3

Mentre la maggior parte della squadra si concedeva qualche istante di prezioso riposo, io tornai alla palude, e cominciai ad azionare i comandi della mia cintura nel tentativo di recuperare gli involucri che giacevano sul fondo.

A uno a uno, li vidi lentamente risalire in superficie. Gli zaini polivalenti funzionavano anche sott’acqua. Speravo soltanto che gli imballaggi fossero a tenuta stagna. Al mio comando, i pacchi si sollevarono in aria, gocciolanti di acqua e fango. Guardandoli da dietro la visiera, sembravano rossi, in netto contrasto con il verde giallastro dello sfondo.

Una delle creature della palude allungò un tentacolo per afferrarne uno, lo sfiorò poi, forse comprendendo che non era commestibile, sparì nuovamente nella melma. Quello era il loro ambiente naturale, mi dissi, e non l’avrebbero abbandonato per la terraferma. O, almeno, questo era ciò che speravo.

Se l’ufficio addetto alle rilevazioni non aveva scoperto in quel luogo l’esistenza di una palude pullulante di creature carnivore, quanto poteva essere accurata la stima dell’Intelligence sulla forza e le capacità nemiche? Un interrogativo decisamente sgradevole.

Il sergente Manfred aveva predisposto i turni di guardia di venti minuti, in modo che ciascuno avesse la possibilità di riposare quaranta minuti. Lui non sembrava dormire molto. Io ero stato creato per sopravvivere quasi senza sonno. Forse anche Manfred possedeva una capacità simile? Era in grado anche lui di controllare ogni parte del proprio corpo, persino il sistema nervoso? Riusciva a rallentare la sua percezione del tempo, così da avere, in battaglia, la sensazione che il nemico si muovesse al rallentatore? E i suoi compagni potevano fare altrettanto?

Continuai a pormi questi interrogativi fino a quando non lo vidi schiacciare un pisolino dopo il terzo cambio di guardia. “No” conclusi allora “Manfred ha bisogno di dormire esattamente come gli altri. Lui non ha i miei stessi doni. Nessuno degli altri li ha. Sono semplici uomini, nati da cellule clonate e addestrati per l’azione.”

Di lì a un’ora, ci mettevamo in marcia attraverso la foresta, diretti al luogo dell’appuntamento. Il cammino era difficoltoso. Faceva caldo e sotto le tute il sudore ci scorreva lungo il corpo. Ma andò peggio a chi se la tolse, perché fu assalito da nugoli di insetti. I malcapitati si affrettarono a infilare di nuovo la tuta, ma gli insetti rimasero all’interno, a banchettare sulla loro pelle. Sarebbe stato uno spettacolo divertente, se i disgraziati non fossero apparsi così platealmente infelici.

I feriti stavano persino peggio. Sospesi a mezz’aria, grazie agli zaini polivalenti, gemevano senza sosta. Uno dei sergenti sibilò ai soldati che gli marciavano vicino: —Branco di imbecilli! Si direbbe che vi abbiano strappato le budella, tanto gridate. Che cosa siete, militari o poppanti?

— Ma sergente —protestò uno di loro —è come avere il fuoco addosso!

— Ho avuto quattro medaglie per le ferite riportate in diverse azioni —disse un altro —ma questo prurito mi sta facendo impazzire.

A ogni passo, mentre procedevamo nella foresta buia con nugoli di insetti che ronzavano sopra le nostre teste, i soldati feriti gridavano e imploravano che si ponesse fine alle loro sofferenze.

Ci imbattemmo nella squadra comandata dal tenente Frede, l’ufficiale medico dell’unità. I suoi feriti non stavano meglio dei miei.

— Non posso visitarli mentre marciamo, signore —disse. —Se ci fermassimo per dieci minuti? Avrei anche bisogno di una lampada.

Il nemico si trovava dall’altra parte del pianeta, o almeno così speravo. Ma che sarebbe accaduto se fossimo incappati in altre brutte sorprese? Per qualche istante scivolai tra gli alberi in silenzio, soppesando i pro e i contro. Frede era al mio fianco.

— D’accordo —cedetti alla fine. —Dieci minuti. Cerchi di schermare la luce.

Le ero accanto, quando esaminò il primo ferito, una donna con un taglio nell’avambraccio, conseguenza all’aggressione delle creature carnivore.

La ferita pullulava di formiche rosse. Frede indietreggiò sorpresa, mentre gli insetti, probabilmente infastiditi dalla luce, si nascondevano nella carne martoriata della poveretta. Lei gridò, non so se per il dolore o la paura.

Mi tolsi la tuta; le formiche mi stavano letteralmente divorando la gamba. Una delle conseguenze dell’inibizione dei segnali di dolore è l’incapacità da parte del corpo di avvertire il cervello del pericolo.

Frede deglutì a fatica, quindi si mise all’opera con decisione. Per allontanare le formiche dovette ricorrere ad astringenti, che strappavano ai soldati grida disperate. Io restai in silenzio quando arrivò il mio turno, e pur nelle tenebre di quella notte maledetta, colsi gli sguardi ammirati dei miei compagni di avventura.

Ci volle solo qualcosa in più dei dieci minuti stabiliti. Una volta superato lo choc, Frede si mostrò rapida ed efficiente. Il suo viso era serio, quando ci rialzammo di nuovo da terra: —Spero che le formiche non abbiano deposto uova nelle ferite —mormorò.

Una prospettiva allettante.

— Dovrò visitarvi tutti, una volta raggiunto il campo base —mi informò ancora.

Ci affrettammo verso il luogo dell’appuntamento. Alberi giganteschi si ergevano attorno a noi nel buio, come colonne di un’enorme cattedrale, ma non c’era traccia di sottobosco. Solo di tanto in tanto, si intravedeva un cespuglio o qualche pianta grassa sconosciuta. Il fitto baldacchino di fronde bloccava la vista del sole e la scarsità di luce, impediva all’erba di crescere.

Ci muovevamo tra i tronchi come due squadre di fantasmi che vagano in una notte di prodigi. Fantasmi che emettevano lamenti. Eravamo circondati da fitte nubi di insetti, ma, liberati dal tormento delle formiche, i feriti avevano smesso di gemere. Di tanto in tanto, i nostri zaini urtavano contro gli alberi o restavano incastrati tra due fusti troppo vicini, e qualcuno era costretto a tornare indietro per recuperarli. Dopo circa due ore, raggiungemmo finalmente il punto convenuto.

Una delle squadre era già lì e la quarta arrivò subito dopo di noi. Dopo che Frede ebbe visitato gli altri feriti, mi appartai con i tenenti, lasciando ai soldati il compito di accertarsi che neppure una cassa di materiale fosse andata perduta. Altri cominciarono a montare le tende.

I tre ufficiali si rassomigliavano in modo impressionante. Della stessa altezza… mi arrivavano al mento… avevano volti larghi, con gli zigomi alti e occhi azzurro chiaro. Alla luce fioca della lampada da campo, notai che avevano tutti il naso spruzzato di efelidi. L’esercito doveva averli clonati dallo stesso stock genetico.

Il tenente Frede era evidentemente una donna equilibrata che non si spaventava facilmente, ma aveva l’aria preoccupata.

— Due dei miei sono morti —annunciò, mentre si sfilava il casco. Aveva gli stessi capelli corti color sabbia degli altri due. —Ho potuto soltanto dare un’occhiata ai feriti durante la marcia, ma non mi è parso che le ferite inferte da quei mostri fossero tanto gravi da risultare fatali.

— Che cosa li ha uccisi, allora? —domandai.

Lei cercò di allontanare gli insetti con un cenno secco della mano. Quei maledetti non ci davano tregua.

— Credo che i mostri della palude abbiano iniettato una qualche tossina nelle ferite —spiegò Frede, grattandosi all’interno del colletto.

— Veleno?

Lei annuì. —Veleno. Il che significa che anche gli altri quattro feriti potrebbero essere stati avvelenati.

— C’è qualcosa…

Non mi lasciò neppure finire. —Sembrano più vittime di un’intossicazione che feriti, e peggiorano di minuto in minuto. Forse anche quelle maledette formiche sono velenose.

Ci pensai su un momento.

— Ho notato, signore —riprese Frede —che lei è stato ferito alla gamba. Come si sente?

— Bene —risposi, poi aggiunsi: —Il mio sistema immunitario produce anticorpi molto rapidamente.

Un altro cenno di assenso. —Allora forse potrei usare un campione del suo sangue per iniettare anticorpi ai feriti.

— Naturalmente. Buona idea!

Così, mentre gli uomini montavano il ricetrasmettitore e l’alba illuminava flebilmente il fitto viluppo di rami sopra di noi, io me ne stavo disteso su un lettino nella tenda del dottor Frede.

— Grazie, signore —mi disse, sollevando la siringa piena di sangue rosso vivo.

Mi misi a sedere e abbassai la manica. —Se gliene serve ancora, me lo faccia sapere.

— Questo dovrebbe essere sufficiente, signore.

Mi alzai. La forma sferica della tenda mi consentiva a malapena di stare al centro senza toccare il soffitto con la testa. Quattro lettini, su cui giacevano i feriti ormai addormentati, occupavano la maggior parte dello spazio. Il tavolo per le visite e l’altra attrezzatura medica erano sistemati all’esterno.

Gli occhi azzurri di Frede mi scrutavano con attenzione. —Lei non è uno di noi, vero?

— Uno di chi?

— Dei corpi ufficiali regolari. Lei proviene da un diverso stock genetico. È più alto, e con gli occhi e i capelli più scuri. Anche il colore è più scuro, quasi olivastro. È un ufficiale volontario?

Abbozzai un sorriso. —No, Frede, non sono un volontario.

Lei ridacchiò. —Allora qualcuno al quartier generale si starà preoccupando parecchio della nostra vita sessuale.

— Che cosa?

— Secondo il ruolino di servizio, lei e io formeremo una coppia per tutta la durata di questa missione. Per me sarà la prima volta in cui mi troverò con qualcuno che non appartiene al mio stesso gruppo clonale.

Dovevo avere un’espressione da perfetto idiota. Nel rapporto o nei miei ricordi non c’era traccia di doveri sessuali.

Il sorriso svanì sulle sue labbra. —Proprio come pensavo —disse seria. —Lei non è affatto un ufficiale dell’esercito, vero?

Mi sedetti sul bordo del lettino. —Sono stato scelto per guidare questa missione da… —Cosa potevo dire? Un Dio? Uno dei Creatori? Un discendente terribilmente evoluto della razza umana che ci considerava semplici giocattoli tra le sue mani, schiavi per i suoi capricci? —…dalle alte sfere —conclusi non senza imbarazzo.

— Non importa —tagliò corto lei. —La maggior parte di noi ha già capito che questa missione è frutto di una fottuta decisione presa nelle alte sfere. Perché altrimenti, avrebbero sollevato dall’incarico il nostro capitano?

— Era lui il suo compagno fisso?

Frede sgranò gli occhi. —Lei non sa niente dei militari, vero? I soldati non hanno compagni fissi. È l’esercito che decide con chi farai coppia, così come decide ogni cosa nella tua vita.

Cominciavo a capire. Quei soldati venivano creati dall’esercito per prestare servizio nell’esercito. Non conoscevano altra vita. Niente genitori, niente famiglie. Solo la vita militare.

— Mi chiedo perché —scherzai ad alta voce —l’esercito non abbia proibito anche la vita sessuale. O, magari, creato i suoi soldati asessuati.

Frede sbuffò. —Potrebbe anche chiedersi perché non usino dei robot invece di esseri umani clonati.

— Già, perché no?

— Perché noi costiamo di meno, ecco perché! E siamo anche migliori. Perché proviamo emozioni. Ha mai visto un robot caricare quando la situazione è disperata? Certo, a volte ci spaventiamo, talvolta scappiamo… ma più spesso restiamo e combattiamo per uccidere il nemico, anche se questo significa andare incontro a morte certa.

Riflettei sulle sue parole. Poi dissi: —Dunque l’esercito ha fatto del sesso una sorta di ricompensa.

Per un attimo, ebbi l’impressione che stesse per schiaffeggiarmi. I suoi occhi mandavano lampi di collera. —Ma da dove viene? L’esercito ci permette di fare sesso perché, senza, non combatteremmo. L’atto sessuale è strettamente connesso con l’aggressività e il senso di protezione, negli esseri umani. Non lo sapeva?

— Credo di no —ammisi.

— Dannazione! Spero che in fatto di tecniche di combattimento sia più informato!

— So combattere —risposi, nel tentativo di placarla.

— Davvero?

Annuii, poi mi alzai e uscii dalla tenda, lasciandola sola. Il suo volto esprimeva più turbamento che collera.

Io sapevo combattere. Dalle guerre dell’Era Glaciale contro i Neanderthaliani, fino alla sconfitta delle orde di Mongoli. Dalla guerra contro i dinosauri e i rettili intelligenti di Set, fino agli assedi di Troia e di Gerico.

Sapevo combattere. Ma che cosa sapevo di come si comandano cento soldati in una guerra che riguarda l’intera galassia, un evento cruciale nello spazio-tempo che deciderà l’esistenza del continuum?

Decisi di scoprirlo.

La maggior parte degli uomini erano occupati ad assemblare il ricetrasmettitore che avrebbe costituito il fulcro della nostra base su Lunga. Dal numero di moduli che avevano già estratto dall’imballaggio, mi ero reso conto che sarebbe stato necessario abbattere alcuni alberi per far posto al materiale, e una squadra era già al lavoro all’altro lato del campo base.

Un’altra squadra stava installando i laser antimissile, l’unica arma pesante che avevamo in dotazione.

— Premuroso da parte dei nostri superiori dotarci di questa attrezzatura —ironizzò una donna, mentre collegava i cavi del generatore al computer che azionava i laser.

— Certo! —concordò l’uomo che lavorava con lei. —Non vogliono che il loro prezioso ricetrasmettitore salti in aria e si dissolva in una nuvola di polvere.

— I raggi laser proteggeranno anche noi, lo sai.

— Sicuro. Finché resteremo vicini al ricetrasmettitore saremo al sicuro dalle testate nucleari.

— È già qualcosa, no?

— I nostri superiori ci vogliono bene. Stanno in piedi nottate intere a preoccuparsi per la nostra salute e la nostra sicurezza.

La donna scoppiò a ridere.

Altri militari stavano montando le tende di forma sferica e sistemando le casse di viveri. Tutti si erano tolti le pesanti tute ora che l’aria del mattino era diventata calda, e lavoravano con indosso magliette e pantaloni macchiati di sudore. Gli insetti, che ci avevano tormentato durante la notte, erano scomparsi non appena il chiarore dell’alba aveva fatto capolino tra la fitta vegetazione. Al campo, l’attività era intensa; al brusio delle voci umane faceva da sfondo il canto degli uccelli. Poi, all’improvviso, un boato: un albero gigantesco era caduto a terra. Per qualche istante, tutto sembrò fermarsi. Poi gli uccelli ripresero a cantare e gli uomini tornarono al lavoro.

Mi diressi verso il sergente Manfred, l’addetto alla sicurezza. Indossava la tuta mimetica e il casco, e stava parlando via radio con i soldati di guardia nella foresta.

— Novità? —chiesi. Io stesso indossavo solo una tuta da lavoro, ma avevo in testa il casco e la pistola assicurata intorno ai fianchi da una cintura. Ripensai a quando portavo un pugnale legato alla coscia, nascosto sotto i pantaloni, e sentii la mancanza di quella rassicurante pressione sulla carne.

— C’è qualcosa più grande di un lemure che si muove ai limiti del raggio del nostro sensore —rispose Manfred con voce bassa e dura.

— L’Intelligence sostiene che non esistono creature più grandi di un lemure su questo pianeta.

— Quei mostri nella palude… erano enormi.

— Ma qui, sul terreno asciutto?

— Potrebbero essere esploratori nemici —replicò lui con voce atona.

— Forse dovremmo scavare delle trincee in vista di un eventuale attacco.

— L’Intelligence sa quanti di questi Skorpis sono sul pianeta?

— Sostengono che si tratta solo di una piccola unità, messa a protezione della squadra che sta costruendo una base.

Manfred grugnì.

Ero d’accordo con lui. In quella missione l’Intelligence non stava facendo una gran bella figura. —Farò scavare le trincee non appena il ricetrasmettitore intercetterà armi pesanti. Nel frattempo…

L’esplosione mi catapultò decine di metri più in là. Una montagna di polvere e detriti mi travolse e un fumo acre oscurò ogni cosa intorno. Sentii altre esplosioni e il crepitio di armi laser.

Manfred strisciò verso di me. —Tutto bene, signore?

— Sì! —Avevo la mano insanguinata, ma non era niente di grave. —Faccia tornare i suoi uomini alla base.

— D’accordo!

Restando carponi, arrancai in direzione della boscaglia, mentre contemporaneamente estraevo la pistola dalla fondina. Non c’era neanche un cespuglio dietro al quale trovare riparo, ma gli alberi potevano nascondere alla vista intere divisioni di uomini. Incollato al terreno, indietreggiai, nella speranza di trovare una buca che mi garantisse un minimo di protezione.

Un raggio laser mi sibilò accanto, rosso come il sangue. Sparai a mia volta, prima di rendermi conto che avrei dovuto disattivare il dispositivo che rendeva visibile il raggio. La luce rossa illuminava il bersaglio, ma al tempo stesso tradiva la tua posizione. L’avevo letto su qualche vecchio manuale.

Come temuto, la risposta fu una sventagliata di raggi. Le mie capacità sensoriali, intanto, si erano acuite, e ora sembrava che tutto intorno a me si svolgesse con lentezza esasperante. Sfortunatamente, era una reazione di scarsa utilità contro quel tipo di armi. Uno dei raggi colpì il terreno a pochi centimetri dal mio viso; gli occhi mi bruciavano e in bocca avevo un sapore acre. Un secondo mi raggiunse alla spalla. Mi schiacciai ancor di più a terra, nella speranza di rendermi invisibile.

Tre granate disegnarono un arco nel cielo, dirette verso di me. Grazie alle mie capacità sensoriali, le vidi volteggiare pigramente nell’aria, come palloncini. Presi la mira e le feci esplodere, riducendole in polvere che cadde lentamente sul terreno. Poi un’altra granata emerse con un sibilo dalla boscaglia; ebbi appena il tempo di colpirla.

Indietreggiai ancora un poco, spiando attraverso gli alberi alla ricerca di qualche traccia del nemico. Nulla. Erano maledettamente in gamba. Ancora qualche esplosione sorda alle mie spalle, poi il silenzio. Passarono i minuti. Gli uccelli ripresero a cinguettare e gli insetti a ronzare.

Indugiai ancora, il ventre contro il terreno, nella speranza di vedere qualcosa, ma tutto era quieto. Niente. Premetti il pulsante che riattivava il raggio visibile, quindi sparai all’impazzata in direzione del punto da cui erano state lanciate le granate. Non ebbi risposta. Puntai allora la pistola contro un grosso cespuglio e continuai a sparare finché non esplose in una fiammata. E ancora nulla; non un movimento, non un suono.

— Capitano? —Nell’auricolare risuonò la voce del mio comandante in seconda, il tenente Quint.

— Parli pure, Quint —bisbigliai al microfono.

— Sta bene, signore?

— Una bruciatura alla spalla, non è niente di grave.

— Sembra che se ne siano andati, signore.

Chiamai a rapporto gli uomini di pattuglia: quattro soldati erano stati uccisi, altri sei feriti. Non c’erano stati altri attacchi.

Aspettai per quasi un’ora. Niente. Tutti gli uomini avevano lasciato il lavoro per imbracciare le armi e rinforzare il perimetro del campo, ma il nemico sembrava svanito nel nulla, con la stessa rapidità con cui era comparso.

Alla fine ci trascinammo faticosamente al campo, ancora in fase di allestimento. Ordinai di raddoppiare la sorveglianza, mentre il tenente Frede si occupava dei feriti e la squadra addetta alla sepoltura congelava i morti. Frede sembrava perplessa mentre mi applicava un gel alle proteine sulla ferita alla spalla.

— Le sue ferite sono già quasi guarite.

— È una capacità di cui sono stato dotato.

— Ma come? La biomedica non è in grado di farlo. Se potessimo, ne doteremmo tutti i nostri soldati.

Mi strinsi nelle spalle. —Immagino di essere il prototipo. Il primo di una nuova stirpe.

Lei mi lanciò un’occhiata carica di sospetto.

— Comunque l’importante è che li abbiamo sconfitti —ripresi, ostentando un’allegria che non provavo.

L’espressione di Frede era ancora dubbiosa.

Fuori, il sergente Manfred aspettava di essere medicato. Aveva il volto pieno di graffi e un braccio bendato alla meglio con un pezzo di tela che grondava sangue.

— Li abbiamo sconfitti —ripetei anche a lui.

— Sono ancora là fuori —replicò serio, con la sicurezza di un veterano. —Questa è stata solo un’esercitazione di prova. Torneranno. Questa notte, con ogni probabilità.

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