvisamente comparso al mio fianco. —Siamo felici di averti di nuovo tra noi.

— Tra voi? —ripetei.

Vidi allora che ero circondato da sorridenti mammiferi marini, dalla pelle grigia e liscia, grandi come e forse più di cinque uomini. Non mi sorprese il fatto di comprenderne il linguaggio. Mi sorprese, invece, che loro comprendessero il mio.

— È passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo pescato insieme il veloce tonno —disse il delfino più vicino a me.

— O da quando ci immergevamo per raggiungere la tana del calamaro gigante —aggiunse un altro.

— Dove sono i Creatori? —volli sapere. —Ne avete notizie?

— Gli altri esseri con due gambe? È tanto che se ne sono andati, Orion.

— Non sono molto divertenti. Non fanno che litigare tra loro.

— Dimenticano che noi possiamo sentirli. Il nostro senso dell’udito è molto sviluppato.

— Lo so —dissi, sorridendo, mentre fendevo l’acqua.

— Vieni! —mi invitò il primo. —C’è un intero banco di tonni a non più di cinque chilometri da qui. Banchettiamo con la loro eccellente carne!

— Aspettate! —li pregai. —Non posso nuotare fin laggiù.

— Non hai bisogno di nuotare, amico Orion. Sali sul mio dorso, com’eri solito fare tanti anni fa.

— Se non ti dispiace portarmi…

— Naturalmente no! Un cacciatore aiuta l’altro… siamo tutti amici qui.

Salii sul suo dorso levigato e mi aggrappai alla pinna dorsale. Poi insieme ci avventurammo tra le onde. Il delfino nuotava veloce, tuffandosi e riemergendo con guizzi pieni di vigore.

Mi aveva rammentato altre cacce insieme, e un’antica amicizia. Da parte mia, non ne conservavo alcuna memoria, ma questo non mi avrebbe impedito di godermi quella selvaggia cavalcata fra le onde. L’acqua era così limpida che era possibile vedere fino a considerevoli profondità, e rifrangeva i raggi del sole. Se non fosse stato per le bolle d’aria e i banchi di pesci variopinti, neppure mi sarei accorto di procedere a tratti sotto la superficie.

Eccoci fuori, a ingollare sorsate d’aria fresca, e poi di nuovo giù, sospinti da vigorosi colpi di coda.

Di lì a poco raggiungevamo il banco di tonni; grandi pesci dal corpo snello e argenteo. Nel vederci si volsero all’unisono per fuggire, ma per quanto fossero veloci, i delfini lo erano di più. Ci dividemmo in piccoli gruppi per accerchiarli e prenderli in trappola, come facevano i mongoli nel corso delle loro grandiose cacce annuali. Io abbandonai la mia cavalcatura e con alcuni dei delfini più anziani attesi che gli altri spingessero la preda verso di noi.

— Non lasciarteli scappare! —gridò scherzoso il mio amico, mentre si allontanava verso la sua postazione. Sottacqua, non potei rispondergli.

Presi dal panico, i tonni compirono un ultimo, disperato tentativo di sottrarsi alla loro sorte. Ma già i delfini avevano spalancato le grandi bocche dai denti aguzzi, e li divoravano uno dopo l’altro. Anch’io ne afferrai uno, e dopo averlo ucciso con un morso sulla schiena, risalii lentamente in superficie.

— Soltanto uno, Orion? —scherzò il mio amico. —Per un cacciatore della tua fama?

Risi, mentre addentavo la carne fresca del tonno. —Quanti caprioli sapresti uccidere tu, animale senza gambe? Quante lepri sapresti rincorrere?

In lontananza, scorsi le pinne scure degli squali, probabilmente attratti dal sangue dei tonni. Ma la presenza dei delfini li teneva a distanza. Poi, mentre il sole calava all’orizzonte, tornammo verso la riva.

In prossimità della spiaggia, dove l’acqua mi arrivava alla cintola, abbandonai per la seconda e ultima volta la mia cavalcatura.

— Vi ringrazio della caccia —gridai.

— Il mare è buono, amico Orion. Peccato che tu non sia un delfino, o una balena. Sei un buon compagno, per essere un bipede.

— E voi pure, tutti quanti. Grazie per aver diviso la vostra preda con me.

— Il mare sarà sempre tuo amico, Orion. Si sta bene nell’acqua.

Dopodiché si volsero per tornare in mare aperto. Rimasto solo, mi sdraiai sulla sabbia e lasciai che gli ultimi raggi mi asciugassero.

Il mare mi sarebbe rimasto amico per sempre, così avevano detto i delfini. Ma c’era un luogo, nello spazio-tempo, dove fluttuavo senza speranza nel mare, ferito e morente.

Vi ritornai.

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