La calma che seguì aveva del soprannaturale. Nelle ombre del sottosuolo, la polvere danzava lenta. Almeno per il momento, i combattimenti erano cessati. Gli Aracnidi miravano probabilmente ad attirarci nelle gallerie dei livelli più bassi.
Avevo detto all’ufficiale medico di allestire la stazione di pronto soccorso e agli uomini di succhiare un po’ della sostanza nutriente che fuoriusciva dai “capezzoli” montati sui caschi. Il prodotto conteneva stimolatori neurali destinati a combattere gli effetti della stanchezza fisica e psicologica: i soldati lo chiamavano “succo della felicità”, “latte di mamma” e con nomi anche peggiori.
Mandai una squadra in superficie per recuperare le granate e gli esplosivi scaricati dai velivoli di sbarco. Il sergente al comando mi riferì che avevano sorpreso alcuni Aracnidi appostati dietro le carcasse di alcune navette.
— Li abbiamo uccisi tutti —concluse, e poi aggiunse: —Credo.
— Indossavano indumenti protettivi? —chiesi io.
— No, signore. Non quelli che ho visto io, almeno.
Ecco una notizia che avrebbe certamente interessato gli scienziati. Feci distribuire le armi tra i soldati sopravvissuti con l’ordine di bombardare pesantemente tutti gli accessi alle gallerie prima di penetrarvi.
— Fate saltare tutte le botole e i portelli —dissi. —Controllate accuratamente ogni crepa, ogni fessura nella roccia. Procedete lentamente e assicuratevi che la zona sia sgombra prima di avanzare.
E davvero procedemmo con lentezza esasperante. Le ore diventarono giorni. Ispezionammo gallerie e botole, in cerca di trappole e covi nascosti. In ultimo, mi misi in contatto con l’astronave madre per chiedere altri esplosivi.
— Avete qualcosa in grado di produrre fiamme a temperatura molto elevata? —domandai.
Dopo una breve consultazione, gli ufficiali Tsihn addetti agli armamenti mi proposero dei preparati chimici che, una volta miscelati, producevano spontaneamente le fiamme.
— Ottimo! Mandatemene più che potete!
Il Tsihn esitò. Vidi nel visore che la sua lingua dardeggiava nervosamente.
— Sono fluidi altamente volatili —spiegò. —Pericolosi da maneggiare.
Scoppiai a ridere. —Che cosa credete che stiamo facendo qui, un picnic?
Non comprese le parole, ma il senso era anche troppo chiaro, e nel giro di poche ore una navetta entrò in orbita di parcheggio a non più di cento metri dall’asteroide e scaricò dozzine di grossi fusti. Un ufficiale Tsihn scese nella caverna del secondo livello che avevo trasformato nella mia postazione di comando. Come noi, portava una tuta, ma la sua era immacolata.
Mi spiegò che i fluidi erano ipergolici. Bastava miscelarli perché producessero fiamme in grado di liquefare persino l’alluminio.
— Fantastico —approvai. —Proprio quello di cui abbiamo bisogno.
I fusti erano coperti da simboli Tsihn, per me null’altro che disegni astratti, piccoli punti neri sparsi sulla curvatura dei cilindri grigi.
— Maneggiateli con attenzione —continuava a ripetere l’ufficiale. —Sono estremamente pericolosi.
— È quello che vogliamo —gli assicurai.
Lo Tsinh se ne andò non appena gli fu possibile.
Ci mettemmo subito al lavoro. In ogni botola versavamo prima il contenuto di un fusto, poi il liquido ipergolico e subito dopo ce la filavamo, mentre un torrente di fiamme si abbatteva sugli Aracnidi urlanti a uno a uno, ripulimmo tutti i tunnel, che percorrevamo non appena le fiamme si erano estinte, circondati da un fumo così denso e untuoso da costringerci a sigillare le visiere e mettere in funzione i sistemi autonomi montati all’interno delle tute.
Scendemmo così, livello dopo livello, tra la fuliggine e centinaia di cadaveri carbonizzati di ragni. Quando scivolavamo loro accanto, la loro carne si sbriciolava in piccoli frammenti, e, a dispetto delle visiere sigillate, un fetore nauseante ci aggrediva le narici. Quella non era una battaglia, pensai; era una carneficina. Gli Aracnidi non avevano alcuna difesa contro il fuoco liquido. Il calore che sprigionava era così intenso da fondere le pareti delle gallerie trasformandole in una superficie scivolosa, vitrea.
Ma non avevamo ancora finito.
Avanzammo fino a raggiungere il cuore del labirinto di gallerie, un’ampia caverna vicina al nucleo stesso dell’asteroide, e abbastanza alta da permetterci di stare in piedi. In essa convergevano cinque dei tunnel principali e i torrenti di fuoco che si erano riversati in essa l’avevano trasformata in un inferno. Pareti, pavimento e volta erano anneriti e distinsi i resti carbonizzati di scatole, e consolle e pezzi di plastica liquefatta. Ma neppure un cadavere.
I miei stivali scricchiolavano sui detriti che ingombravano il terreno. Frede e una dozzina di soldati mi seguivano, la visiera abbassata e il dito posato sul grilletto.
— Si direbbe il loro ultimo avamposto —commentò Frede.
Scossi il capo. —No, se sono furbi. Devono aver capito che il fuoco si sarebbe propagato fin quaggiù.
Quattro portelli mimetizzati nel soffitto si spalancarono simultaneamente, e decine e decine di Aracnidi ci piombarono addosso stridendo. Uno mi atterrò sulle spalle, tanto pesante da farmi cadere sulle ginocchia e con tale impeto da strapparmi il fucile di mano. Vidi due formidabili mandibole accostarsi alla visiera e un raggio laser mi ustionò una mano. Afferrai il ragno con tutte le mie forze e lo scaraventai contro la parete di roccia. Il suo duro carapace assorbì il colpo, parecchi artigli penetrarono nella manica della mia tuta, mentre con altre due zampe la creatura mi sparava al petto.
Indietreggiai, senza mollare la presa e sfilai la pistola dalla fondina. La mano mi pulsava, ma chiusi i recettori del dolore e sparai. Il raggio gli attraversò la testa mandandolo a spiaccicarsi contro la parete.
Mi girai: un altro ragno teneva imprigionato uno dei miei soldati e con la zampa libera armeggiava con il detonatore di una granata. L’esplosione li uccise entrambi e scaraventò a terra il resto di noi.
In preda a una furia crescente, uccisi altri due ragni, quindi un terzo che aveva aggredito Frede da tergo e con il raggio laser ripulii una buona metà della caverna.
L’attacco cessò con la stessa subitaneità con cui era cominciato. Quattro dei miei soldati giacevano a terra, morti o morenti. Ma neppure un ragno era rimasto vivo.
Attraverso l’auricolare sentivo Frede respirare a fatica. —Grazie —mi sussurrò. —Stavo per far esplodere una granata.
— Sono kamikaze —dissi io. —Non avremo prigionieri da offrire agli scienziati per i loro studi.
Lei scoppiò in una risata amara. —Che razza di sfiga.
Dopo quattro giorni di intensi combattimenti, potei finalmente comunicare all’ammiraglio Tsihn che Bititu era nelle nostre mani. Avevo perduto quasi l’ottanta per cento dei miei soldati e io stesso ero ferito al petto e al braccio destro.
L’ammiraglio si congratulò con me, sebbene l’immagine rimandata dalla visiera non mostrasse segni evidenti di soddisfazione.
— L’Egemonia non ha ritenuto necessario rinforzare Bititu —si lamentò. —La mia flotta ha aspettato per niente.
Mentre rientravamo sull’astronave madre, mi scoprii a domandarmi perché la Suprema Alleanza ritenesse quella massa di roccia nuda tanto importante da giustificare il massacro di centinaia di soldati. L’Egemonia non doveva pensarla nello stesso modo, visto che si era ben guardata dall’inviare aiuti agli Aracnidi.
Ero amareggiato. Tutte quelle morti significavano davvero qualcosa, oppure non era che un gioco ingaggiato dai Creatori che non esitavano a usare uomini e alieni per il loro divertimento?
Ma che differenza faceva? Seduto nello shuttle, sporco, insanguinato ed esausto, feci quello che facevano gli altri. Appoggiai la testa alla paratia e mi addormentai.
— Non è un gioco, Orion.
Il Radioso era circondato da una luce così intensa da ferirmi gli occhi. Sollevai la mano, ancora dolorante, per schermarli.
Era grave in volto e nel suo tono non vi era traccia del consueto sarcasmo.
— L’equilibrio delle forze pende dalla parte sbagliata —seguitò. —Anya e i suoi stanno lentamente sopraffacendo la Suprema Alleanza.
— Ma abbiamo preso Bititu —protestai, come un bambino in cerca dell’approvazione paterna. —Non è qualcosa?
— Non abbastanza. L’Egemonia non si è fatta trarre in inganno. La flotta aspettava, ma il nemico non è caduto nella nostra trappola.
— Inganno? Tutti quei morti per sostenere un inganno?
— Non del tutto, Orion. Un buon stratega ha sempre più di un obiettivo in mente. —Qualcosa dell’arrogante sicurezza di un tempo trapelò dalla sua voce. —Sul piano militare la vostra esercitazione non ha dato i risultati che mi aspettavo, ma su quello politico sarà forse più fruttuosa.
— Che cosa intendi dire? —volli sapere.
Lui incrociò le braccia sul petto. —Lo saprai, a tempo debito.
Aprii gli occhi e mi ritrovai al mio posto, in mezzo ai soldati addormentati. Ma si destarono quasi tutti quando lo shuttle atterrò con uno scossone.
— Casa, dolce casa —mormorò qualcuno.
— Già. Non puoi immaginare quanto mi sembri invitante ora una capsula per il sonno crionico —gli fece eco un altro.
Quello scambio di battute mi raggelò. Sonno crionico? Questo era tutto quello che aspettavano i miei uomini?
Ci lasciarono riposare per due giorni interi. I feriti gravi furono ricoverati in infermeria, mentre agli altri, me compreso, prestarono le cure necessarie i medici della base. Fummo quindi autorizzati a tornare nei nostri alloggi. Dormimmo, mangiammo e poi dormimmo ancora.
Il terzo giorno, ci vennero consegnate le nuove uniformi con l’ordine di radunarci nel più grande dei bacini di carico. Ufficiali umani che non avevo mai visto prima, in uniforme candida e carichi di decorazioni, ci fecero marciare accompagnati da una musica marziale diffusa da altoparlanti disposti un po’ dappertutto.
Irrigiditi sull’attenti davanti a una pedana improvvisata, ascoltammo parole che elogiavano il nostro coraggio e la nostra lealtà. C’era anche il generale Uxley, che lesse un discorso palesemente preparato.
— La cerimonia sarà trasmessa anche a Loris —mi bisbigliò Frede all’orecchio.
Loris. Il pianeta capitale della Suprema Alleanza, secondo quanto mi diceva la memoria. L’unico pianeta simile alla Terra del sistema di Giotto, distante da essa duecentosettanta anni-luce.
Infine l’ammiraglio Tsihn lesse una menzione d’onore e distribuì medaglie. Era una ricompensa miserabile per tutto quello che avevamo patito, ma i soldati si dimostrarono pateticamente grati del riconoscimento.
Al termine della cerimonia, Uxley ci sorrise amabilmente e annunciò: —Siete in licenza fino al nostro arrivo alla base sei del settore. Li verrete assegnati ad altre missioni. Rompete le righe!
Frede mi seguì, mentre gli altri soldati si raccoglievano in gruppetti, ridendo e chiacchierando animatamente.
— Pronto per un periodo di riposo e riabilitazione? —mi domandò.
— Non è che ci sia molto da fare su questa bagnarola —borbottai io.
— E se ci cacciassimo sotto le lenzuola?
Colsi un lampo malizioso nei suoi occhi. —Per tutto il viaggio?
Frede scoppiò a ridere. —La battuta è buona, Orion, ma di fatto abbiamo soltanto dodici ore.
Non capivo. —Uxley ha detto che eravamo sollevati da ogni incarico…
— Cioè che ci aspetta di nuovo il sonno cronico —Frede si era fatta seria —Non avrai pensato che ci avrebbero dato da mangiare per tutto il viaggio di ritorno? Qualche watt di elettricità per mantenere liquefatto l’azoto costa molto meno di un branco di soldati sempre tra i piedi.
— Ma io credevo…
Mi afferrò per il braccio, strappandomi un sussulto. —Mi dispiace —si affrettò a scusarsi. —Avevo dimenticato che la ferita non si è ancora rimarginata.
— Frede, mi stai dicendo che dopo quello che abbiamo passato, vogliono ficcarci di nuovo nei congelatori?
Lei ebbe un sorriso triste. —Abbiamo avuto la menzione d’onore e una medaglia ciascuno. Trasmetteranno le riprese della cerimonia nella capitale perché i civili possano vederla. Siamo eroi. Che cosa può chiedere di più un soldato?
Scossi il capo. —Bisogna esserci nati, suppongo.
Frede annuì. —Già. Vieni, ora. Tanto vale approfittarne finché siamo ancora caldi.