19

Così, quando ci imbarcammo per Bititu, il tenente Frede era il mio comandante in seconda e la mia compagna di letto.

La nostra nave andò a unirsi a una flotta piuttosto consistente di corazzate. Il piano prevedeva che raggiungessimo il sistema di Jilbert a una velocità superiore a quella della luce, così da limitare il rischio di intercettazioni negli ultimi istanti, quando saremmo stati costretti a rallentare. Non sarebbe stato un affare da poco, ma l’ammiraglio Tsihn mi assicurò che saremmo arrivati a poche ore luce da Jilbert.

— In questo modo —spiegò —l’Egemonia non avrà il tempo di rafforzare il sistema.

La sala-riunioni era calda e asciutta, al punto che sembrava di essere nel deserto. Eravamo seduti a un tavolo su due livelli; uno ad altezza d’uomo, l’altro più alto di parecchi centimetri, e destinato agli ufficiali Tsihn. Il loro ammiraglio era, naturalmente, il più grosso di tutti; alto quasi tre metri, aveva il petto dalle scaglie brune coperto di medaglie e altri simboli del suo alto grado.

Le pareti della sala erano tappezzate di riproduzioni tridimensionali di aridi paesaggi rocciosi sovrastati da un cielo color bronzo. La tentazione era quella di proteggersi gli occhi con la mano, ma in realtà la luce non era poi così abbagliante.

— La base dell’Egemonia più vicina a Bititu è nel sistema di Justice —feci notare io. —Dista solo una dozzina di anni luce. Il nemico potrebbe inviare una flotta a Bititu prima che noi ne prendiamo possesso.

Rapidissima, la lingua dell’ammiraglio saettò fra i denti e scomparve di nuovo.

— Resteremo nel sistema di Jilbert finché non avrete raggiunto Bititu, non temere —replicò. —La mia flotta è abbastanza potente da tener testa a eventuali tentativi dell’Egemonia di rinforzare le difese intorno a Bititu. Di fatto —proseguì —ci auguriamo qualcosa del genere. Una mossa dell’Egemonia ci darebbe l’opportunità di distruggere una delle sue flotte.

Ero lieto di sentirlo tanto sicuro di sé, ma un’occhiata a Frede e agli altri miei ufficiali mi disse che non condividevano l’ottimismo dell’ammiraglio.

Il mio battaglione trascorse la maggior parte del viaggio addestrandosi. Trasformammo corridoi e compartimenti in tunnel e caverne, gli stessi che ci aspettavamo di trovare su Bititu, e svolgevamo continue esercitazioni. La nostra tattica non prevedeva sottigliezze, basata com’era sull’uso della forza bruta e delle armi. Sapevo che le perdite sarebbero state ingenti.

— Perché la flotta non si limita a far esplodere quel maledetto asteroide e a cancellarlo una volta per tutte dallo spazio? —mi domandò Frede una notte. —Perché Bititu è così importante?

Non avevo risposte convincenti da darle, perciò mi limitai a dire: —Forse la Suprema Alleanza vuole usarlo come base, dopo che lo avremo liberato dall’Egemonia.

— Sai che cosa penso? —fece lei, e continuò senza aspettare la mia risposta: —Penso che sia per via di quegli scienziati teste d’uovo. Vogliono esemplari di Aracnidi da studiare, e vogliono costringerci a catturarli vivi.

— Ma stando ai rapporti, gli Aracnidi combattono fino alla morte —replicai.

— Vallo a far capire agli scienziati!

— Nondimeno —riflettei ad alta voce —la flotta potrebbe bombardare l’asteroide prima del nostro sbarco. Morirebbero gli esemplari sulla superficie, ma non quelli nascosti nelle gallerie e nelle caverne.

— E per noi sarebbe tutto più facile —concordò Frede.

Ma quando sollevai la questione con il vice dell’ammiraglio, un rettile dalle scaglie multicolori, la risposta fu: nessun bombardamento preliminare. Sarebbe servito solo ad allertare gli alleati degli Aracnidi e a ritardare il nostro sbarco.

— Ma una volta nel sistema di Jilbert, a diverse ore-luce dall’asteroide, non li allerteremo ugualmente? —obiettai.

— Nessun bombardamento preliminare —ripeté il rettile. —Il piano non subirà variazioni.

Chiesi di discuterne con l’ammiraglio, ma l’autorizzazione mi fu negata. Avevo l’impressione che gli strateghi che avevano pianificato quell’operazione volessero conquistare Bititu senza danneggiarlo. Erano dispostissimi a mandarci al massacro, pur di mantenere intatto l’asteroide. Ma io la pensavo diversamente.

Affidai a Frede e agli altri ufficiali il compito di esaminare nei minimi particolari le immagini di Bititu, e io stesso passai buona parte delle mie notti su quelle riproduzioni, contrassegnando tutto quello che assomigliava a una botola o a un deposito di armi. Poi, assegnai ciascun obiettivo a uno dei plotoni dotati di armi pesanti.

Il mio piano era di distruggere le difese in superficie durante la fase di sbarco. Perché starcene all’interno dei velivoli senza far nulla? In caso contrario, temevo, le difese degli Aracnidi ci avrebbero fatto saltare in aria prima che atterrassimo.

A mano a mano che ci avvicinavamo al sistema di Jilbert, appesantii ulteriormente l’addestramento. I soldati dormivano poco e ancor meno riposavano. Tutti i giorni e quasi tutte le notti percorrevamo di corsa i corridoi, e, quando non prendevamo d’assalto i tunnel fittizi, studiavamo le immagini di Bititu, memorizzandone ogni crepa, ogni foro.

Qualcuno cominciò a lamentarsi, sostenendo che al momento buono sarebbero stati troppo stanchi per combattere. Reagii stabilendo turni ancora più duri.

— Tra sei ore arriveremo alla velocità relativistica —mi comunicò finalmente un ufficiale Tsihn. —Poi ce ne vorranno altre due o tre per arrivare al luogo dell’imbarco.

Feci preparare i miei soldati e marciammo verso i bacini di carico, dove i velivoli da sbarco erano in attesa, cantando vecchie canzoni di guerra e di sangue. Su mia precisa richiesta, le tute spaziali erano bianche, in modo che potessimo individuarci facilmente a vicenda nelle buie gallerie di Bititu. Nessuno sapeva quali fossero le capacità visive degli Aracnidi, e se distinguessero facilmente il bianco dagli altri colori, ma ero deciso a evitare almeno che ci sparassimo addosso.

Assegnai la fanteria al primo dei quaranta velivoli; io stesso avrei fatto parte del primo reparto.

Frede mi venne vicino, con la visiera del casco sollevata e un sorriso esitante.

— Bene, siamo pronti —disse con voce leggermente tremante.

— Fa’ in modo che la tua squadra colpisca tutti gli obiettivi assegnati —replicai. —Soprattutto le camere di decompressione. Forse quei ragni possono respirare anche in assenza d’aria, ma ne dubito.

— Non mi sono mai piaciuti i ragni —commentò Frede.

— Ora hai l’opportunità di ucciderne a migliaia. Annuì, poi abbassò la visiera e caracollò verso il suo velivolo. Chiusi anch’io la visiera. Avevo fatto tutto il possibile. Ora si trattava di noi o di loro, e non ci sarebbe stata pietà.

Le navette da sbarco erano poco più di gusci corazzati muniti di maniglie e dispositivi di propulsione a poppa. Lasciammo il cargo e scivolammo nell’oscurità dello spazio.

— Si va —disse uno dei soldati. Sentii la sua voce tesa, quasi tremante, attraverso gli auricolari del casco.

— Un altro viaggio gratis, gentilmente offerto dall’esercito.

— Buon divertimento!

— Già. Bisogna esserci nati.

Questa volta, nessuno rise.

In lontananza, la stella rossastra non irradiava quasi luce. La buia sagoma di Bititu sembrava fluttuare tra le stelle. E noi sembravamo sospesi nel vuoto, appena mossi da lievi oscillazioni. Attaccato alla maniglia, circondato dagli uomini della fanteria pesante, dovetti ruotare il corpo per intero per lanciare un ultimo sguardo alla nave trasporto. Più lontano, erano visibili centinaia di incrociatori da battaglia, affusolati e micidiali, in grado di ridurre in polvere Bititu e i suoi difensori.

Con disperata lentezza, ci avvicinavamo all’asteroide. Mi sentivo nudo e solo, benché indossassi la tuta e fossi circondato da decine di soldati. Sull’asteroide, non un segno di vita, non un baluginìo… Bititu, un insignificante ammasso di roccia dalla superficie deturpata da crateri e grotte.

Guardai l’orologio inserito nel polsino della tuta. Il conto alla rovescia sarebbe iniziato con l’attacco alle difese di superficie. Mancavano centonove secondi di agonia.

Vidi qualcosa balenare sull’asteroide. Un riflesso? No, la luce di Jilbert era troppo debole e rossastra. Poi ne vidi un altro e lo scudo frontale di un nostro velivolo parve incendiarsi. Da fessure insospettate, i missili erompevano contro di noi con guizzi luminosi. Colpiti esplodevano in silenziose palle di fuoco, ma continuavano ad arrivare, ed erano sempre più vicini.

Una navetta fu centrata in pieno ed esplose in mille frammenti incandescenti. Poi un’altra, e un’altra ancora. Grida di agonia echeggiavano nei miei auricolari.

— Mirate agli obiettivi di superficie! —gridai al microfono. —Fanteria pesante, contro la superficie. Tutti gli altri plotoni usino le armi antimissili.

Le mie truppe, ben addestrate, obbedirono all’istante. Ma i missili sbucavano dai punti più inaspettati del terreno. Uno esplose a pochi metri da me, e il calore che irradiava era tale da penetrare all’interno della tuta. Un pezzo incandescente colpì le bombole di ossigeno che un soldato aveva sulle spalle. L’uomo scomparve tra gigantesche lingue fiammeggianti.

Attorno a noi, una fantasmagoria di fuoco e colori. I raggi laser squarciavano l’oscurità, accendendo il cielo di sinistri bagliori, ma ormai eravamo vicini. Il nemico, intanto, era passato ad armi più leggere. Un soldato semplice che mi stava vicino fu colpito, e il sangue che sgorgò a getto dalla tuta si solidificò istantaneamente in grumi rossastri. Metà degli equipaggi delle navette era stata uccisa quando toccammo terra.

Balzai fuori, nell’atmosfera quasi priva di gravità, e feci saltare un portello che si apriva parzialmente nella roccia. Era faticoso mantenere la presa sulla superficie; regolai il volazaino e una parvenza di peso mi aiutò ad appiattirmi a terra mentre una salva di raggi laser e proiettili mi passava sibilando sopra la testa.

Voci disperate mi tempestavano.

— Siamo circondati!

— Ho perso il settanta per cento degli uomini! Dobbiamo allontanarci immediatamente.

— Dov’è la fanteria pesante? Deve coprirmi le spalle… subito!

Presi una granata e la scagliai contro il portello di una botola. Esplose senza un suono, mentre il fumo si dissipava rapidamente davanti ai miei occhi, come l’avessi soltanto sognato.

— Giù nel tunnel! —gridai al microfono. —Chi resta in superficie morirà. Coraggio, nel tunnel!

Lanciai un’altra granata nell’imboccatura della galleria, poi scivolai dentro senza smettere di sparare, nella speranza di eliminare eventuali nemici nascosti tra le crepe.

Il tunnel, strettissimo, mi permetteva soltanto di strisciare, ed era tanto buio che dovetti accendere la lampada montata sul casco. Sentii un rumore dietro di me. Mi voltai sulla schiena, la pistola spianata.

— Sono io, signore —mormorò un soldato, e aguzzando gli occhi intravidi una sagoma bianca, anonima come il volto di una scultura, strisciare alle mie spalle.

Girandomi di nuovo sul ventre, mi trovai faccia a faccia con il primo Aracnide. Era nero, largo più di un metro, con otto esili zampe coperte di peluria. Tra le due anteriori, stringeva un oggetto di forma allungata, qualcosa con pinne e una specie di lente puntata contro di me. Dietro l’arma, due mandibole che si aprivano e si chiudevano ritmicamente, e otto occhi, uno diverso dall’altro, fissi su di me.

Chinai la testa, premendo la visiera a terra, e contemporaneamente feci fuoco. Un’ondata di calore investì la sommità del casco, seguita da un gemito stridulo e quindi da un ticchettio di chele sulla roccia nuda.

Quando tornai a sollevare lo sguardo, il ragno era sparito, lasciando dietro di sé una scia di bava giallastra. Solo allora mi accorsi di una galleria che si dipartiva da quella principale. Vi scagliai una granata che esplose immediatamente, coprendomi di detriti e di polvere.

Avanzai carponi verso l’imboccatura del secondo tunnel, dopo aver avvertito i miei di fare strada ai compagni. Le segnalazioni si susseguivano senza sosta.

— Sono milioni!

— Ci stanno inseguendo! Siamo circondati!

— Dobbiamo uscire da questo buco! Sono in troppi!

Ma non c’era modo di uscire. E neppure avremmo potuto tornare ai velivoli, che erano ripartiti subito dopo il nostro sbarco.

Sbirciai nell’oscurità del tunnel. Non vidi nulla, ma percepii suoni graffianti e fievoli strida. L’aria nella galleria era sufficiente a trasportare i rumori fino a me, oppure era la roccia stessa a propagare onde sonore. In lontananza, sentivo il crepitio incessante delle pistole laser. Ed esplosioni, alcune tanto violente da scuotere le pareti di roccia. Polvere, fumo e grida disperate.

— Ce ne sono altri!

— Attenti! È una trappola!

Il tunnel all’improvviso si allargò. La luce proiettata dalla lampada montata sul casco era rossastra e non mi consentiva una visione nitida. Mi venne da pensare che, come noi avevamo messo a punto sensori capaci di individuare lunghezze d’onda invisibili ai nostri occhi, gli Aracnidi avevano forse sviluppato tecnologie di integrazione ai loro sensi naturali. Mi affrettai a spegnere la lampada e proseguii con il solo aiuto degli infrarossi della visiera.

Una detonazione echeggiò alle mie spalle, troppo violenta per essere causata da una granata. Una nube di polvere invase la galleria. Sentii di nuovo il rumore graffiante, e da un corridoio laterale sbucò un ragno. Lo divisi in due con un colpo di fucile. Aguzzai gli occhi per guardare dietro il cadavere e distinsi qualcosa che strisciava lento verso di me. Attesi che i suoi contorni si facessero più nitidi. Un altro ragno. Lo uccisi centrandolo in mezzo al grappolo di occhi.

Ripresi quindi la mia lenta avanzata nel tunnel che si faceva sempre più largo e più alto.

— Mi restano solo sei uomini. Dobbiamo uscire di qui!

— Continuate ad avanzare verso il centro dell’asteroide! —urlai al microfono. —Nessuno uscirà finché ci sarà anche un solo Aracnide vivo!

— Attento, signore!

Rotolai su me stesso e vidi sei Aracnidi calarsi da un portello che si apriva nella volta del tunnel, proprio dietro di me. Il soldato che aveva lanciato l’avvertimento aprì immediatamente il fuoco. Due ragni si slanciarono verso di me. Colpii il primo all’addome, tanto era vicino, ma il secondo mi era già addosso e mi premeva la canna della pistola sul petto. Sparò. Nell’istante in cui il raggio penetrava la tuta e mi ustionava la pelle, con il calcio del fucile gli feci saltar via l’arma. Ruggendo di dolore, gli cacciai il fucile nell’addome e premetti il grilletto. Il mostro esplose, sprizzando su di me e per tutto il tunnel frammenti giallastri e appiccicosi.

Il soldato alle mie spalle era morto con la testa fracassata, ma accanto a lui giacevano i cadaveri di altri due ragni, e un terzo, agonizzante, agitava debolmente le zampe. Il foro aperto nella mia tuta si stava richiudendo e all’interno il sistema medico stava spruzzando un liquido disinfettante, cicatrizzante e analgesico sulla ferita.

Il mio pensiero andò al sesto Aracnide, l’unico scampato. Dov’era? Forse nascosto in qualche recesso, pronto a tenderci una trappola?

Di fronte a me scorsi una luce lontana. Mi mossi in quella direzione. Diverse gallerie convergevano tutte in una sorta di caverna le cui pareti, spalmate di una sostanza fluorescente, emanavano la sgradevole luce giallo-verdastra che mi aveva attirato lì.

Esitai. Sentivo il crepitìo delle pistole laser e l’eco delle esplosioni delle granate. Quella caverna sembrava un punto nodale, e tuttavia pareva priva di difese. Da una galleria laterale arrivarono grida di dolore, e subito dopo tre Aracnidi entrarono zampettando a ritroso nella caverna. Uno di loro infilò un artiglio in una fessura del pavimento e fece scorrere un portello, perfettamente mimetizzato nella roccia.

Proprio in quel momento, i suoi compagni si accorsero di me. Sparai a entrambi, mentre il terzo si calava nell’apertura.

Con il primo colpo di fucile avevo fatto a pezzi un Aracnide e staccato una zampa all’altro, che rispose al fuoco bruciandomi la spalla della tuta. Lo uccisi.

Solo allora mi resi conto che le creature non indossavano protezione alcuna. Forse erano davvero in grado di respirare in un contesto privo di atmosfera, benché nei tunnel di aria ce ne fosse a sufficienza. Ma non era il momento per certe indagini. Il terzo mi lanciò contro una granata. Con i sensi sovraeccitati la vidi volteggiare lentamente in aria, colpire il terreno e rimbalzare verso di me. Indietreggiai verso la galleria da dove era venuto, e la granata esplose in una miriade di schegge. Lo spostamento d’aria mi strappò di mano il fucile. Benché stordito, capii subito di non essere ferito.

Il ragno si sporse dalla botola, la pistola laser puntata contro di me, ma io fui più veloce. Recuperai il fucile e non lo avevo ancora impugnato che stavo già sparando. Colpito agli occhi, l’Aracnide lanciò un grido stridulo e scomparve nella botola.

Strisciai fin lì e guardai giù: decine e decine di Aracnidi si agitavano intorno al compagno ferito. Senza pensarci un solo istante, afferrai una granata e la scaraventai dentro, poi chiusi il portello. La violenza dell’esplosione lo spalancò di nuovo.

Intanto, parecchi soldati stavano convergendo nella grotta dalle diverse gallerie. Avevano le tute macchiate di sangue e uno dei miei aveva perduto un braccio. Esausti, si lasciarono cadere a terra.

— Tutti gli ufficiali a rapporto —ordinai al microfono.

A uno a uno, si misero in collegamento con me. Di parecchi drappelli, erano sopravvissuti i soldati semplici, e furono loro a rispondermi. Non sentii la voce di Frede che all’ultimo.

— Qui Frede. Siamo ridotti a cinque effettivi, tutti feriti. Io sono l’unica ancora intera.

Studiando la mappa sulla visiera e i punti rossi che indicavano le posizioni dei miei uomini, constatai che avevamo più o meno ripulito due livelli delle gallerie che percorrevano l’asteroide. Ne restavano quattro, forse più. E io avevo perduto più del trenta per cento dei miei.

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