— Se ne sono andati —annunciò il tenente Frede, con la voce incrinata dalla stanchezza e dal dolore. Era per terra, appoggiata su un gomito, con il viso sporco e le gambe che grondavano sangue. Nella mano stringeva ancora la pistola.
— Sono morti —borbottò un soldato. —Tutti.
— È stato lei a ucciderli —disse il sergente Manfred. Il braccio destro gli penzolava lungo il fianco e su quel lato il suo volto era gravemente ustionato.
— Li abbiamo uccisi tutti noi —lo corressi. —E abbiamo messo in fuga quelli che restavano.
Nel cielo, la luce livida dell’alba aveva lasciato il posto a un pallido azzurro. Presto sarebbe sorto il sole. Un fumo grigio, acre e pungente, aleggiava nell’aria.
Frede si mise a sedere. Era circondata da corpi; dei nostri soldati e quelli, più massicci, degli Skorpis.
— È stato lei a ucciderli —ripeté, e nella sua voce vibrava una nota di timore. —Non ho mai visto niente di simile.
Gli altri soldati si strinsero attorno a me. Ero il loro salvatore, il loro eroe. Ma ero anche un folle, una macchina da guerra, un assassino spietato. Benché fossero anche loro uomini induriti dalle atrocità della guerra, mi guardavano con ammirazione per le mie prodezze, ma anche con una vena di paura.
— Ebbene —ripresi, cercando di distogliere la conversazione da me —occupiamoci dei feriti. Dov’è Vorl? Dobbiamo inviare un rapporto alla flotta.
— È morta —rispose uno dei soldati. —Una granata.
Puntai l’indice verso i sei soldati che avevano riportato ferite meno gravi e dissi loro che avrebbero formato una squadra di soccorso. Altri sei li mandai a controllare che cosa era rimasto del nostro campo e se le apparecchiature avevano subito danni. Io stesso cercai di mettermi in comunicazione con la flotta, utilizzando gli strumenti inseriti nel casco.
Non ci riuscii, e la cosa mi preoccupò. Non potevano essere gli Skorpis che disturbavano la linea, dato che erano quasi tutti morti e i pochi superstiti in fuga. A meno che non possedessero apparecchiature di disturbo telecomandate. Questo significava che avremmo dovuto inoltrarci nel bosco e setacciarlo alla ricerca…
— Ti sento, Orion. —La voce di Aton era forte e chiara. Sembrava risuonare nella mia mente anziché dai microfoni. —Cala la visiera.
Obbedii e la sua immagine prese forma davanti ai miei occhi. Indossava ancora la sua splendida uniforme bianca e oro, ma il suo volto era cupo.
— Un’imponente flotta nemica è emersa all’improvviso dal subspazio e ci ha attaccato. La maggior parte delle nostre navi è andata distrutta, le altre hanno fatto a tempo a fuggire.
— Fuggire? —gracchiai.
— Erano numericamente in vantaggio, Orion. Se non avessero lasciato la zona, le nostre truppe sarebbero state annientate.
— Ma che ne sarà di noi? E i rinforzi?
— Tu e la tua squadra d’assalto resterete soli fino a che la flotta non sarà ricostituita e potrà tornare su Lunga.
— Non puoi pretendere… —troppo tardi: l’immagine di Aton lampeggiò, tremolò, poi si dissolse.
Sollevai di nuovo la visterà e vidi che gli uomini si erano già messi al lavoro. Nessuno aveva ascoltato la mia conversazione con Aton. Era come se fossi stato brevemente proiettato in un’altra dimensione, isolato da loro da un’invisibile parete.
Li lasciai lavorare, tenendo per me la notizia dell’abbandono della flotta. Prima, volevo scoprire in quali condizioni era la truppa.
La situazione era desolante. Dei nostri cento uomini, quarantasei erano stati uccisi e ventidue avevano riportato gravi ferite, tanto che prevedevano di essere reimbarcati non appena ci fosse stato inviato un mezzo per l’evacuazione. Dei restanti trentadue tutti eravamo feriti, benché ancora in grado di tenerci in piedi ed eventualmente combattere. L’unico illeso era il tenente Quint e la cosa mi lasciò di stucco.
Le condizioni di Frede, invece, erano preoccupanti. Aveva entrambe le gambe spappolate da una granata, e ci sarebbe voluta una settimana, o forse più, perché i rigeneratori telecomandati fossero in grado di saldare le sue ossa frantumate e ricostruire i tessuti. Anche gli altri avevano brutte ferite, ma non disponevamo di attrezzature di rigenerazione sufficienti per curarli tutti.
Il sergente Manfred aveva una brutta ustione sulla spalla, ma a parte una modesta perdita di sangue, poteva ancora camminare. Andai da lui. Era disteso per terra e due militari gli stavano effettuando una trasfusione.
— Manfred, lei ora è tenente —gli annunciai.
Lui sollevò lo sguardo verso di me. —Non ci tengo, signore. Io sono un sottufficiale.
— Lei è tenente, Manfred, e lo resterà fino a quando non troverò qualcuno che prenda il comando della squadra di Vorl. Dovrà comportarsi da tenente, e tale la considereranno i suoi soldati. Fine della discussione.
— Sissignore —borbottò Manfred con evidente disappunto.
— Quanto tempo ci vorrà per la trasfusione? —mi informai, rivolto a uno dei due soldati.
La donna fece un rapido conto. —Nove minuti, signore.
— Tenente Manfred, ci sarà una riunione di ufficiali tra quindici minuti, nel punto in cui sorgeva la mia tenda. Mi raggiunga là.
— Sissignore.
I due soldati lo guardarono sogghignando.
Quando arrivò alla riunione, Manfred aveva la spalla e il volto coperti da bendaggi spray. Frede se ne stava seduta con le gambe tese in avanti, infilate in rigidi tubi rigeneratori che le arrivavano fino alle anche. E Quint sembrava a disagio, quasi pensasse di soffrire anche lui di qualche ferita.
Io avevo diversi tagli e bruciature sulle braccia, le gambe e in viso, ma niente che richiedesse cure particolari al di fuori di una pennellata di gel alle proteine e un po’ di tempo.
— Come stiamo a provviste? —chiesi a Quint.
Lui trasse un lungo sospiro. —Non troppo bene, a essere sinceri. Quasi tutto è andato distrutto durante il combattimento. Abbiamo cibo sufficiente per tre giorni al massimo. Le ricariche per le armi non sono più di una dozzina e le scorte di materiale sanitario sono al limite. Abbiamo bisogno di altri rigeneratori, in particolare. E poi, di nuove tende, tute e…
— Basta così —lo interruppi. —La situazione è già abbastanza chiara.
— Quando arriverà la nave con le attrezzature sanitarie? —si informò Frede.
— Non arriverà —risposi.
— Come sarebbe a dire? Abbiamo feriti che non siamo in grado di curare in modo adeguato! Devono essere ricondotti alla base.
— Non c’è nessuna base. La nostra flotta ha dovuto soccombere a una forza superiore e ha battuto in ritirata.
— Sono fuggiti? —Quint sgranò gli occhi. —Ci hanno lasciato qui e sono fuggiti?
— È così —confermai. —Siamo rimasti soli.
Impiegarono tutti qualche minuto a digerire la brutta notizia. Frede e Quint si scambiarono un’occhiata.
— Quelle dannate lucertole! —biascicò Quint.
Frede si guardò le gambe. —Non mi sono mai fidata di loro… Bastardi dal sangue freddo!
Manfred si limitò ad annuire, come se non si fosse aspettato altro. Mi stupì accorgermi di quanto fosse diverso dagli altri due. Aveva i lineamenti spigolosi, duri, il naso aquilino, gli occhi stretti di un marrone cupo, quasi nero, e i capelli corvini. Persino la pelle era diversa, più scura e tesa sugli zigomi sporgenti.
— Siamo destinati a morire qui —mormorò Quint.
Manfred abbozzò un sorriso. —Qual è la differenza? Se la flotta fosse venuta a riprenderci, ora saremmo di nuovo congelati.
Quint spostò lo sguardo su di lui. —Ma è uno stato da cui si resuscita, prima o poi.
— Certo! —commentò Manfred, —Ogni volta che vogliono che moriamo per loro.
— È così che parlano i traditori!
Era ora di intervenire. —Basta, adesso —intimai. —Non siamo ancora morti e non voglio litigi tra i miei ufficiali. —Rivolgendomi a Manfred aggiunsi: —E vale anche per quelli che lo sono appena diventati.
— Mi dispiace, signore —biascicò lui. Rivolto a me, non a Quint.
— Abbiamo poche razioni di cibo e nessuna speranza di ottenere rifornimenti dalla flotta —ricapitolò Frede. —Che possibilità abbiamo di sopravvivere?
— C’è una base degli Skorpis sul pianeta —replicai. —Lì, di cibo dovrebbe essercene a sufficienza.
— Un’incursione nella base degli Skorpis?
— Ma è un suicidio! —obiettò Quint con veemenza.
Gli indirizzai un sorrisetto amaro. —Preferisce morire combattendo, oppure morire di fame?
Manfred si inserì nella conversazione. —Signore, con tutto il dovuto rispetto, la base degli Skorpis è situata dall’altra parte del pianeta. Ci vorranno più di pochi giorni per raggiungerla. Di che cosa vivremo nel frattempo?
— Di quello che offre la terra. Il rapporto dice che ci sono piante e animali commestibili. Alcuni, almeno.
— E che ne faremo dei feriti? —domandò Frede. —Non tutti sono in grado di muoversi.
— Non possiamo lasciarli qui; morirebbero di fame. E gli Skorpis, quasi sicuramente, torneranno. Di certo sono intenzionati a mettere fuori uso il ricetrasmettitore.
— Anche se la flotta non ci manderà aiuti?
— La flotta potrebbe riuscire a inviarci rifornimenti, prima o poi. È questo che temono gli Skorpis, e torneranno per finire ciò che avevano iniziato.
Frede fece una smorfia. —Così, invece di aspettare che siano loro ad attaccarci, lei vorrebbe farci attraversare l’intero pianeta per sorprenderli nella loro base?
— Aspettarli qui sarebbe una sciocchezza. Preferisco che non sappiano dove siamo.
Quint scosse il capo. —Che differenza fa? Moriremo comunque.
— Che fegato! Questo è lo spirito giusto —commentai seccato.
L’improvviso ronzio dei laser antimissili ci costrinse a sollevare la testa: erano puntati contro il cielo.
— C’è qualcosa in arrivo —proruppi, scattando in piedi.
I laser fecero fuoco e l’eco secca dei loro colpi mi rimbombò nelle orecchie. Qualche secondo dopo, udimmo un’esplosione, come un tuono in lontananza. Un altro colpo sparato dai laser, poi un’altra esplosione, più vicina.
— La nostra base è diventata un bersaglio, ormai —dichiarai. —Dobbiamo andarcene.
Questa volta nessuno obiettò.
Bendati e con il passo incerto, chiamammo a raccolta le truppe e, recuperato ciò che restava delle scorte, ci inoltrammo nel paesaggio sconosciuto in direzione del campo nemico. Io guidavo il gruppo in avanscoperta, i dodici uomini che avevano riportato le ferite più leggere. Altri venti, che se l’erano cavata non troppo male, formavano un cordone attorno ai feriti più gravi. Volavamo a circa un metro dal suolo grazie agli zaini polivalenti telecomandati. A quelli appartenuti ai nostri compagni morti avevamo appeso armi e vettovaglie.
I loro corpi erano rimasti alla base. Era stata una decisione difficile e sofferta. Di solito, una squadra si prende buona cura dei corpi dei caduti, congelandoli se possibile, nella speranza di una futura rianimazione. Altrimenti, i corpi vengono cremati con tutti gli onori militari.
Ma non potevamo portare con noi quarantasei morti; non ne avevamo la forza. E, comunque, ero certo che presto sarebbero stati distrutti da un’esplosione nucleare. Gli Skorpis avevano tentato di impadronirsi della nostra postazione e avevano fallito. Ora erano decisi ad annientarla senza subire ulteriori perdite.
Mentre ci addentravamo nell’ombra della foresta, i laser antimissili continuavano a fare fuoco. Mi chiesi se i nemici si stessero realmente accanendo con tanta determinazione sulla nostra base, o se non stessero lanciando missili civetta nell’intento di esaurire le cariche dei laser. A quel punto, avrebbero potuto lanciarle contro una testata nucleare nell’assoluta certezza che non ci sarebbero state reazioni di sorta.
Cominciammo il nostro viaggio verso mezzogiorno, ora locale, sebbene la fitta coltre di alberi ci impedisse di vedere il sole. Solo qualche raggio filtrava attraverso i rami, formando chiazze più chiare sul terreno.
Da lontano udimmo l’insistente crac dei laser che sparavano a missili in arrivo. Avevo la sensazione che, con il passare delle ore, quel rumore si facesse più intenso e disperato. Era impossibile che i nemici stessero usando tutte quelle testate nucleari, mi dissi. Probabilmente si trattava di un’azione volta soltanto a farci esaurire le scorte di energia.
Finalmente, fummo abbastanza lontani per percepire solo l’eco degli spari. Forse il silenzio stava a significare che i laser non funzionavano più. Se fossimo stati lì, con armi e vettovaglie, avremmo potuto sostituire le ricariche e continuare la difesa della base. Ma non era quello il nostro caso.
Era quasi buio, quando udimmo l’esplosione di un tuono, secca come quella di un’arma in pieno viso. Era l’onda d’urto di un’esplosione nucleare, palpabile persino a distanza. Il cielo alle nostre spalle si incendiò e un ruggito basso, inquietante lacerò l’aria.
Ci fermammo a guardare indietro. Attraverso gli alberi, contro il cielo del tramonto, vedemmo levarsi una nube a forma di fungo, rosso sangue nella luce del sole morente.
— Ecco che la base se ne va —disse qualcuno.
— Aveva ragione —commentò Frede, che viaggiava al mio fianco. Le sue gambe penzolavano inerti a un metro da terra, come quelle di un burattino senza fili. —Se fossimo rimasti laggiù…
— Probabilmente gli Skorpis erano convinti che ci fossimo ancora —replicai. —Forse, pensano di averci uccisi tutti e che adesso non hanno più nulla di cui preoccuparsi.
— Forse —ripeté Frede. Dal tono della voce, però, capii che non era del tutto convinta.
L’esplosione nucleare aveva fatto divampare un incendio di vaste proporzioni nella foresta. Le fiamme lambivano i tronchi degli alberi e un fumo nero offuscava il flebile chiarore delle stelle. Cercammo di frapporre quanta più distanza possibile fra noi e il fuoco, e c’era qualcosa di spettrale nella nostra fuga, illuminata dalla luce dei sensori del casco. Ogni volta che mi voltavo, il vivido bagliore delle fiamme sovraccaricava temporaneamente i sensori, accecandomi. Era come fissare il sole.
Nel buio, vedemmo animali sgattaiolare tra i tronchi, alla ricerca di un rifugio sicuro, proprio come noi. Il terreno sotto di noi sembrava salire, a mano a mano che procedevamo, e diventare più arido. La sete di sangue degli insetti che ci avevano dato l’assalto durante le prime notti sul pianeta sembrava essersi placata. O, forse, ci eravamo semplicemente abituati alla loro fastidiosa presenza.
Finalmente, arrivammo nei pressi di un grande fiume dalle acque rapide. Lo attraversammo e decidemmo di accamparci sull’altra sponda. La mezzanotte era vicina e noi eravamo esausti.
Misi pochi uomini di guardia, perché non sentivo nell’aria odore di pericolo. Decisi, tuttavia, di non accendere il fuoco. Per cena aprimmo le lattine; il cibo era quasi insapore, ma fu piacevole ingoiare qualcosa di caldo.
— Ehi, Klon —sentii un soldato bisbigliare al suo compagno —ti do la mia 24-C/Mark 6 in cambio della tua 24-C/Mark 3.
— E perché? Sanno tutte di polvere.
— A me la Mark 3 piace di più.
— Santo cielo! Ecco, prenditi questa fottuta lattina. Che differenza ci trovi?
Un’altra voce ruppe il silenzio. —Branco di idioti, non sapete che queste razioni sono state preparate dai migliori dietologi dell’esercito per fornire tutte le vitamine e i sali minerali di cui un soldato ha bisogno quotidianamente? Così è scritto sull’etichetta.
— A lui la Mark 3 piace di più —insistette Klon, seccato.
— Gli “piace” questa schifezza?
— Sì, mi piace. Qualcosa da obiettare?
— Non saprei, Klon. Tu che ne pensi?
— Sai come si dice, amico…
Un coro di voci rispose: —Bisogna esserci nati!
Nel sentirli ridere, non potei fare a meno di chiedermi che cosa li rendesse tanto allegri.
Dopo aver mangiato, feci un giro di ricognizione nella zona, felice di potermi sgranchire le gambe dopo un’intera giornata passata a mezz’aria. Le guardie erano in stato di all’erta e la foresta vibrava di vita. Anche senza l’aiuto dei sensori della visiera, individuai diversi animali simili a conigli e altri più piccoli, intenti a mordicchiare le foglie. La selvaggina non doveva mancare, anche se molti animali non erano riusciti a scampare alle fiamme. No, non saremmo morti di fame.
Di solito, mi bastavano poche ore di sonno per recuperare le forze, ma la battaglia della sera precedente e la tensione di quel giorno mi avevano sopraffatto. Assicuratomi che non ci fossero pericoli in vista, passai il comando al tenente Quint e cercai un posto dove stendermi.
Per poco non inciampai nelle gambe del tenente Frede.
Mi affrettai a inginocchiarmi accanto a lei, e le mormorai: —Spero di non averle fatto male.
— Solo un po’ —replicò la donna.
— Come si sente?
— Stanca, soprattutto. Non ho dolori alle gambe, se è questo che voleva sapere.
— Bene.
— Temo che non sarò una brava partner sessuale per un po’ di tempo.
— Nessun problema. —Chissà perché, mi sentivo imbarazzato.
— Può chiedere una volontaria, sa. Abbiamo quattro donne nella truppa che hanno perso in battaglia il loro compagno.
— Non ne ho bisogno.
— Secondo il regolamento si può chiedere anche un partner maschile, anche se già impegnato con una donna.
— Conosco il regolamento —tagliai corto. Ma era vero solo in parte. Non mi ero neanche preso la briga di rivedere le regole, soprattutto quelle riguardanti le pratiche sessuali.
— Lei è scapolo? —chiese Frede.
Avrei desiderato lasciar cadere l’argomento, e fu con riluttanza che risposi: —Per il momento.
— Oh. Dunque c’è qualcuno che l’aspetta.
— Sì —risposi pensando ad Anya.
Ma Frede aveva altro per la mente. —Lei sa, naturalmente, che le regole riguardanti i compiti sessuali sono ugualmente vincolanti per entrambi i membri di una coppia.
— Lo so.
— Questo significa che, qualunque siano le sue preferenze, sarà legato a me per tutta la durata della missione.
— Le ho già detto che lo so.
— Può chiedere una volontaria per il periodo in cui resterò in convalescenza ma, una volta che sarò guarita, sarà vincolato a me.
— Già.
— E questo anche se ha qualcuno che l’aspetta nel posto da dove è venuto.
Alla fine mi resi conto a che cosa mirasse. —Oh, capisco!
Frede rise del mio improvviso disagio. —Non si preoccupi, capitano. Sarò buona con lei.
Si stava prendendo gioco di me!
Allungai una mano e le sfiorai delicatamente il collo. —Non vedo l’ora —le sussurrai.
Poi me ne andai, lasciandola seduta con le gambe spalancate e un’espressione sorpresa in volto.
Ma la ridicolaggine di quella situazione svanì dalla mia mente non appena mi distesi a terra e chiusi gli occhi. Anya. Dove, fra tutti gli spazio-tempo del continuum, si trovava? Perché non potevo stare con lei? Perché ero costretto lì con un gruppo di soldati clonati, tra mille difficoltà, abbandonato in un mondo dimenticato?
Dimenticato, davvero. Dimenticato dal sedicente dio Aton. Abbandonato dai Creatori, da tutti. Anche Anya mi aveva abbandonato? Oppure gli altri l’avevano costretta a starmi lontano?
Non riuscivo a dormire. Chiusi gli occhi e imposi al mio corpo di rilassarsi. Ma non potevo imporre alla mia mente di non pensare. Vidi vite passate, passate missioni che il Radioso mi aveva assegnato. Ero stato Osiride in Egitto molto tempo prima che venisse costruita la prima piramide. Ero stato Prometeo tra il gelo e i ghiacci dell’Era Glaciale. Avevo abbattuto le mura di Gerico e aiutato a scacciare i Neanderthaliani da questo flusso temporale del continuum.
E sempre al servizio di Aton, il Radioso. E con l’aiuto di Anya, la dea che amavo. Il Radioso mi odiava per questo: Aton mi odiava perché Anya mi amava. Spesso lei prendeva sembianze umane per restare al mio fianco. E, ogni volta, lui cercava di separarci. Avevo attraversato l’eternità e anni luce per stare con lei. Ma Aton aveva sempre fatto in modo di tenermene lontano.
Io sono Orion il Cacciatore, creato da Aton per eseguire i suoi ordini, innamorato senza speranza di uno dei Creatori compagni di Aton. Ed eccomi qui, solo, su un pianeta insignificante, nel mezzo di una guerra interstellare, smarrito e abbandonato, con un manipolo di soldati schiavi dei loro creatori esattamente come me.
Perché? Perché il Radioso mi aveva mandato lì e poi abbandonato? Per tenermi lontano da Anya? O per qualche altro scopo, per qualche suo stravagante disegno teso a forgiare il continuum a suo piacimento? Già una volta era impazzito, lo sapevo. Forse era impazzito di nuovo.
— Ma no, pensai; ciò che ha fatto ora ha tutte le caratteristiche di un piano deliberato, calcolato. Mi ha mandato sul pianeta Lunga per una ragione precisa. Semplicemente, non si è degnato di rivelarmela.
I primi raggi di sole cominciavano a filtrare attraverso le chiome degli alberi. Mi alzai a sedere, rinunciando definitivamente a ogni speranza di dormire.
“Bene” dissi a me stesso. “Se il Radioso non vuoi dirmi perché mi ha mandato qui, dovrò scoprirlo da solo.”