— Per fortuna questi stati di depressione sono passeggeri — concluse Chris.
— Per fortuna — Valiha girò la testa all’indietro per guardarlo. — Non ho mai visto nessuno ritirarsi in se stesso come te durante l’attacco. Deve portarti via un mucchio di energia.
Chris annuì in silenzio. Non aveva ancora superato del tutto la crisi depressiva, ma faceva del suo meglio per sembrare sereno. Ancora una buona notte di sonno, e forse si sarebbe nuovamente convinto che la vita aveva qualche lato positivo.
Dopo la deviazione per raggiungere la Casa della Melodia, non erano più ritornati su Ofione. Anche se la strada Circum-Gea seguiva l’argine del fiume per tutta la parte alta della Valle delle Muse, varie frane la avevano resa impercorribile in vari punti. Invece presero un sentiero che attraversava i Monti Asteria. Dire che era una mulattiera era come dire che una corda tesa tra due pali era la litoranea a otto corsie. In alcuni punti gli umani dovettero scendere a terra e tenersi a un cavo legato al titanide che apriva la strada, mettendo i piedi su appoggi talmente piccoli che parevano disegnati sulla roccia. Nell’alpinismo, come in molte altre cose, i titanidi erano assai più bravi di Chris, che cominciava a essere stufo di quell’eterna superiorità. L’unica sua consolazione era che sia Robin che Cirocco erano pressappoco della sua forza, anche se Gaby pareva un incrocio tra una mosca e una capra.
Ci furono crepacci da superare. Per quelli più grandi occorreva lanciare una corda dall’altra parte, e poi oltrepassarli appendendosi alla corda, a cambiamano, e in questo esercizio, finalmente, Chris trovò qualcosa in cui era il primo. I titanidi riuscivano a passare, ma dovevano sforzarsi al massimo. Chris non riusciva a guardarli, quando erano appesi alla corda.
Ma quando la distanza era inferiore a dieci metri, non valeva la pena di lanciare una corda. I titanidi superavano l’abisso con un balzo. Il primo di quei salti gli tolse dieci anni dall’aspettativa di vita. Le altre volte si limitò a chiudere gli occhi.
E infine raggiunsero l’ultima discesa di quelle montagne. Al di sotto, videro una stretta striscia di foresta, una striscia di sabbia nera, ancora più stretta, e poi Nox, il Mare di Mezzanotte, che brillava in quella luce argentea. Incastonate nell’acqua c’erano aree nebulari di luminescenza, di un freddo colore azzurrino, rispetto ai riflessi della superficie, più intensi. E c’erano altre fonti di luce più compatte e più forti, alcune di un caldo colore giallo, e altre di un verde profondo.
— Quelle nuvole luminose sono colonie di pesciolini lunghi così.
Chris alzò la testa, e vide che Cornamusa camminava accanto a Valiha. Cirocco sollevava la mano per fare vedere la lunghezza a cui si riferiva: quella tra pollice e indice.
— In realtà — proseguì — sono come gli insetti, ma respirano l’acqua. Sono vere colonie, con un cervello del gruppo, come le formiche e le api. Ma non hanno una regina. Pare che abbiano una forma di libere elezioni, a quanto ho potuto sapere. Complete di ballottaggio, campagna elettorale e propaganda sotto forma di feromoni liberati nell’acqua all’epoca delle elezioni. Il vincitore ha il permesso di crescere fino alla lunghezza di un metro, e resta in carica per sette chiloriv. La sua funzione è soprattutto morale. Libera sostanze chimiche che danno felicità alla colonia. Se il capo muore, il gruppo smette di nutrirsi e si dissolve. Alla fine del mandato, il capo viene mangiato dai sudditi. È il più strano sistema politico che abbia mai visto.
Chris la guardò con attenzione, ma non gli parve che volesse prenderlo in giro. Non gli venne in mente di domandarglielo. Era una gradita sorpresa, vedere che Cirocco aveva ripreso a parlare, e lui era disposto a darle retta, qualunque cosa dicesse. Da quando avevano lasciato la Casa della Melodia, Cirocco era rimasta sempre tranquilla, come esausta. Anche se aveva avuto ampia testimonianza delle sue debolezze umane, Chris nutriva ancora nei suoi riguardi una sorta di timore reverenziale.
— Nox è uno dei posti più sterili che ci siano su Gea — proseguì Cirocco. — Sono ben poche le creature che possono vivere in esso. L’acqua è troppo pulita. Al suo interno ci sono abissi profondi dieci chilometri. Laggiù, l’acqua viene pompata e inviata ai pannelli scambiatori di calore, dove bolle e distilla. Quando fa ritorno, è chiara come cristallo. Se laggiù ci fosse una luce, lo spettacolo sarebbe bellissimo: si riesce a scorgere il fondo a una distanza di varie centinaia di metri.
— È bello anche così — disse Chris.
— Forse hai ragione. Sì, penso anch’io che sia bellissimo. Ma non mi piace attraversarlo. Ho dei ricordi spiacevoli. — Sospirò, poi indicò un punto del mare aperto. — Quel cavo là in mezzo è attaccato a un’isola chiamata Minerva. Penso che si debba chiamarla isola, anche se in realtà laggiù c’è soltanto il cavo. Non c’è una vera e propria linea della costa. Ci dobbiamo fermare laggiù per un breve periodo.
— Che cosa sono le altre luci? Quei punti.
— Sottomarine.
Arrivati alla costa, i titanidi frugarono nelle sacche e ne trassero dei luccicanti cunei d’acciaio che erano la lama delle loro accette. Entrarono nella foresta con i coltelli, trovarono dei manici adatti, e presto cominciarono ad abbattere gli alberi a decine. Chris li osservò da una certa distanza, dopo essersi offerto di aiutare e dopo avere ricevuto, come sempre, un cortese rifiuto.
Quegli alberi erano molto strani. Tutti erano alti quindici metri, diritti, e avevano un diametro di cinquanta centimetri. Non avevano rami, e solo in cima avevano enormi foglie che parevano sottili come garza. A Chris parevano frecce piantate in un bersaglio.
— Ti sembrano strani, quegli alberi? — Mentre guardava, Gaby lo aveva raggiunto.
— Come si chiamano?
— Ecco… non saprei dirlo con esattezza. Li chiamano con vari nomi, ma non hanno un nome ufficiale. Io li chiamavo pali del telefono, ma questo mi faceva sembrare più vecchia della mia età. Nei boschi, la gente che costruisce capanne li chiama alberi-capanna. Vicino al mare sono alberi-zattera. La pianta è sempre la stessa, e forse sarebbe bene chiamarli alberi da travi.
Chris rise. — Tutti gli alberi sono alberi da travi quando sono tagliati e segati.
— Sì, ma questi alberi sono i migliori di tutti. È un esempio dell’abilità di Gea, quando è disposta a collaborare. A volte, rende le cose fin troppo facili. Osserva.
Si diresse verso la foglia di un albero che era stato abbattuto dai titanidi, prese il coltello e la tagliò. Chris vide che in cima l’albero era cavo. Gaby incise la corteccia, e questa si aprì da sola. Il taglio percorse l’intera lunghezza del tronco, e a questo punto la corteccia si staccò completamente, come se fosse stata una buccia di banana, e comparve l’«anima»: un lungo cilindro di legno giallastro che pareva fosse stato lavorato al tornio, tanto era preciso.
— Incredibile.
— E non è tutto. Valiha, me la presti per un attimo? — La titanide diede a Gaby la scure. Chris si inginocchiò a guardare il punto dove la corteccia aveva preso a staccarsi dal legno e vide che l’estremità del cilindro era perfettamente piana, e che su di essa era tracciata una serie di linee. Gaby colpì con la scure una delle linee, ma si udì soltanto un rumore sordo.
— I titanidi sono più bravi di me — mormorò Gaby. Liberò la lama e sferrò un secondo colpo. Con un secco crepitio, il tronco si suddivise in una decina di tavole levigate. Gaby posò il piede sulla catasta, si mise la scure sulla spalla e gonfiò il bicipite come se fosse un tagliaboschi in scala ridotta.
— Incredibile.
— Non è niente. Le meraviglie non sono ancora finite. La corteccia si suddivide in strisce robuste come l’acciaio. Le puoi usare per legare tra loro i tronchi, quando costruisci una zattera. Per un paio di rivoluzioni, dai punti colpiti con la scure continua a trasudare una colla epossidica. Soltanto un albero su venti si suddivide in tavole. Noi usiamo i tronchi normali per fare le zattere, e le tavole per costruire il ponte. In questo modo, non si rischia che l’intera imbarcazione si trasformi in un mucchio di tavole di legno a causa di un colpo sbagliato. Tra circa quattro o cinque rivoluzioni, la zattera sarà pronta. Fine della lezione.
— Ancora una cosa — disse Chris. — Hai parlato di lato di Gea disposto a collaborare. Questi alberi sono una specie nuova? Voglio dire…
— Nel senso in cui i titanidi sono una specie nuova? No, non credo. È più probabile che siano molto vecchi. Più vecchi di Gea. È una specie progettata dalla stessa razza che ha costruito gli antenati di Gea, miliardi di anni fa. A quanto pare, le piacevano le cose pronte per l’uso. Ecco perché, a un lato della scala, ci sono le piante che producono transistor e simili e, all’altro, certe cose fondamentali come questi alberi e i sorrisoni, che sono animali da cui puoi prendere la carne senza ucciderli. O chi li ha progettati pensava a periodi di decadenza della civiltà, o non gli piacevano le fabbriche rumorose.
Chris si recò a passeggiare sulla spiaggia, vagamente preoccupato. Sapeva di dover essere contento di poter viaggiare con Cirocco e Gaby, che gli insegnavano un mucchio di cose che gli sarebbero risultate utili se si fosse messo in viaggio da solo. Invece, riusciva soltanto a pensare alla propria inutilità nel quadro complessivo. Tutto pareva sotto controllo. Lui non era capace di cucinare, non sapeva costruire una zattera, viaggiare su una canoa. Non era neppure in grado di procedere a piedi senza farsi distanziare. In teoria, lui doveva essere alla ricerca dell’avventura, doveva trovare il modo di diventare un eroe. Invece si faceva portare a spasso. Non credeva di poter incontrare qualcosa che Gaby e i titanidi non fossero in grado di risolvere.
La sabbia della spiaggia era molto fine. Scintillava, anche nella penombra di Rea. E poiché camminare accanto agli alberi era faticoso, si diresse verso la battigia, dove l’acqua aveva consolidato la sabbia. Nox era molto placido, per una distesa d’acqua di quelle dimensioni. Si scorgevano soltanto onde basse, in lento movimento. Il loro rumore era più uno sciacquio che un ruggito. La schiuma gli giungeva ai piedi, poi era assorbita dalla sabbia.
Si era diretto verso la riva con l’intenzione di lavarsi. Dopo due giorni passati sulle rocce e in mezzo al fango, si sentiva sporco. Quando giunse in un punto dove poteva a malapena udire il rumore fatto dai titanidi intenti al lavoro, gli parve di essersi allontanato a sufficienza. Poi inciampò in un oggetto che risultava pressoché invisibile sullo sfondo della sabbia buia. Era un mucchietto di vestiti.
— Hai portato il sapone?
Guardò attentamente nella direzione da cui giungeva la voce e scorse un cerchio scuro in mezzo all’acqua. Robin, che fino a quel momento era rimasta seduta sulla sabbia del fondo, si alzò in piedi, e Chris vide che l’acqua le arrivava alla vita. Una serie di cerchi argentei, concentrici, prese ad allontanarsi da lei.
— Per pura combinazione, sì — disse Chris, prelevando dalla tasca la sfera morbida. — La Ma… Cirocco diceva che l’acqua era fredda.
— Sì, ma sopportabile. Me lo porti, per piacere? — Tornò a sedere, e di lei si vide solo la testa.
Chris si tolse i vestiti ed entrò lentamente nell’acqua. Era fredda, ma non eccessivamente. Il fondale era abbastanza basso. Non c’erano creature scivolose che andassero a finire sotto i piedi, e neppure conchiglie. C’era solo sabbia levigata e uniforme, che sarebbe stata ideale per riempire un clessidra.
Percorse a nuoto gli ultimi metri, poi si alzò in piedi accanto alla ragazza e le passò il sapone. Lei cominciò a insaponarsi le spalle.
— Non perderlo — la avvertì lui. — Con questo buio, non riusciremmo più a trovarlo.
— Farò attenzione. Dove hai imparato?
— Che cosa? Ah, a nuotare? Ho imparato da piccolo, non so dove. Tutti coloro che conosco sono capaci di nuotare. Tu non lo sei?
— Non ho mai conosciuto nessuno che sapesse farlo. Mi insegni?
— Certo, se c’è tempo.
— Grazie, mi puoi insaponare la schiena? — Gli diede il sapone.
Chris rimase leggermente sorpreso dalla richiesta, ma fece come lei gli chiedeva. Usò le mani forse un po’ più del necessario, e, visto che lei non diceva niente, le massaggiò anche le spalle. Sotto la pelle fredda, sentì muscoli duri. Lei gli ricambiò il favore, e per arrivargli alle spalle dovette alzarsi in punta di piedi. Chris capì che quella ragazza continuava a essere un mistero, e questo gli dispiacque. Con qualsiasi altra donna non avrebbe avuto dubbi. L’avrebbe baciata e avrebbe lasciato a lei la decisione se proseguire. E avrebbe accettato la sua decisione, positiva o negativa che fosse. Ma con Robin non osava neppure farle la proposta.
Ma perché? si disse poi. Occorreva fare tutto come voleva lei? Al suo paese, era perfettamente lecito fare delle avance, se si era disposti ad accettare un eventuale rifiuto. Non aveva idea di come si regolassero alla Congrega: sapeva soltanto che quella situazione non poteva sorgere tra un uomo e una donna. Forse anche Robin aveva le stesse perplessità di comportamento.
Perciò, quando lei finì di strofinargli la schiena, lui si voltò, le pose delicatamente una mano sulla guancia e la baciò sulle labbra. Quando poi si staccò da lei, vide che aveva un’aria perplessa.
— Che cosa significa?
— Che mi piaci. Non vi baciate mai, nella Congrega?
— Certo — disse lei, alzando le spalle. — Che strano. Non me ne ero accorta, ma tu hai un odore diverso. Niente di fastidioso, ma è diverso. — Si girò dall’altra parte e si tuffò goffamente in direzione della riva. Agitava le braccia e batteva le gambe senza costrutto, e presto dovette alzarsi in piedi per sputare l’acqua.
Chris si lasciò affondare finché l’acqua non gli arrivò al mento. Non era mai stato rifiutato in quella maniera. Sapeva che lei non si rendeva conto di avere rifiutato i suoi approcci, ma il suo orgoglio era rimasto ferito lo stesso.
— Quando sono arrivata — disse lei, mentre facevano ritorno alla riva — sono caduta nel fiume. Sono riuscita a ritornare a riva perché avevo bisogno di farlo. Ma adesso non saprei dire come ho fatto.
— Probabilmente non dovevi fare troppa strada, oppure sei stata aiutata dalla corrente.
— Mi puoi mostrare come si fa?
— Più tardi, magari.
Giunti sulla spiaggia, lui le gettò di nuovo il sapone. Lei andò a immergere i piedi nell’acqua e incominciò a lavarsi le gambe. Lui la adocchiò, rimpiangendo che la luce non fosse sufficiente a permettergli di distinguere i tatuaggi. Poi, tutt’a un tratto, capì che era meglio che si sedesse.
— Cosa c’è?
— Niente.
— Ho visto cosa è successo. — Robin aggrottò la fronte. — Non dirmi che pensavi di poter…
— È involontario. È una sorta di complimento, chiaro? — Chris era un po’ imbarazzato, e seccato, anche. — Un riflesso. Non avevo intenzione di saltare addosso a nessuno. Mi sembravi molto bella, sulla riva del mare, e… non ci si può fare niente.
— Vuoi dire che ti è bastato guardarmi… — Si coprì con un braccio e con la mano dell’altro. A Chris, in quella posizione pareva più eccitante che mai. — Ecco cosa intendeva dire mia madre. E io, che pensavo che si fosse sbagliata anche a questo proposito!
— Cos’è che doveva essersi sbagliata? Credi che siamo tanto diversi? Io sono uguale a te. Non ti ecciti, guardando qualcuno che è desiderabile?
— Be’, certo, ma non pensavo che un uomo…
— Non credere che la cosa sia tanto diversa. Abbiamo un mucchio di cose in comune, che ti piaccia o no. L’orgasmo lo abbiamo tutti e due…
— Lo terrò presente — disse lei. Gli gettò il sapone, raccolse i vestiti e corse via per la spiaggia.
Chris si chiese se con le sue parole non aveva distrutto un’amicizia che stava nascendo bene. Quella ragazza gli piaceva, nonostante tutto. Anzi, nonostante lei. Voleva mantenere l’amicizia.
Poco più tardi, si chiese se Robin era scappata via perché era in collera. Poi, ripensando alla conversazione, capì che quella fuga, proprio mentre lui le faceva le sue obiezioni, poteva essere interpretata in un altro modo.
Probabilmente, a Robin non piaceva l’idea che lui fosse uguale a lei. Né, viceversa, lei a lui.
Una volta terminata, la zattera non avrebbe vinto il premio ad alcuna esposizione nautica, ma già dal punto di vista della dimensione era una meraviglia, considerando che era stata costruita in poche ore. Scivolò lungo la rampa su cui era stata costruita, e colpì la superficie dell’acqua con uno schiaffo sonoro. Chris si unì ai titanidi nel salutarne il varo. Anche Robin gridò. Entrambi avevano collaborato nelle ultime fasi della costruzione. I titanidi avevano mostrato come si impiegava la colla, e li avevano incaricati di collocare sui tronchi le tavole del ponte, mentre essi costruivano i parapetti.
C’era posto per tutti e otto. C’era una piccola cabina a prua, sufficiente per accogliere i quattro umani, e un tendone che serviva a riparare dalla pioggia i titanidi. Un albero centrale reggeva una vela argentea che si lasciava manovrare con il minimo indispensabile di cime. La direzione era data da un lungo remo. Sotto l’albero c’era anche un cerchio di pietre su cui si poteva accendere il fuoco.
Gaby, Chris e Robin attendevano accanto alla passerella che i titanidi terminassero di portare a bordo i loro sacchi, le provviste che avevano raccolto accanto alla riva, i mucchi di legna da ardere. Cirocco era già salita a bordo e si era fermata a prua, con lo sguardo perso nel vuoto.
— Vogliono che dia un nome alla zattera — disse Gaby, rivolta a Robin. — A quanto pare, da queste parti si sono fatti l’idea che io sia la persona più adatta ad assegnare i nomi alle cose. Io ho fatto notare che questa zattera sarà da noi usata per soli sei o sette giorni, al massimo, ma sono convinti che ogni nave debba avere un nome.
— Mi sembra giusto — disse Robin.
— Oh, davvero? Allora, daglielo tu.
Robin rifletté per un momento, poi disse: — Costanza. Si può dare a una nave il nome della propria ma…
— Perfetto. Assai meglio di quello della prima nave da noi usata su questo mare.
Per vari chilometri fu possibile spingere la Costanza mediante lunghe pertiche. Fu una fortuna, perché con la fine della pioggia era cessato anche il vento. Tutti diedero il loro aiuto, a eccezione di Cirocco. A Chris, quel duro lavoro piaceva. Sapeva che i titanidi riuscivano a spingere la zattera con più forza di lui, ma era lieto di dare il suo contributo. Continuò a spingere finché il fondale non divenne troppo profondo per le pertiche.
A quel punto vennero messi in mare quattro remi; tutti fecero a turno il lavoro degli schiavi incatenati al remo. Era ancor più faticoso che con le pertiche. Dopo due ore ai remi, Robin fu colta da un violento attacco e dovette essere portata nella cabina.
Durante uno dei suoi periodi di riposo, Chris fece il giro della cabina e vide che Cirocco aveva lasciato il suo posto, presumibilmente per andare a dormire. Si sdraiò sulla schiena, e sentì che tutti i suoi muscoli protestavano.
Il cielo notturno di Gea era assai diverso da quanto si immaginava.
Su Iperione, in una giornata chiara, il cielo era una macchia giallastra e sfocata, posta a una distanza indeterminabile, ma altissima. Solo seguendo la direzione del cavo verticale centrale fino al punto dove, apparentemente sottile come un filino, entrava nella Finestra di Iperione, si riusciva a capire dove fosse la posizione di quel solido cielo. Ma anche il tal caso occorreva tenere a mente che il cavo aveva cinque chilometri di diametro e che la sua apparenza di riga sottile era soltanto dovuta alla prospettiva e al poco coraggio dell’occhio che lo osservava.
Su Rea era diverso. Per prima cosa, Chris era vicino al cavo verticale centrale di Rea più di quanto non fosse mai stato vicino a quello di Iperione. Era un’ombra nera che balzava fuori del mare, si assottigliava rapidamente, e poi continuava a salire finché non svaniva del tutto. Ai suoi lati c’erano i cavi "verticali" nord e sud, erroneamente definiti verticali perché entrambi erano inclinati verso il centro, anche se meno di quelli che si erano lasciati alle spalle, a ovest della loro attuale posizione. I cavi diventavano invisibili sia a causa dell’oscurità, sia anche perché al di sopra di Rea non c’era una "finestra" ricurva. Rea viveva all’ombra di quella grande bocca a forma di campana che era chiamata Raggio di Gea.
Se non avesse visto nei disegni la sua forma e la sua vera dimensione, Chris non sarebbe mai riuscito a scoprirle. Vedeva soltano una forma ovale, buia, molto in alto sopra di lui. In realtà la distanza dalla superficie del mare era superiore a trecento chilometri. Attorno al bordo di quella bocca c’era una valvola che si poteva chiudere come l’iride di un occhio, isolando dalla zona della circonferenza lo spazio superiore. Adesso la valvola era aperta, e Chris poteva vedere un cilindro curvo, a base ellittica, che era lungo a sua volta trecento chilometri, e che terminava con la seconda valvola che dava accesso alla zona successiva, quella del mozzo della ruota di Gea. Era impossibile vedere fino a quella distanza, attraverso una così grande colonna di aria scura. Ma ciò che riusciva a vedere assomigliava alla canna di un fucile che avrebbe potuto usare dei planetoidi come proiettili. In quel momento, il fucile era puntato contro di lui, ma si trattava di una minaccia talmente esagerata da non potersi certamente prendere sul serio.
Sapeva che tra la valvola inferiore e l’altezza a cui si trovava la Finestra di Iperione, distanza che in verticale misurava un centinaio di chilometri, il raggio si allargava come la svasatura di una campana fino a diventare tutt’uno con il breve arco di "soffitto" che si stendeva sulle aree illuminate, ai due lati di Rea. Ma, anche sforzandosi, non riuscì a notare la svasatura, anche se la si poteva vedere perfettamente da Iperione. Un’altra deformazione dovuta alla prospettiva, si disse.
In qualche punto del raggio c’erano delle luci. Suppose che fossero gli "oblò" di cui aveva sentito parlare. Visti dal suo punto di osservazione, erano file parallele sempre più sottili, come le luci ai margini della pista d’atterraggio, viste da un aeroplano.
Pian piano, comunque, si accorse che c’era anche un’altra luce, più vicina, posta alla sua sinistra; poiché era sdraiato sul ponte con la testa leggermente reclinata, gli parve che si trovasse un po’ più in alto della sua posizione. Si mise a sedere, e si guardò attorno: vide che la superficie di Nox era illuminata da una luminescenza perlacea e azzurrina che giungeva dall’interno delle acque. Dapprima pensò che fosse un alveare degli insetti marini di cui gli aveva parlato Cirocco.
— È una sottomarina — disse una voce alla sua destra. Chris sobbalzò per la sorpresa; Cirocco si era avvicinata silenziosamente a lui. — Ho inviato dei messaggeri qualche ora fa, sperando di attirarne una. Ma sembra che abbia troppo da fare per darci un passaggio. — Indicò il cielo a ovest, e Chris scorse una grossa macchia buia sullo sfondo della notte. Non gli occorreva Cirocco per capire che si trattava di un aerostato, e molto grosso.
— Poche persone possono dire di avere visto questo spettacolo — disse tranquillamente Cirocco. — Su Iperione non ci sono sottomarine perché non ci sono mari. Gli aerostati viaggiano dappertutto, ma le sottomarine rimangono dove sono nate. Ofione è troppo piccolo per loro.
Dall’aerostato giunse una serie di fischi penetranti, seguiti da sibili e sfrigolii provenienti dalla poppa della Costanza. Chris capì che l’aerostato aveva chiesto di spegnere il fuoco, e che i titanidi si erano affrettati a farlo.
Cirocco gli posò la mano sulla spalla. Indicò in direzione dell’acqua. — Laggiù — disse. Chris guardò, un po’ imbarazzato da quella mano, e vide una massa di tentacoli che salivano verso la superficie e che si contorcevano lentamente. Dai tentacoli si alzò un lungo peduncolo.
— È il suo occhio periscopico. Del corpo di un sommergibile, difficilmente riuscirai a vedere di più. Nota quel lungo rigonfiamento nell’acqua: è il suo corpo. Non esce mai fuori più di così.
— Ma cosa fa?
— Si accoppia. Taci, non disturbarli. Ti spiego io.
La storia era semplice, anche se non certamente ovvia. Sottomarine e aerostati erano femmina e maschio della stessa specie. Entrambi discendevano dai figli della loro unione, che erano asessuati, erano simili a serpenti ed erano pressoché privi di cervello, finché la lotta per la sopravvivenza non riduceva i loro grossi sciami a un piccolo numero di superstiti, lunghi una ventina di metri. A questo punto gli si sviluppava il cervello, completo di certe conoscenze razziali che né Gea né aerostati o sottomarine avevano mai spiegato a Cirocco. Non dipendevano da insegnamenti dei genitori, perché a partire dalla loro nascita né le madri né i padri se ne occupavano più.
Ma acquisivano l’intelligenza in qualche modo misterioso, e alla fine decidevano razionalmente di diventare maschio o femmina, aerostato o sottomarina. Ciascuna scelta comportava dei rischi. L’acqua conteneva molti predatori che divoravano le giovani sottomarine. Nell’aria non c’era questo genere di pericoli, ma un giovane aerostato non era in grado di fabbricarsi l’idrogeno. Il suo destino, dopo la metamorfosi, era quello di starsene a galleggiare sull’acqua, come un palloncino sgonfio, e di sperare che un aerostato adulto si decidesse, per così dire, a dargli una pompata. Nella sua flottiglia, nessun adulto riusciva però a provvedere a più di sei o sette giovani. Se non c’erano posti liberi, peccato per lui. La decisione di differenziarsi era irrevocabile.
Aerostati e sottomarine non avevano molte attività in comune. Avrebbero corso il rischio di non venire mai a contatto, sulla superficie separatoria tra i loro due mondi, se non ci fossero stati due curiosi particolari. C’era un’alga che cresceva solo nelle profondità marine, e che era necessaria agli aerostati per sopravvivere. E in cima agli alberi titanici, massicci spuntoni del corpo stesso di Gea, che crescevano fino all’altezza di sei chilometri, e solo negli Altopiani, spuntavano foglioline indispensabili alla dieta delle sottomarine.
Un amichevole accoppiamento era nell’interesse di entrambi i sessi.
Dai tentacoli che pendevano sotto il rigonfiamento mediano, nella grande mole dell’aerostato, si vide cadere qualcosa. I tentacoli della sottomarina si affrettarono ad afferrarlo e a farlo sparire. Si udì il forte sibilo dell’aerostato che mollava idrogeno per scendere verso le braccia tese dell’amata.
Dopo di questo non ci fu più molto da vedere. I tentacoli si intrecciarono e i corpi massicci si toccarono in corrispondenza della superficie marina, e parvero immobilizzarsi. Soltanto quando la zattera cominciò a essere sballonzolata dalle onde, Chris capì che quell’immobilità era solo un’impressione dovuta alla distanza.
— Stanno succedendo molte cose — confermò Cirocco. — Tra l’altro, c’è anche un modo per vedere l’accoppiamento più da vicino. Una volta viaggiavo su un aerostato che è stato preso dal desiderio d’amore. Ti racconto… anzi, lasciamo perdere. C’è da prendere dei notevoli scossoni.
Cirocco si allontanò senza far rumore, esattamente come era giunta. Chris continuò a guardare le onde. Dopo qualche tempo udì rumore di zoccoli sul ponte, e da dietro la cabina giunse Valiha, venuta a tenergli compagnia. Chris sedeva sul bordo della zattera, con i piedi che sfioravano l’acqua. Valiha si sedette allo stesso modo, e per un attimo, a causa di un gioco di ombre, la parte equina del suo corpo diede l’impressione di svanire. Divenne una donna molto grande, con le gambe molto sottili, che faceva dondolare nell’acqua due piedi che parevano gli zoccoli del diavolo. L’immagine lo sconvolse, e fu costretto a distogliere lo sguardo.
— Quant’è bello, vero? — chiese lei in inglese, ma una tale cantilena che, per un attimo, Chris pensò che avesse parlato nel linguaggio cantato dei titanidi.
— È interessante. — In realtà cominciava a essere stufo. Stava per alzarsi quando lei gli prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò.
— Oh.
— Hmmm? — Lei lo guardò, ma a Chris non venne in mente niente da dire. A quanto pareva, però, la cosa aveva poca importanza. Lei lo baciò sulla guancia, sul collo e sulle labbra. Chris, non appena poté, si affrettò a riprendere fiato.
— Aspetta. Valiha, aspetta. — Lei aspettò, guardandolo con grandi occhi innocenti. — Non credo di essere pronto. Voglio dire… non so cosa dirti. Non credo di poterlo fare. Non ora. — Lei continuò a guardarlo negli occhi. Chris si chiese se lo faceva per scorgergli negli occhi la follia, ma poi decise che era solo una sua impressione, dovuta al timore. Alla fine, lei gli strinse la mano, annuì e lo lasciò andare. Poi si alzò.
— Quando sarai pronto, fammelo sapere. D’accordo? — E si allontanò.
Chris si vergognò di se stesso. Anche se cercò di analizzare il motivo che lo spingeva a rifiutarla, non riuscì a trovare motivi soddisfacenti. In parte Valiha gli ricordava un periodo in cui non era padrone di sé. In quei momenti, lui era o molto più coraggioso, o molto più pavido. Pareva che quel particolare "episodio" fosse del tipo coraggioso, perché, per quanto ci riflettesse, trovava soltanto risposte poco rassicuranti alla domanda fondamentale: cosa fanno una titanide e un umano? Nonché il corollario: come farsi un’assicurazione sulla vita, prima di accertarlo?
Valiha era grossa. Gli metteva una paura del diavolo.
Passò una quindicina di minuti, e anche Gaby comparve da dietro la cabina e si fermò vicino a lui, sulla prua. Chris desiderava rimanere solo con i suoi pensieri, ma il suo nascondiglio pareva diventato una piazza d’armi.
Gaby rimase per qualche tempo appoggiata al parapetto, fischiettando, e infine gli diede un colpo di gomito.
— Abbiamo le tristezze, eh?
Lui alzò le spalle. — Queste ultime otto ore sono state molto strane. Secondo te, è colpa di qualcosa che c’è nell’aria?
— Ossia?
— Non so. Tutti sono innamorati. Le creature del cielo sono innamorate di quelle del mare. Prima, sulla riva, mi sono messo a fare lo scemo con Robin.
Gaby zufolò. — Povero ragazzo.
— Esattamente. Pochi minuti fa, poi, mi arriva Valiha con l’intenzione di riprendere il discorso dal punto in cui l’ha interrotto il mio alter ego pazzo. Tirare il boccino, come dite qui. — Sospirò. — Deve essere qualcosa che c’è nell’aria.
— Be’, sai come si dice: che fa girare il mondo. L’amore, intendo. E Gea gira molto più in fretta della Terra.
Lui la fissò con aria interrogativa. — Non sarai mica anche tu…
Lei sollevò le mani e scosse la testa. — Non io, amico. Io non ti darò nessun fastidio. A me, succede una volta ogni tanto, e di solito con il gentil sesso. Inoltre, non cerco l’avventura da usare e buttar via. Ho sempre voluto che i miei amori durassero. Tutti e diciassette. — Fece una smorfia.
— Probabilmente, vedi le cose in modo diverso — azzardò Chris. — Data la tua età.
— Credi che sia davvero così, eh? E invece, no. È sempre doloroso. Ogni volta vorrei che durasse per sempre, e così non è mai. Per colpa mia. Finisco prima o poi per paragonarle a Cirocco, e non reggono il paragone. — Tossicchiò nervosamente. — Ascolta. Lasciamo perdere la mia situazione. Ero venuta per mettere il naso nei tuoi affari. Tu non devi avere paura di Valiha. Non devi averne paura emotivamente, se è questo che ti preoccupa. Non sarebbe gelosa, e neppure possessiva, e non si aspetterebbe che durasse a lungo. I titanidi non hanno il senso del possesso esclusivo.
— Ti ha chiesto lei di dirmelo?
— Si infurierebbe, se lo sapesse. I titanidi si fanno da soli i loro affari, e non vogliono intromissioni. È semplicemente la vecchia Gaby, la sapientona, che si fa gli affari degli altri. Dirò ancora una cosa, e poi me ne andrò. Se hai delle riserve morali, se pensi alla bestialità e cose simili, fatti furbo, amico. Non te lo hanno mai detto? Perfino la Chiesa Cattolica dice che si può. Il Papa è d’accordo: i titanidi hanno l’anima, pur essendo pagani.
— E se le mie riserve fossero invece fisiche?
Gaby rise allegramente e gli toccò la guancia. — Oh, ragazzo, avrai delle piacevoli sorprese.