14

Nei giorni che seguirono, non smisi mai di rimuginare sulle rivelazioni fattemi da Aton.

Anya combatteva contro il Radioso. Divisi, i Creatori avevano diviso la razza umana in due fazioni in guerra. Avevano persino arruolato specie aliene a mano a mano che il loro dissenso si allargava.

E Anya non mi amava più. Questo mi rifiutavo di crederlo. Poteva odiare Aton e decidere di ostacolarlo ricorrendo a tutta la sua forza e alle sue conoscenze, ma non mi avrebbe mai voltato le spalle.

Nondimeno, restavo un soldato dell’esercito di Aton. La guerra spazza via i sentimenti in torrenti di sangue. Avrei potuto essere ucciso con lo stesso distacco con cui un uomo schiaccia un insetto molesto, ad anni luce di distanza da lei, e Anya non lo avrebbe mai saputo. Sarei stato solo una delle tante pedine perdute dei Creatori.

No, non potevo accettarlo, non potevo crederlo! Anya mi amava, ci eravamo amati nel corso dei millenni e degli anni luce dello spazio-tempo. Non poteva aver smesso di amarmi, così come io non avevo smesso di amare lei.

Come trovarla? Come raggiungerla? Perché dovevo combattere quella guerra insensata al fianco di Aton, invece che al suo?

Erano questi i pensieri che affollavano la mia mente mentre mi sforzavo di aiutare gli scienziati impegnati a Lunga. Invano.

Erano stati mandati lì per stabilire un contatto con gli Antichi e arruolarli nella guerra interstellare. L’unico valore strategico del pianeta era che gli Antichi vi avevano una base. La mia missione, nei tortuosi propositi di Aton, avrebbe dovuto impedire all’Egemonia di stringere un’alleanza con gli Antichi mentre contemporaneamente lui si adoperava per tirarli dalla sua parte.

E, stranamente, la missione sembrava riuscita. Gli Antichi rifiutavano ogni forma di contatto con gli scienziati dell’Egemonia. Nuotammo nell’oceano per giorni e inviammo persino un sommergibile, ma per quanto profondamente ci immergessimo, degli Antichi nessuna traccia…

— Forse hanno lasciato il pianeta —ipotizzò Delos deluso, chino su uno dei display dell’angusto centro intercettazioni del sottomarino. Tutti gli schermi rimandavano la stessa immagine di fondali tranquilli, popolati dalla consueta fauna marina…

— Dici che avevano una città quaggiù? —mi chiese Randa. A bordo lo spazio era talmente scarso che vivevamo pressati come sardine. Sentivo il profumo dei suoi capelli e un odore muschiato di sudore.

Annuii. —Una grande città, benché fosse più un insieme di luci che un agglomerato di strutture.

— Be’, non si vedono né luci né strutture di sorta —biascicò Delos, prossimo all’esasperazione.

— Forse qualcosa blocca i sensori —azzardai. —Li scherma.

Uscii anch’io con un gruppo di sub, ma non trovammo nulla. Era come se gli Antichi non fossero mai stati lì. E tuttavia avevo la netta sensazione che si trovassero nelle vicinanze a osservarci, probabilmente divertiti dalla nostra frustrazione.

L’unica cosa utile che riuscii a fare in quello sconfortante periodo fu garantire una sistemazione migliore per i miei soldati. Mi rifiutai di dormire negli alloggi della comunità scientifica, sostenendo che, come soldato, dovevo ricevere lo stesso trattamento riservato agli altri prigionieri. E ogni volta che venivo condotto dal comandante della base, le chiedevo di fornire di un tetto il nostro recinto.

E una mattina, proprio mentre con la scorta mi apprestavo a lasciarlo per raggiungere gli alloggi degli scienziati, un veicolo si fermò davanti al cancello, carico di teli di plastica e pioli.

— Vi costruirete voi stessi un riparo —disse il sergente alla guida del mezzo. —Non avete bisogno di utensili, potete mettervi subito al lavoro.

Al mio ritorno, quella sera, era stata allestita una tenda del tutto simile alle altre sparse per l’accampamento. Dentro, c’erano anche i letti.

— Ora avremmo bisogno di qualche tramezzo —mi disse Frede in tono semiserio. —Per avere un minimo di privacy.

Ero sospreso dall’adattabilità dimostrata dai miei soldati. Avevano dormito sulla nuda terra nutrendosi una sola volta al giorno e ancora riuscivano a sentirsi riconoscenti di essere vivi.

— Ora dobbiamo fuggire —replicai in un sussurro. —Prima che ci schiaffino nella loro dispensa.

Mi guardò senza capire.

— Per gli Skorpis, i prigionieri sono solo una riserva alimentare. L’unico motivo per cui non siamo stati ancora ibernati è che gli scienziati vogliono la mia collaborazione, e in cambio io ho preteso che voi foste risparmiati.

— Ma fino a quando lavorerai con loro…

Dovevo dirglielo. —Non credo che durerà ancora a lungo. Presto concluderanno che i loro sforzi sono inutili e che non riusciranno mai a mettersi in contatto con gli Antichi.

— In questo caso, dobbiamo andarcene al più presto.

— Proprio così. Ma come?

Non era un problema di facile soluzione. Eravamo quarantanove, disarmati e sotto costante sorveglianza, nel bel mezzo di un campo che ospitava almeno un migliaio di Skorpis. Per giorni e notti mi spremetti il cervello, senza riuscire a mettere a punto un piano di fuga accettabile.

Fino a che una notte ebbi una folgorazione. Non dovevamo fuggire, bensì essere tratti in salvo.

Con indosso il solito paio di calzoncini, giacevo sdraiato sul pavimento di plastica della nostra prigione; Frede, accanto a me, guardava il soffitto. Chiusi gli occhi e in silenzio invocai Aton.

Nessuna risposta. Né ci avevo sperato, non così in fretta. Chiamai a raccolta volontà e ricordi, e ancora una volta mi trasportai nella città vuota dei Creatori. Ero di nuovo sulla collina che dominava la città e il mare, e il sole era caldo.

Per coloro che sanno manipolare lo spazio-tempo, trovarsi in un certo luogo per un breve istante o un millennio ha poca importanza. In qualunque momento, possono tornare al luogo e al tempo da cui si sono allontanati.

— Posso aspettare —gridai al cielo azzurro punteggiato di nubi. —Posso aspettare a lungo quanto te.

Ma l’attesa non fu lunga. Quasi immediatamente, una sfera argentea apparve davanti a me, e il suo chiarore era così abbacinante che non riuscivo a guardarla. Ma era una luminosità che non irradiava calore. Lentamente, la sfera si coagulò e assunse le sembianze di un uomo. Era il Creatore che io chiamavo Hermes: magro, scuro di capelli, e un’espressione di incredulità negli occhi color ebano.

— Orion, la tua interferenza nel continuum è più fastidiosa di un mal di denti.

— Che ne sai tu, del mal di denti? —ribattei.

Lui sogghignò. —Che cosa succede? Che cosa ti porta qui carico di impazienza?

— Sei coinvolto anche tu in questa guerra interstellare?

— Naturalmente. Come tutti.

— E da quale parte sei schierato?

Parve imbarazzato. —Fa differenza per te?

— Puoi condurmi da Anya?

Rifletté un istante, poi scosse il capo. —È meglio di no, Orion. Lei porta sulle spalle il peso del nostro futuro. Non sarebbe felice di vedere te o me.

— Dunque servi il Radioso.

— Io non sono servo nessuno. Ma sì, ho fatto la mia parte a fianco di Aton.

— In questo caso, digli che deve portare in salvo i miei uomini prigionieri nella base Skorpis su Lunga.

— “Deve”, Orion?

— Se vuole assicurarsi i miei servizi in futuro —replicai.

Hermes mi fissò allibito. —Vuoi proporre un patto al tuo Creatore?

Gli sorrisi. —No. Lo farai “tu” per me. Io devo tornare dai miei soldati.

Riaprii gli occhi nella prigione della base; Frede dormiva profondamente al mio fianco.


Il tentativo di salvataggio, quando si verificò, fu effettuato con la stessa approssimazione che aveva caratterizzato tutta la nostra missione su Lunga.

Era il primo pomeriggio. Io ero a bordo del sommergibile con nove degli scienziati, fra cui Delos… lui non mancava mai… e Randa, che continuava a manifestarmi la sua ostilità.

Il guerriero Skorpis che ci accompagnava era talmente imponente che riempiva quasi tutto lo spazio riservato all’equipaggio. Gli umani si sentivano sempre dei nani in mezzo alle attrezzature e agli arredi degli Skorpis, ma quel guerriero era ridicolo fino al grottesco, con gli auricolari. La cuffia era stata progettata per orecchie e dimensioni umane, ma in qualche modo lui era riuscito a infilare gli auricolari nelle sue enormi orecchie passandosi sulla testa un pezzo di nastro adesivo. Non sarebbe stato gradevole, quando lo avesse strappato via. Pallide cicatrici di precedenti auricolari si intravedevano tra la peluria verdastra.

— Si rientra alla base —biascicò a un certo punto.

Delos, chino sui dispay dei sensori, si sollevò con tanto impeto che urtò la testa contro il basso soffitto. —Rientriamo già? Perché?

— Ordini —fu la laconica risposta dell’altro.

Strofinandosi la testa dolorante, Delos allungò una mano verso la consolle della ricetrasmittente. —Passami l’altra cuffia —disse.

Il guerriero obbedì. Delos si infilò la cuffia. Gli stavo vicino, e potei sentire quanto stava dicendo l’operatore dall’altra parte.

— Flotta nemica in avvicinamento. Rientrate immediatamente alla base.

“La missione di salvataggio” pensai con il cuore in gola.

— Ma se si prepara una battaglia, saremo più al sicuro qui, in fondo al mare.

— Gli ordini sono di tornare alla base. Immediatamente.

Delos avrebbe voluto discutere, ma il guerriero che era alla consolle aveva già premuto le sue enormi dita sulla tastiera che attivava i comandi automatici. Il viaggio di ritorno era già cominciato.

E il Radioso stava arrivando a salvare i miei soldati.

Emergemmo in superficie a circa un chilometro dalla spiaggia e puntammo verso il molo. Mentre uscivo, guardai subito in direzione della base, ma era tutto tranquillo. Il cielo era limpido e sereno. Ma nell’aria si respirava una strana atmosfera di aspettativa che fu percepita da tutti, quando gli scienziati rimasti alla base corsero verso il sommergibile per aiutarci ad attraccare.

Ci precipitammo verso gli alloggi degli scienziati, scortati da due guerrieri armati fino ai denti che al nostro arrivo si erano affiancati alla nostra scorta.

— C’è un rifugio sotto l’edificio principale —ansimò Delos. —A me sembrava una sciocchezza, ma gli Skorpis hanno insistito per costruirlo. È schermato e tutto quanto.

La base era in stato d’allerta. In giro non si vedeva nessuno e tutti i lavori consueti erano stati sospesi. Ma tutte le piazzole di tiro erano occupate, e le batterie laser telecomandate erano state già puntate contro il cielo.

— Devo andare dai miei —dissi.

— Non fare lo sciocco —ribatté Delos. —Nel rifugio sarai al sicuro.

Ma io mi stavo già incamminando verso il recinto dei prigionieri. —Il mio posto è con loro —affermai.

Nessuno degli Skorpis tentò di fermarmi, nonostante Delos continuasse a gridare: —Portali tutti al rifugio, se te lo permettono.

Annuii senza fermarmi.

Il recinto era vuoto. Forse gli Skorpis avevano già trasferito i prigionieri in un luogo sicuro? Ero sorpreso, incerto.

Poi in un angolo scorsi una pila di scatole metalliche. —No! —gridai. —Non loro!

Un urlo, simile a quello di una sirena, lacerò l’aria. L’attacco era imminente.

Non ebbi bisogno di contare le scatole. Sapevo che cosa erano. Capsule crioniche. Nel corso della mattinata gli Skorpis avevano ibernato i miei soldati. La piccola gru ferma lì vicino si apprestava probabilmente a trasferire le cassette nei compartimenti alimentari quando la flotta nemica era stata avvistata.

Furente, sferrai alla parete della tenda un calcio così poderoso da farla vacillare, e in quel momento sentii una mano calarmi pesantemente sulla spalla. Mi voltai: era il capo del controspionaggio.

— Va’ nel rifugio —mi ordinò. —L’attacco sta per cominciare.

Stava ancora parlando quando un raggio laser si abbatté sullo scudo energetico che proteggeva la base. Di solito invisibile, sotto l’effetto del raggio la cupola di tramutò in una sorta di ombrello incandescente.

— Al rifugio —sibilò la Skorpis. —Subito! —Mi cinse la vita con un braccio e mi sollevò da terra con la facilità con cui avrebbe sollevato un sacchetto della spesa.

Altri raggi colpirono lo scudo e udii il crepitio delle armi Skorpis rispondere al fuoco. Il mondo tremava intorno a noi, e quando una testata nucleare colpì la base dello scudo fummo scaraventati a terra. Lo scudo assorbì gran parte dell’energia, ma la vibrazione cinetica fu simile a una scossa violenta di terremoto.

Mi rimisi in piedi. La mia compagna mi imitò con maggiore lentezza. Attraverso lo scudo, vedevo lampi di luce attraversare il cielo, come meteore. Le nostre navi, ancora in orbita, catturavano la luce del sole.

Esplosero altre testate mentre attraversavamo il campo, in mezzo a fabbricati che oscillavano pericolosamente a ogni detonazione. Lo scudo era incandescente, ormai. Ancora qualche minuto, e non sarebbe più stato in grado di assorbire energia. Un’altra esplosione ci costrinse a gettarci a terra. Polvere e fumo saturavano l’aria.

Mi passai una mano sul viso per ripulirlo dalla polvere. La Skorpis mi indicò gli alloggi degli scienziati. —Il rifugio —sussurrò.

— E tu?

— Sono di servizio. —Si alzò e mosse verso la direzione opposta, proprio nel momento in cui un altro missile colpiva lo scudo, annerendolo per un’eternità di secondi. La terra sussultò e parecchi fabbricati si sgretolarono. Una trave si staccò e si abbatté sulla schiena della Skorpis, schiacciandola sotto il suo peso.

Mi trascinai verso di lei, mentre altre esplosioni scuotevano la terra.

Era appena cosciente. La trave le aveva fracassato le costole, forse anche la spina dorsale. Chiamai a raccolta tutte le forze rimastemi, e spostai la trave. L’uniforme dell’ufficiale era impregnata di sangue dalle spalle alla vita e lei giaceva riversa, una guancia premuta nella polvere e l’altra sporca di terra e fuliggine.

Mi puntò addosso un occhio giallastro —Non hai obbedito al mio ordine —ansimò.

— Vado a cercare aiuto.

— Non verrà nessuno. Sto morendo. Va’ al rifugio, se non vuoi morire anche tu.

Chiuse gli occhi e il suo respiro si arrestò. Cercai una pulsazione sul polso, poi sulla gola. Nulla, Solo pochi giorni prima, quella cretaura sarebbe stata felice di dilaniarmi, e tuttavia ero restio a lasciarla lì, a riconoscere che non c’era niente che potessi fare per lei.

Un’altra esplosione, e la costruzione vicina a noi cominciò a vibrare. Balzai in piedi e mi allontanai di corsa. Quando mi voltai a guardare, la vidi spaccarsi in due e sgretolarsi sul corpo già martoriato dell’ufficiale.

Per un momento persi il senso dell’orientamento. Mi fermai, sforzandomi di vedere attraverso la polvere che mi turbinava intorno: ormai le esplosioni si susseguivano a ritmo incessante, lo schermo di energia crepitava e sibilava come un televisore difettoso.

Là! I fabbricati che ospitavano la comunità degli scienziati erano ancora in piedi, benché la recinzione elettrica sembrasse fuori uso. Evidentemente gli Skorpis avevano convogliato nello schermo tutta l’energia della base. “Finirà con il sovraccaricarsi e andare in corto” pensai. A quel punto, i nemici avrebbero potuto accanirsi a loro piacimento su di noi.

Ma a che cosa sarebbe servito? mi chiesi mentre entravo nell’edificio principale. La flotta era stata inviata per trarci in salvo, non per annientarci.

O così pensavo io.

Dov’era quel maledetto rifugio? Da qualche parte doveva esserci un porta, ma la polvere e il fumo nascondevano ogni cosa. Un’ennesima esplosione scosse l’edificio e io caddi sulle ginocchia.

— Dove siete? —gridai con quanta forza avevo. —Sono io, Orion!

Nel pavimento si aprì una botola. —Qui sotto —gridò una voce. —Presto!

Mi precipitai in quella direzione, e mi ero appena calato nell’apertura quando una luce verdastra riempì la stanza e un senso di vertigine nauseante, fortissimo, mi travolse.

Poi tutto si fece buio.

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