Parte dell’accordo tra me e il comandante della base Skorpis prevedeva che io lasciassi indisturbato il sistema di Lunga. Ormai solo, presi la stessa direzione dei Tsihn. Le navi Skorpis non mi seguirono, ma sapevo che un semplice ordine del comandante sarebbe stato sufficiente per annientarmi.
La mia nave non era in grado di raggiungere la velocità della luce e la mia unica speranza di salvezza stava nell’intercettare un altro velivolo della Suprema Alleanza. “Una speranza remota” mi dissi. Lo spazio è sconfinato, e gran parte dei mezzi che lo percorrono procedono alla velocità della luce.
Ma io possedevo altri mezzi di comunicazione.
Inserii il pilota automatico, con l’istruzione di avvertirmi in caso di avvistamenti di navi Skorpis o dell’Egemonia. Poi mi appoggiai allo schienale della poltrona, davanti al quadro-comandi e chiusi gli occhi.
Questa volta fu facile. Il Radioso apparve immediatamente, coperto da un meraviglioso mantello. Si stagliava contro il vuoto e l’oscurità dello spazio, splendida figura irradiante gloria e potenza.
— Che strana scimmia sei, Orion! —esordì. —Minacciare di ucciderti se il nemico avesse rifiutato di restituirti i tuoi soldati!
— Sono già morto altre volte —replicai. —Non è poi così terribile.
— Ma ogni volta ti aspetti che io ti resusciti.
Ricordai vagamente una hindu dalla pelle scura e grandi occhi liquidi. —Sarebbe un sollievo poter lasciare la ruota della vita —dissi.
— È il nulla che cerchi? L’oblìo?
— La fine della sofferenza.
Aton abbozzò un sorrisetto sarcastico. —Non è ancora il tempo del tuo nirvana, Orion. Ho altri compiti per te.
— Prima riporta in vita i miei soldati. Risvegliali e permetti loro di condurre un’esistenza normale. Lo meritano.
— Torneranno in vita, te lo prometto. Non ho rinunciato alla speranza di arruolare gli Antichi e altre antiche razze. I tuoi uomini ti aiuteranno a stabilire il prossimo contatto con loro.
— Metti fine a questa guerra —incalzai. —Fa’ cessare questo massacro. Che cosa può esserci di tanto importante da sacrificare miliardi di creature?
— E che cosa hanno queste creature, perché il quando e il dove della loro morte abbia una qualche importanza? Sono creature, Orion. Creazioni mie. Posso usarle come meglio credo. Le uso come devo.
— Perché dovremmo aiutarti a continuare questa guerra? Che senso ha? Perché non puoi mettervi fine?
Scosse il capo, come deluso dalle mie insistenze. —Quanto è scarsa la tua comprensione, Orion! Non credi che lo farei, se solo potessi? Ma non è così facile.
— Perché no?
— Bisogna essere in due per fare la guerra, e bisogna essere in due per stipulare la pace. Anya e i suoi non smetteranno di combattere. Vogliono fare a modo loro e questo ci porterà tutti al disastro.
— Evidentemente lei la pensa in modo diverso.
— E sbaglia!
“Se solo potessi trovare Anya” pensai. “Se solo potessi parlarle, capire perché sta combattendo, quali sono i suoi obiettivi.”
Il radioso mi lesse nella mente. —Ti ucciderebbe, Orion. La dea che ami, ora vuole solo sangue e vendetta. Chiunque sia al mio servizio è suo nemico e lei lo distruggerà. È mia nemica, Orion, e quindi è anche la tua.
“No” pensai. “Anya non sarà mai mia nemica.”
— Pazzo! —sibilò Aton e scomparve.
Ero di nuovo nella cabina di pilotaggio. Le luci sul quadro comandi lampeggiavano e l’allarme suonava a ripetizione.
Lo schermo mostrava una sola nave, dalla linea affusolata, che puntava verso di noi. Aumentando la capacità dei sensori, individuai su una fiancata il simbolo esagonale della Suprema Alleanza.
Era una nave dei Tsihn. Di lì a poco, comparve sullo schermo l’immagine del suo comandante: piccolo e sottile, con il corpo ricoperto da scaglie rosa e giallo pallido.
— Questa è la navetta di ricognizione della Blood Hunter —disse. —E tu sei l’umanoide di nome Orion.
— Esatto.
— Bene. Subito dopo averti agganciato alla nave, lasceremo questo settore. Un velivolo dell’Egemonia potrebbe intercettarci.
Restai a bordo, mentre una squadra di emergenza Tsihn provvedeva ad agganciare i due mezzi. A operazioni ultimate, la nave accelerò e ben presto superò la velocità della luce.
Il comandante dei Tsihn non mi invitò a bordo. Sembrava che non volesse avere nulla a che fare con me. Aveva avuto ordine di inoltrarsi nel settore in cui avevo lasciato la Blood Hunter, trovarmi e condurmi alla base Tsihn più vicina. Non era tenuto a mostrarsi ospitale, neppure civile.
La base Tsihn non era un pianeta, ma una enorme stazione mobile distante un centinaio di anni luce dalla regione di Lunga. Sospesa nel vuoto dello spazio interstellare, era circondata da un anello di gas e polvere, acceso di rosso e di blu enfatizzati da un grappolo di neonate stelle azzurre, lontane pochi anni luce.
La stazione conteneva un’area destinata agli umani, e lì fui condotto da una scorta di Tsihn, senza sapere se mi aspettava una medaglia o la condanna a morte.
Nessuna delle due. Il capo-area era un vecchio generale ingrigito di nome Uxley, con protesi alle gambe e un’espressione di costante ottundimento sul viso flaccido. Le sentinelle Tsihn lasciarono il suo ufficio senza una parola e senza fare il saluto. Io rimasi davanti alla scrivania, sull’attenti.
— Prenderai il comando di un battaglione, Orion —esordì il generale Uxley, senza tanti preamboli. —E non chiedermi perché. Qualcuno nelle alte sfere deve avere una sconfinata fiducia in te, oppure vuole vederti morto. O, forse, entrambe le cose.
Era evidente che non era entusiasta di me. Non avevo un grado e neppure uno stato di servizio. Per lui, ero solo il protetto di qualche alto ufficiale o di un politico, senza una nessuna autentica esperienza militare. E aveva ragione, più di quanto credesse.
— C’è un pezzetto di roccia, Bititu —riprese, mostrandomi un asteroide nerastro sullo schermo a parete. —Nessuno dei capintesta si è preso la briga di spiegarmi qual è il suo valore strategico, ma tu e tuoi soldati dovete impadronirvene. E in fretta, perdipiù.
— Signore —dissi ancora sull’attenti —vorrei che i sopravvissuti alla missione su Lunga facessero parte del mio battaglione.
Lui mi fissò con gli occhi iniettati di sangue. —Perché?
— Perché li conosco, signore, e loro conoscono me. Lavoriamo bene insieme.
— Davvero? —Per qualche istante Uxley tenne lo sguardo abbassato sul display incassato nella sua scrivania. Non potevo vedere ciò che stava guardando, ma dai riflessi luminosi che giocavano sul suo viso avrei giurato che stesse esaminando un numero considerevole di dati.
Alla fine sollevò il mento. —Li hai tirati fuori da una base Skorpis? Da solo?
— Ho negoziato per la loro liberazione, signore. Di colpo si ammorbidì. Abbandonandosi contro lo schienale della poltrona imbottita, mi puntò contro un dito fermo come la roccia. —Tu non fai parte di un esercito regolare, giusto?
— No, signore.
— Tuttavia, sei tornato alla base degli Skorpis per riavere i tuoi uomini.
Non risposi.
— Bene, li avrai con te. Li accorperò al tuo battaglione. Il sergente che aspetta fuori ti mostrerà la tua stanza. Ti consiglio di studiare a fondo Bititu e le difese dell’Egemonia.
— Sissignore. —Salutai e lasciai l’ufficio.
Andai dritto al centro crionico dove i miei soldati venivano riportati in vita. Era uno stanzone enorme, molto simile a quello in cui io stesso mi ero risvegliato in quest’era. Gli ufficiali medici avevano estratto dalle casse metalliche le capsule contenenti i corpi dei soldati e le avevano deposte a terra, collegate tramite sottili cavi ai comandi ambientali e al computer. Frede era in una di quelle capsule, e così Quint, Jerron e tutti gli altri.
— Non si risveglieranno prima di sei ore, almeno —mi spiegò l’ufficiale di servizio. La sua voce rimbombò contro le pareti metalliche della sala.
— Così tanto? —mi stupii.
Lei agitò una mano. —È meglio che il processo avvenga lentamente, una volta che le cellule sono state scongelate. Bisogna somministrare sostanze nutrienti, stimolare il funzionamento del cervello, lasciare loro il tempo di sognare ed evocare eventuali ricordi di poco precedenti all’ibernazione.
Dovevano essere ricordi orribili, pensai. L’ultima cosa che rammentavano erano certamente gli Skorpis che li trascinavano nelle casse. Avevano lottato? Cercato di resistere? Oppure erano andati incontro al loro infelice destino rassegnati, convinti di essere stati abbandonati dal loro comandante?
— Inoltre —proseguì il medico —abbiamo appena ricevuto ordini di inserire nel loro cervello nuove tecniche di addestramento. Grazie a un risveglio graduale, avremo la possibilità di programmare queste nuove nozioni nel sistema nervoso.
Non mi preoccupai di interrogarla circa quelle nuove nozioni. Erano certamente informazioni su Bititu. Decisi invece di tornare nel cubicolo che mi avevano assegnato e cominciare a studiare l’asteroide. Era assurdo che fossi meno informato dei miei soldati sulla missione assegnataci.
— Chiamami, quando cominceranno a svegliarsi —dissi.
— A quell’ora avrò finito il turno —mi rispose lei.
— Be’, quanto ci vorrà? Quando cominceranno a riprendere conoscenza?
— Tra sei ore, te l’ho già detto.
Non avendo alcuna reale necessità di dormire, trascorsi quelle sei ore studiando Bititu. Ciò che appresi non era incoraggiante.
Bititu era un asteroide del sistema di Jilbert, una massa di roccia nuda a forma di rene, lunga una decina di chilometri. Lo stesso Jilbert era una stella nana rossastra con un solo pianeta, un gigante gassoso che descriveva un’orbita così vicina da formare con essa un sistema binario. Il resto del sistema era composto da asteroidi, circostanza inconsueta per una stella nana.
A quanto sembrava, l’Egemonia aveva fortificato Bititu, perché dai rapporti risultava che l’interno dell’asteroide era percorso da diversi tunnel difesi da un intero reggimento di creature simili a ragni di cui si parlava soltanto come degli Aracnidi. Di loro si sapeva pochissimo, e si dubitava perfino che fossero dotati di intelligenza. Alcuni scienziati sostenevano che gli Aracnidi non erano intelligenti individualmente bensì parte di un’intelligenza collettiva, come accadeva anche in altre razze.
L’aspetto più deprimente era che di quegli esseri si ignorava quasi tutto poiché non ne erano mai stati catturati vivi. Combattevano fino allo stremo… una prospettiva non troppo allettante per chi doveva affrontarli.
Il comitato scientifico della Suprema Alleanza chiedeva che prendessimo quanti più prigionieri possibili, da utilizzare a fini di studio. Dalla formulazione della richiesta, risultava evidente la convinzione che i soldati massacrassero deliberatamente gli Aracnidi.
“Nonostante la loro apparenza non umanoide” diceva testualmente “gli Aracnidi devono essere trattati come esseri sensibili e intelligenti. L’uccisione indiscriminata di queste creature è punibile secondo quanto stabilito dal codice militare.”
Spensi il video, disgustato. La missione su Bititu si prospettava massacrante. Non c’era modo di prendere l’asteroide se non con un attacco diretto, ma ci saremmo trovati di fronte a un avversario pronto a combattere fino alla morte. Dubitavo, inoltre, che gli Aracnidi si sarebbero fatti prendere prigionieri per soddisfare la curiosità di qualche scienziato.
Con la mente in subbuglio, tornai al centro crionico.
L’ufficiale medico era cambiato; questo era un uomo dai capelli grigi e il colorito cereo di chi non ha mai visto il sole.
— Si stanno riprendendo —bisbigliò, gli occhi fissi sui display incassati nella parete curva davanti a lui, e tanto fitti da ricordare gli occhi sfaccettati di un enorme insetto.
Sentivo il gelo del sonno crionico nelle ossa. —Non dovrebbe fare un po’ più caldo? —domandai.
L’altro mi lanciò un’occhiata di disapprovazione. —So quello che faccio, soldato.
— Naturalmente.
— Per un po’ si sentiranno disorientati. Le informazioni che hanno ricevuto durante la fase di risveglio resteranno a livello inconscio finché non verranno portate in superficie con la parola chiave.
La frase chiave, lo sapevo, era semplicemente il nome di un asteroide: Bititu.
— Gli ultimi veri ricordi riguarderanno ciò che hanno visto e udito prima di venire ibernati.
Guerrieri Skorpis che li trascinavano verso le capsule. Quei poveretti avrebbero creduto che venivano ridestati solo per l’esecuzione rituale.
— Non c’è un modo per spiegare loro che sono al sicuro, che non sono più prigionieri degli Skorpis?
Il medico mi fissò. —È questo che è successo? Sono stati congelati da quei maledetti gatti?
— Sì.
— Merda! —sibilò, mentre pestava con rabbia i tasti del computer. —Nessuno mi dice mai niente. Fottutissimo esercito… —borbottò.
Sollevò lo sguardo dalla tastiera. —È troppo tardi. Non posso fare niente. Stanno cominciando a svegliarsi e credono di essere ancora prigionieri. Se nessuno di loro avrà un attacco di cuore, sarà un fottuto miracolo.
Cercai di pensare in fretta. Cosa potevo fare? E se avessi cercato di raggiungerli con il pensiero e informarli che erano in salvo e non avevano più niente da temere?
Ma era davvero troppo tardi. Si sentì un clic, poi un sibilo: una delle capsule si era aperta e da essa usciva vapore biancastro. Altre se ne aprirono subito dopo.
Qualcuno gemeva, alcuni piangevano come bambini abbandonati dalla madre.
Mi affrettai verso la capsula più vicina. Vidi un soldato sollevarsi di scatto a sedere, gli occhi dilatati dalla paura.
— Va tutto bene —dissi ad alta voce. —Sei al sicuro, non sei più un prigioniero.
A uno a uno, si svegliarono tutti. Alcuni erano cerei in volto e tremavano. Altri si sollevarono con i pugni chiusi e la mascella serrata, pronti a combattere. Erano quasi tutti piuttosto malconci, con le labbra e gli occhi gonfi e cerchiati, i capelli incrostati di sangue rappreso. Sicuramente non erano entrati in quelle capsule senza lottare.
Cercai Frede. Stava aprendo gli occhi, quando la scorsi.
— Orion? —sussurrò quando mi chinai nella nube di vapore che la avvolgeva. —Hanno preso anche te?
Aveva una guancia gonfia e illividita, e una ferita sul braccio.
— No —la rassicurai. —Sono stato io a prendervi a loro. Ora siete al sicuro. Va tutto bene.
— Al sicuro?
— Ci troviamo in una stazione Tsihn; non siete più alla base Skorpis.
La aiutai a sedersi. Sembrava confusa, disorientata. —Non… non siamo prigionieri?
— Non più. Siete in salvo.
Si guardò attorno, sbattendo le ciglia più volte. —All’inferno, che mal di testa —mormorò. Poi mi gettò le braccia al collo e mi baciò con un tale trasporto che gli altri, benché appena risvegliati, cominciarono a fischiare e urlare.
In quel momento, qualcuno gridò, un grido di agonia, o forse di terrore. Mi sciolsi dall’abbraccio di Frede e corsi alla capsula da dove proveniva il grido. Il tenente Quint, ancora disteso e con gli occhi chiusi, urlava come un ossesso. Teneva le mani protese in avanti, in un gesto di difesa, e scalciava forsennatamente.
— Va tutto bene, Quint! —gridai a mia volta. —Sei al sicuro!
Fu come se non mi avesse sentito. Mi chinai ad afferrarlo per il collo della camicia e lo scrollai con forza più volte. Inutile; Quint si ostinava e tenere gli occhi serrati e a borbottare parole incomprensibili.
Lo schiaffeggiai; non era ferito, notai. —Svegliati! Sono io, Orion. Ormai sei al sicuro.
Tremava come una foglia, ma aprì gli occhi e mi fissò.
— Non sei più tra gli Skorpis —ripresi con tono più dolce. —Non hai più niente da temere.
Altri soldati si erano alzati dalle loro capsule e a passi incerti ci avevano raggiunto. Un odore sgradevole mi fece capire che Quint si era liberato vescica e intestino; se prima dell’ibernazione o al risveglio, non avrei saputo dirlo.
Non volevo che gli altri lo vedessero in quello stato.
— Diamogli il tempo di riprendersi.
Li allontanai con un cenno e ordinai che si mettessero in fila. Erano feriti, sporchi e con le uniformi lacere, ma erano vivi e mi guardavano sogghignando.
— Ce ne saranno stati sicuramente di conciati peggio —risi. —Ma io spero di non vederli mai. Sergenti, fate lavare questi bastardi, trovate gli alloggi e vedete che abbiano uniformi pulite e armi. Gli ufficiali vengano con me.
Erano veterani, in grado di mantenere la disciplina ovunque si trovassero, e in qualunque circostanza. Quanto a me, ci tenevo che i soldati semplici fossero usciti tutti prima di occuparmi di Quint.
Era in uno stato psicofisico pietoso. Frede era l’unico altro tenente sopravvissuto e fu lei ad aiutarmi a trasportarlo al centro di riabilitazione. Con noi venne anche l’ufficiale medico che aveva sovrinteso alle fasi del risveglio.
— Ne ho già visti di ridotti come lui —commentò mentre un paio di robot infermieri prendevano delicatamente Quint tra le pinze metalliche, sollevandolo.
— Non potrà riprendere il servizio attivo fino a quando non sarà stato completamente deprogrammato e riaddestrato. E forse, neppure allora.
— Che ne sarà di lui? —domandai.
Il medico si strinse nelle spalle. —Oh, gli troveranno lavoro in qualche ufficio, immagino. Non avrà problemi a mandare altri soldati a combattere; ma lui… lui non è più fatto per la guerra.
Avrei dovuto provare pietà per Quint; invece, ero risentito, quasi arrabbiato.
Frede me lo lesse in faccia. —Non è colpa sua —disse. —Non è di buona lega.
— Come fai a dirlo?
Lei scrollò le spalle. —Che importanza ha?
Aveva ragione. Che importanza aveva? Nonostante l’addestramento, nonostante fosse stato creato per fare il soldato, nonostante una vita spesa nell’esercito, in Quint ogni combattività si era spenta. Avrei dovuto capirlo su Lunga quando, mentre noi lottavamo per sopravvivere, lui si nascondeva in qualche buco, la testa bassa per non guardare in faccia la morte.
— Per un soldato pensare troppo è dannoso —disse ancora Frede quando, lasciato Quint alle cure dei medici, andammo in cerca dei nostri compagni.
— Forse no. —Pensavo a Randa, secondo la quale i soldati non erano neppure in grado di pensare.
— Ora sei tu il mio comandante in seconda —osservai poi. Stavamo percorrendo una serie di corridoi, guidati dai display montati sulle pareti metalliche. Quasi tutti quelli che incrociammo in quel settore erano umani, fatta eccezione per qualche Tsihn e pochissimi di altre razze.
Lei annuì. —Resteremo qui, oppure ci manderanno in un centro di riposo e riabilitazione?
— Né l’una né l’altra cosa. Ci è stata già assegnata un’altra missione.
— Senza neanche darci il tempo di riprendere fiato? —Frede era indignata, e improvvisamente mi resi conto che era colpa mia.
— Sono stato io a chiedere di avervi con me —confessai.
— Di quale missione si tratta?
— Bititu. È un asteroide nel…
Mi interruppe il lampo che si accese brevemente nei suoi occhi. Senza pensarci, avevo pronunciato la parola chiave e ora le informazioni memorizzate stavano lentamente affiorando dall’inconscio.
— Mai quella più facile per noi, eh? —esclamò.
— Non avrei dovuto chiedere la vostra presenza —mi scusai. —Forse potrei farvi esonerare…
— Impossibile. Non ora, non dopo che siamo stati programmati per questa missione. O ci mandano su Bititu o ci ibernano di nuovo.
Ero senza parole. Non mi era neppure passato per la mente che i miei soldati meritassero un po’ di riposo dopo quanto avevano affrontato su Lunga. E Bititu, prometteva di essere perfino peggiore.
— C’è un particolare della pianificazione che vorrei rivedere —disse Frede quando fummo vicini ai nostri alloggi.
— Quale sarebbe?
— Siamo stati assegnati a partner diversi.
— Questa è la procedura standard, no? L’esercito non vuole coinvolgimenti emotivi fra i suoi ragazzi.
— Giusto, ma ora sei al comando di un battaglione e il grado ha i suoi privilegi.
— Non so se dovrei…
— Non tu —mi interruppe lei con un sorriso malizioso. —Sono o non sono il comandante in seconda? Vuoi dire che approfitterò del “grado” per sostituire la stronza che ti hanno assegnato.