8 L’aviatore

Robin aveva voglia di pestare i piedi per terra, ma si guardò bene dal farlo. Dodici anni di esilio nelle regioni a bassa gravità della Congrega le avevano insegnato a evitarlo. Ma emotivamente, nel suo cervello, li stava pestando con furore.

Una delle assistenti la accompagnava all’ascensore, ma Robin se la lasciò presto alle spalle. Rifece la strada tra i monumenti, come una formica in mezzo agli elefanti.

Ridicolo. Gea pensava di impressionarla? Se uno si lasciava impressionare dallo spreco, lei, allora, era addirittura sconvolta.

Cattedrali. Ballerini di tip-tap. Una «cosa» oscena e grassa che si spacciava per la Grande Madre, circondata da una manica di sicofanti. E a coronare il tutto?

Gli eroi.

Sbuffò con disprezzo, rivolta nella generica direzione di Notre Dame.

Per quale motivo, lei, Robin, doveva salvare ventisei estranei? Uno di loro era senza dubbio suo padre. Gea glielo aveva fatto notare espressamente, e lei l’aveva fissata a sua volta, senza capire. Parlare di paternità a Robin era come parlarle della risposta premi alla chiusura mensile della Borsa.

Non si dà niente per niente, aveva detto Gea. E, allora, quei ventisei in paziente attesa che Robin si incamminasse verso una morte orrenda, che cosa davano? Tutto il suo essere si ribellava contro quell’idea. Se anche uno solo dei malati fosse appartenuto alla Congrega, lei avrebbe mosso il Cielo e la Terra per salvarlo. Ma gli estranei?

Quel viaggio su Gea era stato una stupidaggine fin dall’inizio. Adesso non era il caso di sommare nuovi errori a quelli già fatti. Rimanere in quel penosissimo branco di leccastivali smidollati era assolutamente da escludere, e così pure accettare le condizioni di Gea. Se ne sarebbe ritornata a casa sua, per vivere come voleva la Grande Madre.

Giunse all’ascensore e schiacciò il pulsante di chiamata. Udì il suono di un campanello, e le porte si aprirono. Cattiva progettazione, pensò, nel vedere che non c’era un mancorrente a cui afferrarsi. Vide solo due pulsanti: uno con la scritta CIELO, e l’altro con la scritta GIÙ. Schiacciò il secondo, e sollevò le braccia per fare pressione contro il soffitto, nel caso che la discesa fosse troppo rapida. In quella posizione, mentre si aspettava che l’ascensore si muovesse verso il basso, non le parve per niente strano di sentire che i piedi si staccavano dal pavimento. Dovette passare un lungo istante, prima che si accorgesse che il soffitto rimaneva sempre alla stessa distanza. E che, anzi, si stava lentamente allontanando da lei. Si affrettò ad abbassare gli occhi.

Scorse i propri stivali. Seicento chilometri più in basso, scorse Nox, il Mare di Mezzanotte.

Il tempo parve fermarsi. Robin si sentì correre per le estremità un fiotto bruciante di adrenalina. Una serie di immagini le passò in fretta nella mente, piene di dettagli. L’aria aveva un buon sapore. Per un momento, si sentì fortissima, mentre cercava di afferrarsi a qualcosa, con mani e piedi che ormai le sembravano distanti. Poi quella forza si spezzò in mille frammenti, e la paura e la disperazione cercarono di impadronirsi di lei.

Quando cominciò a gridare, il fondo della cabina dell’ascensore le era arrivato all’altezza della cintura. Continuò a sprofondare, gridando e imprecando con rabbia. Le pareti dell’ascensore rimasero sempre irraggiungibili, e la cabina si allontanò sopra di lei e si ridusse a una scatola di luce sempre più piccola.

Robin si mise a fare dei calcoli, ma non perché sperasse di trovare una risposta che la riportasse nel mondo dei vivi. Molti chilometri al di sotto di lei, la aspettava solo la morte. Desiderava unicamente sapere quanti secondi le rimanevano. O minuti? O forse aveva ancora qualche ora da vivere?

In questo, poté avvantaggiarsi dell’insegnamento ricevuto nella Congrega. Conosceva il moto centrifugo, e quel tipo di problema le era familiare, mentre avrebbe avuto qualche difficoltà se si fosse trattato di un vero campo gravitazionale. Robin non era mai stata in campi gravitazionali degni di nota.

Cominciò con uno dei dati del problema, l’accelerazione in corrispondenza del mozzo, che era di un quarantesimo di gravità. Quando il pavimento dell’ascensore si era spalancato sotto di lei, era cominciata a cadere con la velocità di un quarto di metro al secondo. Ma l’accelerazione non sarebbe rimasta costante. Un corpo che si muove all’interno di un oggetto in rotazione non cade in direzione radiale, bensì ha l’impressione di muoversi in senso inverso a quello di rotazione. Vista dall’esterno, la sua traiettoria era una retta, ed era la ruota di Gea a muoversi sotto di lei. La sua accelerazione rispetto alla circonferenza di Gea sarebbe stata molto piccola, all’inizio. Solo dopo avere accumulato una forte componente laterale della velocità avrebbe avuto l’impressione di cadere rapidamente, e se ne sarebbe accorta dalla pressione dell’aria: come un forte vento che soffiava su di lei in direzione contraria a quella della rotazione.

Si guardò attorno, rapidamente. Il vento era già forte. Su una delle pareti verticali, poteva scorgere la cima degli alberi. Era la foresta orizzontale di Gea. Se Gea avesse ruotato nell’altro verso, Robin avrebbe urtato contro quella parete nel giro di pochi secondi, o di pochi minuti. Ma poiché Gea ruotava in modo da allontanarla da quella parete, le rimaneva ancora del tempo.

Poteva eseguire mentalmente alcuni calcoli semplificati, ma non sapeva la densità dell’aria di Gea. Aveva letto da qualche parte che era molto alta: circa due atmosfere in prossimità della circonferenza. Ma come scendeva la pressione quando si raggiungeva il mozzo? Poi pensò che anche lassù era perfettamente respirabile, e calcolò che ci fosse una pressione di un’atmosfera.

Stranamente, quei calcoli matematici riuscirono a calmarla un poco. Non si irritò neppure quando dovette rifarli, anche se era consapevole della loro inutilità. Intendeva fare quel calcolo perché desiderava conoscere con esattezza il momento della sua morte. Era importante morire con decoro. Afferrò il manico della borsa contenente Nasu e riprese i calcoli dall’inizio.

Giunse a una risposta che le pareva assurda, rifece il conto, e poi lo rifece una terza volta per conferma. Facendo la media, ottenne cinquantanove minuti all’urto. Dal calcolo ricavò anche la velocità al momento dell’impatto. Trecento chilometri orari.

Cadeva con la schiena rivolta nella direzione da cui soffiava il vento. Poiché la caduta la portava sia in direzione della circonferenza, sia in quella della parete opposta, il suo corpo non era in posizione verticale. Il mozzo non era più in direzione dei suoi piedi. La parete che si allontanava da lei formava un angolo con il suo corpo. Si guardò attorno.

Lo spettacolo era affascinante. Purtroppo, non era nelle migliori condizioni di spirito per apprezzarlo.

La Congrega, se l’avessero lasciata cadere dal punto da cui era partita lei, sarebbe stata come una scatola di latta precipitata in una ciminiera. Il raggio lungo cui stava cadendo, quello di Rea, era un tubo cavo che in fondo si allargava a campana, e la cui superficie interna era totalmente coperta di alberi che avrebbero fatto impallidire le più alte sequoie. Quegli alberi avevano le radici nella parete del raggio, e crescevano verso l’interno. Robin non riusciva più a distinguere le singole piante, neppure le più grandi, e tutt’intorno a lei la parete sembrava un mare di colore verde cupo. Il raggio era illuminato da doppie file verticali di oblò, ammesso che si potesse dare quel nome ad aperture che avevano almeno un chilometro di diametro.

Allungò il collo, cercando di guardare nella direzione verso cui stava precipitando. Nox si avvicinava. E c’era qualcosa d’altro: una cosa che sembrava sospesa sopra di lei, ai limiti del suo campo visivo. Erano i cavi verticali di Rea. Erano ancorati in corrispondenza di alcuni isolotti del Mare di Mezzanotte, e salivano in linea retta verso l’asse di rotazione; si incontravano poco prima del mozzo, e lassù si intrecciavano, formando una sorta di monumentale «codino» cinese.

Le venne il desiderio di guardare. Torcendosi a mezz’aria, riuscì a stabilizzarsi con la faccia al vento e aprì leggermente gli occhi. I cavi stavano proprio di fronte a lei, e di momento in momento si facevano più vicini.

— O Grande Madre, ascoltami ora! — Mormorò come meglio poté il primo incantesimo della morte, incapace di distogliere gli occhi da quella che le sembrava una parete scura in movimento. A causa della velocità con cui passava davanti ai suoi fili avvolti a elica, Robin aveva l’impressione che il cavo rotasse su se stesso come le insegne dei barbieri.

Le occorse più di un minuto per allontanarsi dal cavo. Quando si trovò nel punto più vicino a esso, tenne il braccio destro ben stretto contro il fianco. Aveva l’impressione di poterlo toccare allungando la mano, anche se sapeva che doveva essere molto più lontano. Una volta oltrepassato il cavo, si girò ancora una volta su se stessa e lo guardò allontanarsi.

Un’ora non sembrava un tempo molto lungo. Certo si poteva rimanere in preda al terrore per un’ora. Cominciò a chiedersi se non ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato, in lei, dato che non era più terrorizzata. Prima che l’avvicinarsi dei cavi avesse fatto nuovamente sorgere, in lei, il terrore, aveva raggiunto una sorta di tranquillità. La sentì ritornare pian piano in lei e l’accolse con piacere. Ci può anche essere una sorta di dolce pace, nel sapere che la morte si avvicina, che sarà rapida e indolore, e che non c’è niente da guadagnare sudando, graffiando l’aria e maledicendo al destino.

Quella pace non poteva durare in eterno, comunque. Ma perché non durava per un’altra ventina di minuti?

Continuava a passare dal fatalismo alla paura. Sapere di non poter fare niente non le era sufficiente. Voleva vivere, non voleva morire, e non c’erano parole per esprimere un dolore così grande.

Nella sua religione, non si credeva che le preghiere potessero avere risposta. In questo senso, la Congrega non pregava affatto. Non chiedeva niente. C’erano alcune cose che si potevano chiedere, certe posizioni che si potevano guadagnare nell’altra vita, ma quando ci si trovava in qualche momento difficile, si restava abbandonati a se stessi. La Grande Madre non interveniva a cambiare il destino individuale, e a Robin non venne neppure in mente di chiederglielo. Ma continuò a chiedersi se c’era qualcuno a cui rivolgersi per chiedere aiuto, qualche potere in quel deserto. E poi si domandò se non era proprio quella, l’intenzione di Gea. Che fosse rimasta a spiarla per tutta la discesa, fino a quel momento, a pochi attimi dalla distruzione? Dopo la prima scossa emotiva, Robin non si era più sorpresa di essere stata trattata in quel modo da Gea. Sembrava armonizzarsi perfettamente con tutte le follie che la «dea» le aveva detto. Ma ora che se ne chiedeva il motivo, l’unico che riusciva a trovare era che Gea voleva costringerla, con il terrore, a proclamarla sua Signora.

Se così era, allora Gea era ancora in grado di fare qualcosa. Robin aprì la bocca, ma non riuscì a emettere alcun suono. Provò di nuovo, ed emise un urlo. Per qualche strana alchimia spirituale, la sua paura si era trasformata in una rabbia divorante, che la faceva tremare più del vento.

— Mai! — gridò. — Mai! Mai! Cancro puzzolente! Abominio! Schifosa, repellente pervertita! Verrò a cercarti nella tomba, e ti squarcerò la pancia, per poi strangolarti con le tue budella puzzolenti! Ti riempirò la pancia di carboni accesi, ti strapperò la lingua, ti infilerò in uno spiedo e ti farò arrostire per l’eternità! Ti maledico! Ora ascoltami, o Grande Madre, e ricorda la mia promessa! Voto la mia ombra a dare eterni tormenti a colei che si chiama Gea!

— Ottima idea.

— E ho solo cominciato! Io…

Guardò in direzione dei suoi piedi. Un metro più in là, c’era una faccia che sogghignava. Non riuscì a vedere molto di più, a causa della posizione in cui si trovava: solo le spalle, il petto straordinariamente largo, e le ali ripiegate sulla schiena.

— Vedo che la prendi con filosofia.

— C’è qualche motivo per cui dovrei agire diversamente? — domandò Robin. — Mi pareva di avere capito tutto, e finora non ho nessuna prova di essermi sbagliata. Sei disposto a giurare, su quello che hai di più caro, che non è stata Gea a mandarti?

— Lo giuro sullo Stormo. Gea sapeva di non gettarti verso morte sicura, ma questo non è opera sua. Io lo faccio senza che nessuno me lo ordini, di mia libera iniziativa.

— Colpirò la parete tra circa cinque minuti.

— Sbagliato. I raggi si allargano come una campana, verso il fondo, ricordi? La larghezza è sufficiente a farti uscire dal raggio e a cadere sull’Iperione orientale, con un angolo di sessanta gradi.

— Se credi di consolarmi… — Ma quelle parole la tranquillizzarono un poco. La sua prima valutazione, sessantotto minuti, pareva dunque giusta, ma la velocità di impatto del suo ultimo calcolo era troppo bassa: la caduta era più lunga di quanto previsto. Si chiese come contasse di aiutarla, l’angelo, a perdere velocità.

— Non posso trasportarti — disse infatti lui. — Ti dirò una cosa: tu mi sorprendi. Finora, ho visto la gente reagire in tutte le maniere. In genere, tutti cercano di insegnarmi cosa devo fare, quando hanno ancora il lume della ragione.

— Io ce l’ho ancora. Come possiamo farcela? Anche il fattore tempo mi sembra importante.

— No, non ancora. Potrò aiutarti quando sarai più vicina al terreno, e ti aiuterò rallentando la tua velocità. Fino a quel momento, rilassati. Ma vedo che non ho bisogno di dirtelo.

Robin non sapeva cosa dirgli. Era quasi isterica, e sentiva avvicinarsi la crisi. L’unico modo per vincerla, si era accorta da tempo, era quello di fingere di essere perfettamente tranquilla. Se riesci a fingerlo abbastanza bene da ingannare un’altra persona, può darsi che tu riesca anche a ingannare te stessa.

Adesso, l’angelo era venuto a mettersi davanti a lei. Osservandolo, Robin notò due cose: primo, che era una delle poche persone da lei viste, forse cinque in tutta la sua vita, che erano più piccole di lei, e, secondo, che lei non aveva nessuna particolare ragione per ritenere che fosse maschio. Si domandò perché lo avesse pensato. L’angelo non aveva organi genitali esterni: tra le sue gambe, si vedeva solo un mucchietto di piume verdi iridescenti. Doveva essere stato a causa della sua magrezza. Nel breve tempo da lei passato su Gea, aveva imparato ad associare la magrezza, la spigolosità, ai maschi. Pareva fatto di corda e di ossa, coperte in pari proporzioni di pelle bruna nuda e di piume multicolori.

— Sei ancora un bambino? — gli chiese.

— Io no. E tu? — Sorrise. — Finalmente, vedo che ti comporti come mi aspettavo. E la prossima domanda sarà se sono maschio o femmina. Sono estremamente maschile, e orgoglioso della malattia. Dico «malattia» perché i maschi, tra gli angeli, hanno una durata di vita che è metà di quella delle femmine, sono più piccoli e hanno meno resistenza. Ma ci sono anche dei lati positivi. Non hai mai fatto l’amore in aria?

— Non ho mai fatto l’amore da nessuna parte, almeno nel senso a cui probabilmente ti riferisci.

— E desideri provare? Abbiamo circa un quarto d’ora, e ti garantisco un’esperienza indimenticabile. Ti va l’idea?

— No. Non capisco perché la cosa ti interessi tanto.

— Sono un depravato — confessò lui, tutto soddisfatto. — Ho questa passione per la ciccia. Non me ne sazierei mai. Me ne sto sempre di sentinella da queste parti, aspettando che qualche bella cicciona umana mi passi davanti. Io faccio un favore a lei, e lei fa un favore a me. Siamo contenti in due.

— Cos’è, una specie di pedaggio?

— No, non un pedaggio. Io ti salverò in qualsiasi caso. Non mi piace vedere la gente spiaccicata per terra. Ma cosa mi dici? Non è una grande richiesta. Quasi tutte sono state ben liete di farmi il piacere.

— Non io.

— Sei davvero strana, non te l’ho detto? Non ho mai visto un’umana con dei disegni come i tuoi. Sono macchie di nascita? O appartieni a qualche strana sottorazza dell’umanità? Non capisco perché non vuoi fare l’amore con me. Non ci vuole molto tempo. Mi basta un minuto. Chiedo troppo?

— Chiedi troppe domande.

— Vorrei solamente… ehi! È quasi ora di voltarsi, se non vogliamo sfracellarci. Attenta!

Robin si era voltata di scatto, in preda al panico, immaginando che la terra fosse già sotto di loro. Prese male il vento, di spalla, e cominciò a capitombolare.

— Rilassati — consigliò l’angelo. — E vedrai che ti raddrizzerai. Ecco, così va bene. Adesso, guarda se riesci a girare su te stessa. Tieni le braccia lungo i fianchi, e spostale pian piano all’indietro.

Robin fece come le diceva l’angelo, e infine si trovò in una posizione che ricordava il tuffo del cigno. Ora stavano attraversando la zona crepuscolare, e la loro quota era abbastanza bassa, tanto che si cominciava a scorgere il movimento del terreno. L’angelo le si mise alle spalle, e la strinse tra le braccia. Erano dure e robuste come corde: con una le serrò il petto, con l’altra i fianchi. Robin sentì premere contro il dorso del collo le piume che crescevano sulle guance dell’angelo; poi il calore delle sue labbra che le sfioravano il lobo dell’orecchio. . — Sei così morbida, così incantevole da stringere…

— Per la Grande Madre, se vuoi stuprarmi, fallo subito, e che tu sia maledetto, pavonaccio bugiardo! Non abbiamo molto tempo. — Robin rabbrividiva; la paura di cadere e una punta di nausea stavano velocemente demolendo il suo autocontrollo.

— Cos’hai nella borsa? — domandò lui, allegramente.

— Il mio demone.

— Va bene. Quando una non vuole rispondere… Ma tienila ben stretta. Si comincia.

Ora che cominciò lentamente ad aprire le grandi ali, le sue braccia si irrigidirono come morse. Robin riacquistò bruscamente il peso, e la sua caduta libera divenne un volo sospesa a un aquilone. Non riuscì più a tenere le gambe ben tese. Dovette lasciare che si abbassassero, e quel movimento spostò l’equilibrio di tutti e due; presero a dondolare lentamente attorno al baricentro delle ali dell’angelo, posto al di sotto delle sue scapole.

L’angelo cominciò lentamente a virare, e il terreno parve inclinarsi sotto di loro. A quanto capì Robin, il suo compagno si dirigeva verso il fiume Ofione, nel punto dove passava sotto il cavo ancorato alla Casa del Vento. In quella zona, il fiume era largo, profondo e placido, e correva in direzione sud-est. Per poterlo fare, l’angelo doveva prima spostarsi un poco a sud, e poi un poco a nord, per seguire il corso del fiume. A quel punto doveva poi allungare la traiettoria, volando quanto più possibile parallelo al terreno. Se non ci fosse stato l’angelo, Robin avrebbe toccato terra molto prima di arrivare al fiume.

Passarono al di sopra di un gruppo di crateri. Robin non ne domandò l’origine. Non potevano essere stati prodotti dalla caduta di qualche persona; novanta metri al secondo non potevano dare una così grande energia cinetica. Ma un oggetto più pesante, gettato dal punto da cui era partita lei, sarebbe stato in grado di farlo.

Adesso l’angelo allargò le ali al massimo della loro ampiezza. Sotto di loro, il terreno era coperto di collinette e di foreste, ma più avanti si poteva scorgere la distesa del fiume. Pareva impossibile che riuscissero a raggiungerlo, e non c’era la possibilità di riprendere quota e di provare una seconda volta. L’angelo poteva sollevare poco più del proprio peso.

— Al momento dell’impatto, penso di poter ridurre a settanta ottanta chilometri l’ora la tua velocità — le gridò lui nell’orecchio. — Quando sarò certo di raggiungere il fiume, cercherò di frenare con dei brevi scatti. Entrerai nell’acqua a volo radente.

— Non so nuotare.

— Neppure io. A quel punto, dovrai provvedere con i tuoi propri mezzi.

Fu un’esperienza assai strana. L’angelo la strinse con maggiore forza, e Robin trasse un profondo respiro, con il cuore che le batteva come un maglio. Poi ripresero a procedere in volo librato, molto al di sopra delle acque scure del fiume. Un forte scossone, e lei, istintivamente, tese le braccia in avanti, ma la terra era ancora lontana. Il terzo strattone fu il più forte di tutti. Per alcuni secondi, Robin non riuscì a riprendere fiato.

Intanto la riva si avvicinava, alla loro destra. Più avanti, il fiume curvava verso ovest.

Le parve di colpire l’acqua di schiena, ma era troppo scossa per capirlo. La successiva cosa che riuscì a ricordare, fu che era immersa nell’acqua fangosa e che agitava le braccia in direzione della luce.

Il nuoto, a quanto le parve di capire, doveva essere un’attività faticosa. Ma era stupefacente il numero di cose che si riusciva a fare quando si era nell’acqua fino al naso.

Quando Robin uscì faticosamente dall’acqua, vide che l’angelo la stava aspettando, in piedi sulla riva. Non riusciva a stare in piedi bene, perché non aveva i piedi adatti a quel tipo di operazione. I suoi piedi erano simili a zampe di uccello, con dita lunghe e sottili, fatte per tenersi ai rami degli alberi. Robin percorse un paio di metri sull’argine, poi si lasciò cadere a terra.

— Ascolta, regalami questa — disse l’angelo, prendendole la borsa. — Il lavoro che ho fatto merita un premio, non puoi negarlo. — Aprì la borsa, emise un suono soffocato, si affrettò a richiuderla e la lasciò cadere a terra, facendo un passo indietro.

— Ti avevo avvertito — disse Robin, con voce stanca.

L’angelo era irritato. — Allora, cos’altro hai?

— Da qualche parte, devo avere dei soldi. Prendili tutti.

— E cosa me ne faccio? L’unico posto dove potrei spenderli è in quella gabbia di matti che hanno costruito i titanidi.

Robin si mise a sedere, e si passò le dita fra i capelli bagnati, per toglierseli dagli occhi.

— Parli bene l’inglese — gli disse.

— E cosa ne sai? Si possono dire delle cose bellissime in questa lingua, se c’è qualcuno che ha voglia di ascoltarle.

— Scusa se ti ho offeso, ma non l’ho fatto apposta. Ero preoccupata.

— Adesso non hai più motivo di esserlo.

— Te ne sono grata. Mi hai salvato la vita, ti ringrazio.

— D’accordo, d’accordo. Ho imparato l’inglese da mia nonna, detto per inciso. Mi ha anche insegnato che non si dà niente per niente. Che cos’hai, oltre al denaro?

Aveva un anello, un dono di sua madre. Lo fece vedere all’angelo. Lui lo prese e lo esaminò con poca convinzione.

— Va bene. Cos’altro hai?

— Non ho altro. Solo i vestiti che indosso.

— Prendo quelli.

— Ma il resto della mia roba…

— È all’albergo. Vai da quella parte, e ci arrivi. La giornata è tiepida. Fatti una bella camminata.

Robin si sfilò gli stivali e li svuotò dell’acqua che contenevano. La maglietta venne via senza difficoltà, ma le fu difficile togliersi i calzoni bagnati.

Lui li prese, e rimase per qualche istante ad ammirare Robin.

— Se solo sapessi quanto mi piacciono le donne umane grasse.

— Questa donna, puoi scordartela. E, poi, cosa intendi dire, con «grasse»? Io non sono affatto grassa. — Era turbata dal modo in cui lui la guardava: una sensazione del tutto nuova per lei. Robin non aveva più pudore di un gatto.

— Tu hai il venti per cento di grasso, forse più. Ne sei ricoperta. Sei tutta rigonfia. — Sospirò. — E quelli sono i disegni più strani che abbia mai visto. — S’interruppe, poi sorrise lentamente. — Se non altro, sono riuscito a vederti. Buon atterraggio. — Le gettò i vestiti e balzò in aria.

La forza delle sue ali per poco non fece cadere a terra Robin, e sollevò un turbine di foglie secche e di polvere. Per un momento, la sua maestosa apertura alare oscurò il cielo; poi salì sempre più in alto, divenne una sottile sagoma umana avvolta in un tumulto di penne.

Robin si mise a sedere, tremando per le emozioni di quegli ultimi minuti. Diede un’occhiata alla borsa, che si dimenava tutta, a causa degli sforzi di un anaconda che, totalmente scombussolato, cercava di riguadagnare la libertà. Nasu avrebbe dovuto aspettare. Del resto, il serpente non sarebbe certamente morto di fame, neppure se l’attacco fosse durato qualche giorno.

Riuscì ancora a girarsi con la faccia a terra, per paura di accecarsi fissando il sole, e presto perse ogni controllo del proprio corpo. Il giorno senza tempo di Iperione continuò a svolgersi mentre lei si contorceva sotto la luce ambrata del sole, completamente inerme, timorosa che l’angelo facesse ritorno per stuprarla.

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