4 La piccola gigante

Premendo con le dita dei piedi, Robin si lasciò scivolare lungo il corridoio. La bassa gravità dell’asse le permetteva di nascondere la stanchezza, anche se i muscoli della schiena e delle spalle le facevano male. Eppure, anche nella zona ad alta gravità, lei non l’avrebbe mai rivelata: né la stanchezza, né la depressione che le davano ogni volta quei turni di guardia.

Indossava una tuta pressurizzata bianca, raffreddata ad acqua, di modello molto vecchio, ma si era tolta i guanti e gli stivali, e li aveva infilati nell’elmetto, che portava sotto il braccio. La tuta era screpolata e piena di toppe, le parti metalliche si erano col tempo ossidate. Portava appesi alla cintura una Colt automatica, calibro 45, chiusa in una fondina fatta a mano, e un amuleto di legno con penne e artigli d’uccello. Vista in quel momento, scalza, con le unghie delle mani e dei piedi lunghe e laccate di rosso scuro, i capelli biondi e disordinati, le labbra dipinte color vinaccia, campanellini appesi al naso e al lobo dell’orecchio, tutt’e tre forati, pareva un barbaro intento a saccheggiare una società iper-industriale. Ma l’apparenza inganna.

Si accorse che cominciava a tremarle il braccio destro. Si fermò, e si guardò la mano senza cambiare espressione, ma l’Occhio di smeraldo tatuato in mezzo alla sua fronte s’inumidì di sudore. Una vampata di odio s’impossessò di lei, come una vecchia amica. Quella mano non era sua, non poteva esserlo, perché in tal caso sarebbe stata sua anche la debolezza, anziché essere una cosa venuta dall’esterno. Socchiuse le palpebre.

— Smettila — mormorò. — Altrimenti, ti taglio. — Parlava sul serio, e per dimostrarlo premette l’unghia del pollice contro la cicatrice del dito mignolo. La parte più difficile, ricordò, era stata quella di appoggiare il coltello nel punto giusto, dato che la mano non voleva stare ferma. Aveva provato un dolore intenso, ma il dolore aveva fatto scomparire l’attacco del suo male.

La mano smise di tremare. A volte, come allora, la minaccia era sufficiente.

In giro, la gente diceva che si era strappata il dito con un morso. Lei non lo aveva mai negato. C’era una qualità delle persone, chiamata labra, che le streghe stimavano molto. Riguardava l’onore, la resistenza e la sopportazione, e certi concetti orientali di dovere. Era la qualità di chi muore per una data finalità, e in modo elegante, o di chi paga qualsiasi prezzo per estinguere un debito verso un altro individuo o verso la società. Voler fare il turno di guardia pur essendo soggetta ad attacchi epilettici dava molto labra. Tagliarsi un dito per far cessare un attacco ne dava molto di più. Le streghe dicevano che il labra di Robin era sufficiente a riempire il ventre di dieci donne normali.

Ma stare di guardia col rischio di causare un danno all’intera comunità non dava alcun labra. Robin lo sapeva, e come lei lo sapevano i membri più ragionevoli della Congrega, coloro che non si lasciavano impressionare dalla sua leggenda. Lei stava di guardia perché nessuno, nel consiglio, poteva fissarla negli occhi e dirle di no. Il terzo Occhio, impassibile e onnisciente, garantiva l’esattezza della sua affermazione: di riuscire a fermare gli attacchi con la pura forza di volontà. Le streghe che si erano guadagnate il terzo Occhio erano solo dodici, e tutte avevano almeno il doppio dei suoi anni. Nessuno osava contestare le affermazioni di Robin dalle Nove Dita.

L’Occhio, si diceva, dava l’infallibilità. Anch’esso aveva i suoi limiti, e tutti lo sapevano senza bisogno di dirlo, ma a volte risultava utile. Alcune di coloro che lo portavano se ne servivano per far accettare qualche assurdità, o per prendere ciò che desideravano, semplicemente affermando di esserne la proprietaria, ma in questo modo riuscivano solo a guadagnarsi l’antipatia della comunità. Robin, invece, diceva sempre l’assoluta verità sulle cose di poca importanza, ricorrendo all’Occhio solo per la Grande Bugia. Questa pratica le guadagnava il rispetto di tutti, e il rispetto era la cosa che le occorreva maggiormente. Aveva solo diciannove anni, e da un momento all’altro le poteva venire la bava alla bocca e poteva cadere immobile a terra. In momenti come quelli, di particolare vulnerabilità, si aveva bisogno del rispetto degli altri.

Robin non aveva mai perso la conoscenza durante i suoi attacchi, non aveva mai avuto difficoltà nel ricordare l’accaduto. Semplicemente, perdeva il controllo dei muscoli volontari per un periodo variabile dai venti minuti ai tre giorni. Gli attacchi sopraggiungevano in momenti del tutto imprevedibili, salvo che per un aspetto: maggiore era la gravità, più frequenti erano gli attacchi. Di conseguenza, lei passava il suo tempo nella zona dell’asse, e non si recava mai nella zona di massima gravità, sulla periferia della Congrega.

Questo poneva dei limiti alla sua attività, e faceva di lei un’esiliata con la propria casa sempre sotto lo sguardo. Le basi piatte del cilindro della Congrega erano una serie di cerchi concentrici. Le abitazioni erano situate nell’anello a gravità più alta, dove la gente si trovava a proprio agio. Il «pavimento» cilindrico era invece utilizzato come area coltivata, pascolo e giardino. Nelle zone a bassa gravità c’erano i macchinari. Robin non scendeva mai al di sotto del livello dove la gravità era pari a un terzo di quella normale terrestre.

Il suo male era una forma di epilessia non curabile. I medici della Congrega non avevano niente da invidiare a quelli della Terra, ma il profilo neurologico di Robin era qualcosa di assolutamente nuovo. Lo si trovava soltanto nelle riviste mediche più recenti. I terrestri lo chiamavano Complesso Alta Gravità. Era un disturbo genetico, una mutazione recente, che dava anomalie cicliche nella conduzione nervosa di membrana, aggravate da fattori presenti nel sangue quando il corpo era sottoposto all’azione della gravità. In assenza di peso, la differente composizione chimica del sangue impediva l’insorgere degli attacchi. Il meccanismo esatto con cui si manifestava la malattia non era chiaro, e i farmaci per curarla non davano grandi risultati. Le figlie di Robin sarebbero state colpite a loro volta, oppure sarebbero state portatrici sane.

La causa delle sue disgrazie era perfettamente nota. Lo scherzo di un anonimo tecnico di laboratorio. Per molti anni, senza che la Congrega lo sospettasse, le loro richieste di sperma umano erano sempre state passate a un uomo che conosceva la loro storia e che odiava fanaticamente l’omosessualità femminile. Anche se il materiale veniva accuratamente controllato dai medici della Congrega per evitare le malattie genetiche più comuni, quei medici non potevano certo scoprire una sindrome di cui ignoravano l’esistenza. Robin e alcune altre ne erano state il risultato. Tutte erano morte, eccettuata la sola Robin.

Ma questo non era stato il solo «scherzo» del tecnico infedele, perché c’era ancora un altro particolare, anche se nessuno l’aveva notato. Le donne della Congrega avevano ricevuto sperma di uomini di bassa altezza, nati da genitori di bassa altezza. Non uscendo mai dalla loro colonia, non avevano avuto occasione di accorgersi che erano tutte di piccola statura.

Robin entrò nella stanza delle docce e si tolse la tuta. C’era una donna, seduta sulla panca che stava in mezzo alle due file di armadietti, e si asciugava i capelli. In fondo alla stanza ce n’era una seconda, intenta a bagnarsi la faccia. Robin infilò la tuta nel suo armadio e prelevò Nasu, che era rimasto chiuso nel cassetto. Nasu era il suo «demone familiare», un anaconda di 110 centimetri. Il serpente le si arrotolò attorno al braccio e dardeggiò la lingua: il caldo e l’umido dello stanzone gli piacevano.

— Anche a me — disse Robin. Si avviò verso la doccia, senza badare alla donna che, con la coda dell’occhio, le guardava il tatuaggio. I due serpenti vivacemente colorati erano abbastanza comuni nella Congrega, dove tutti si tatuavano. Il disegno che aveva sul ventre, invece, non lo aveva nessun’altra.

Non appena finì il primo forte scroscio di acqua fredda, ci fu un grande rimescolio nei tubi, e dalla doccia non scese più niente. La donna accanto a Robin emise un gemito. Robin saltò fino al tubo sopra di lei, lo afferrò a due mani e cercò di svitarlo. Poi si lasciò cadere a terra e strillò. La sua compagna le fece eco, e presto si unì a loro anche la donna seduta. Robin ci si mise d’impegno, cercando, come faceva in ogni sua azione, di gridare più forte delle altre. Presto tutte si misero a tossire e a ridere, e Robin si accorse che qualcuno la chiamava.

— Sì, cosa c’è? — Vide una donna che non conosceva bene, e che doveva chiamarsi Zynda: si affacciava nello stanzone.

— La navetta ha portato una lettera per te.

Robin rimase a bocca aperta per la sorpresa, e per qualche istante non seppe che dire. Le lettere erano rare nella Congrega, i cui membri, complessivamente, non conoscevano più di cento persone al di fuori della colonia. La posta era in genere costituita di merci ordinate per corrispondenza, e di solito arrivava dalla Luna. Quella lettera poteva significare una sola cosa.

Corse a prenderla.

Era il nervosismo, e non la malattia, a farle tremare le mani mentre apriva la leggerissima busta bianca. Il francobollo con il canguro era timbrato «Sydney», e la lettera era indirizzata a «Robin dalle Nove Dita, La Congrega, Lagrange 2». L’indirizzo del mittente era impresso a stampa e diceva: «Ambasciata di Gea, Old Opera House, Sydney, Nuova Galles del Sud, Australia, AS109-348, Indo-Pacifica». Da quando Robin aveva scritto, era passato quasi un anno.

Riuscì infine ad aprirla e lesse:


Cara Robin,

scusa il ritardo.

La tua disgrazia mi ha profondamente commosso, anche se forse non dovrei dirlo, dopo che mi hai fatto chiaramente capire che non cerchi la commiserazione di nessuno. Meglio così, perché Gea non dà mai niente per niente.

Mi ha detto che desidera vedere rappresentanti delle religioni della Terra. Ha anche parlato di un gruppo di streghe in orbita. Pareva una cosa alquanto improbabile, ma poi è arrivata la tua lettera, come per l’intervento di una provvidenza divina. Forse la tua divinità ci ha messo lo zampino; adesso che ci penso, la mia ce lo ha messo sicuramente.

Dovresti prendere il primo mezzo di trasporto disponibile. Ti prego di riferirmi poi com’è andata.

Con i miei migliori auguri,

Didjeridu (Duetto Ipoeolio) Fuga

Ambasciatore


— Billea dice che Nasu le ha mangiato il demone.

— Non era ancora il suo demone, Ma. Era solo un gattino. E Nasu non l’ha mangiato. L’ha solo schiacciato. Era troppo grosso per mangiarlo.

Robin era di corsa. La sua borsa di stoffa di lana non pettinata, posata sulla cuccetta era piena solo per metà, e lei continuava a cercare nei cassetti, gettando via gli articoli che non intendeva prendere con sé, e lanciando alla madre quello che voleva portare via.

— Comunque, il gatto è morto. Billea vuole una compensazione.

— Dirò che il gatto era mio.

— Bambina. — Robin riconobbe il tono. Costanza era l’unica che potesse ancora usare quel tono con lei.

— Scherzavo — ammise Robin. — Pensaci tu, per favore. Dalle qualcosa di mio.

— Va bene. Che cosa ti metti?

— Questa? — Robin si voltò e le fece vedere la camicetta.

— È una camicia a una manica, bambina. Rimettila via.

— Certo, è una camicia a una manica. Tutte quelle che ho sono a una manica. Ti sei dimenticata del tuo regalo per il rito del sangue? — Le mostrò il braccio sinistro, con il tatuaggio del serpente arrotolato attorno a esso, dal mignolo alla spalla. — Non penserai che rinunci a una così bella occasione di sfoggiarlo su Gea?

— Ti lascia scoperto il petto, bambina. Vieni qui. Ti devo dire alcune cose.

— Sono di fretta, Ma…

— Siediti qui. — Batté la palma sul letto. Robin si avvicinò a lei, trascinando i piedi. Ma si sedette. Costanza attese che Robin la guardasse, poi le posò la mano sulla spalla. Costanza era una donna di alta statura, con i capelli neri. Robin era bassa, perfino per la Congrega. A piedi nudi, arrivava a 145 centimetri, e pesava 35 chili. Aveva preso ben poco dalla madre. Capelli e faccia erano quelli del suo anonimo padre.

— Robin — cominciò Costanza — non avevo mai pensato di doverti parlare di queste cose, ma adesso devo farlo. Tu vai in un mondo completamente diverso dal nostro. Laggiù ci sono creature chiamate «maschi». Non sono… non sono come noi. Hanno in mezzo alle gambe…

— Ma, so già tutto… — Robin si girò, cercando di sottrarsi alla mano della madre. Ma lei, senza accorgersene, le strinse ancor di più la spalla. Fissò la figlia in modo strano.

— Ne sei certa?

— Ho visto una foto, Ma. Non capisco come possano fare, se tu non sei d’accordo.

Costanza annuì. — Spesso — ammise — me lo sono chiesta anch’io. — Distolse lo sguardo per un istante, tossicchiando nervosamente. — Lasciamo perdere. La realtà è che la vita, nel mondo esterno, si basa sui desideri di quei maschi. Pensano sempre e soltanto a inserire in te il loro pene. Quel «coso» si gonfia in maniera incredibile, fino a diventare lungo come il tuo avambraccio, e due volte più spesso. Ti danno una botta sulla testa e ti trascinano in un passaggio laterale… o in una stanza vuota, penso io, o qualche luogo simile. — Aggrottò la fronte.

Poi riprese, tutto d’un fiato: — Non devi mai voltare la schiena, quando ne vedi uno, perché altrimenti ti stuprano. Ti possono fare un danno permanente. Ricorda, non sarai più a casa tua, tranquilla, ma nel mondo penista. Tutti sono penisti laggiù, anche le femmine.

— Me ne ricorderò, Ma.

— Promettimi che quando uscirai in pubblico, ti coprirai il petto e ti metterai sempre le mutandine.

— Be’, certo, le metterei in qualsiasi caso, con gente estranea. — Robin aggrottò la fronte. Il concetto di «gente estranea» le era chiaro solo dal punto di vista teorico. Anche se non le conosceva tutte per nome, le donne della Congrega erano per definizione sue sorelle. Aveva già pensato al fatto che, su Gea, avrebbe incontrato dei maschi, ma non aveva mai pensato che potessero esistere donne peniste. Strano pensiero.

— Promettimelo.

— Te lo prometto, Ma. — Robin si stupì della forza con cui la madre la abbracciò. Si baciarono, e Costanza si alzò di scatto e corse via.

Per un attimo, Robin fissò la porta da cui era uscita. Poi tornò a fare i bagagli.

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