7 Un armonioso paradiso

Chris affittò un titanide per farsi portare in un luogo chiamato Casa del Vento, da dove, a quanto gli avevano detto, si poteva prendere un ascensore che saliva al mozzo centrale di Gea. Il titanide era una femmina pezzata, con una lunga criniera azzurra e bianca, che si chiamava Nacchere (Duetto Lidio Diesis) Blues, e Chris continuava a essere di pessimo umore. La titanide parlava un po’ di inglese, e all’inizio cercò di fare conversazione, ma Chris rispose a monosillabi, e lei passò tutto il tempo del viaggio a far pratica con il suo corno d’ottone, lanciata al galoppo.

Dopo che si furono lasciati alle spalle Titantown, Chris cominciò a interessarsi maggiormente del viaggio. La titanide galoppava senza scosse, liscia come un hovercraft. Superarono basse montagnole brune e per qualche tempo seguirono la direzione di un rapido tributario dell’Ofione. Poi il territorio cominciò a salire, in direzione dell’imponente Casa del Vento.

Gea era come un ponte sospeso, a parte la sua forma ad anello. Il mozzo serviva da ancora, contro la forza centrifuga. Lungo i suoi raggi correvano i novantasei cavi che collegavano al mozzo le piastre resistenti della circonferenza, invisibili perché sepolte sotto un alto strato di terra. I cavi avevano il diametro di cinque chilometri, ed erano composti di centinaia di «trefoli» vuoti all’interno, intrecciati tra loro. All’interno circolavano i vari liquidi di riscaldamento e di raffreddamento, e le arterie per il trasporto delle sostanze nutritizie. Una parte dei cavi scendeva verticalmente nel terreno, ma gli altri uscivano dalle grandi imboccature a campana dei raggi, in alto, e scendevano ad angolo, attraversando prima una delle zone crepuscolari, per poi finire ad ancorarsi in una delle aree illuminate.

La Casa del Vento era il luogo dove, sul continente di Iperione, si ancorava uno dei cavi inclinati. Sembrava che dall’oscurità fosse uscito un lungo braccio, che avesse afferrato il terreno con la sua mano, che lo avesse stritolato fino a produrre un grosso mucchio di frammenti, e che poi se ne fosse rimasto lì, immobile, affondato nella terra. Nel dedalo di avvallamenti e di macigni erratici soffiava un forte vento, dovuto all’aria che veniva aspirata e portata verso l’alto: sarebbe poi fuoriuscita nel mozzo e sarebbe ritornata alla periferia di Gea passando lungo i raggi. Era il millenario sistema di condizionamento di Gea, e serviva a fare in modo che lungo tutta la colonna di aria dei raggi, alta 600 chilometri, ci fosse una percentuale respirabile di ossigeno. Quel flusso di aria era anche la strada tradizionalmente seguita dagli angeli per risalire, ma Nacchere e Chris non erano diretti verso di essa, perché l’ascensore si trovava dall’altra parte del cavo.

Nacchere impiegò quasi un’ora, ossia una riv, ricordò Chris, per fare il giro del cavo, e quando furono giunti alla loro destinazione incontrarono uno spettacolo impressionante. Innumerevoli tonnellate di cavo pendevano sulla loro testa, come se avessero costruito un grattacielo parallelamente al terreno.

Il terreno sotto il cavo era stranamente spoglio. Non poteva essere unicamente colpa della mancanza di sole; Gea era nota per la sua prolificità, e conteneva forme di vita adatte a tutti gli ambienti, compresa l’oscurità totale. Ma solo in prossimità dell’ascensore si poteva scorgere qualche forma di vita vegetale.

L’ascensore era una capsula scura e morbida, lunga quattro metri e alta tre; a una delle sue estremità c’era un’apertura che si poteva dilatare a volontà. L’altra estremità era appoggiata a uno sfintere di un tipo assai comune su Gea. Queste aperture davano accesso al sistema di circolazione, che, se si aveva coraggio, poteva essere usato come mezzo di trasporto. Le capsule erano prodotte biologicamente, come spesso avveniva nel caso degli oggetti che si trovavano su Gea, e avevano un sistema che forniva ossigeno alle persone contenute all’interno.

Chris entrò nella capsula e si sedette su una massa informe che poteva servire come divano. Dalle pareti della capsula spuntavano lunghi filamenti vegetali, utilizzabili come cinture di sicurezza, e Chris si affrettò a legarsi a essi. Era il suo terzo viaggio in quelle capsule, chiamate familiarmente l’«autoscontro» dai vecchi residenti di Gea. Sapeva che la capsula subiva forti scosse, quando la corrente cambiava direzione.

L’interno della capsula era bio-luminescente. Quando l’apertura si chiuse dietro di lui, Chris rimpianse di non essersi portato un libro. Lo aspettava un viaggio di tre ore, senza altra compagnia che i brontolii del suo stomaco e il pensiero che alla fine del tragitto avrebbe avuto un colloquio con una divinità.

Si udì una sorta di risucchio quando la capsula entrò nella prima della serie di vàlvole protettive contenute nel cavo. Ballonzolò per qualche tempo da atrio a ventricolo, finché, con un improvviso scatto di potenza, la capsula partì per il cielo.

Il ballerino entrava e usciva dal cono di luce del faro che lo illuminava. Era un ballerino di tip-tap, in cilindro e marsina, ghette e sparato. E come tutti i grandi ballerini, dava l’impressione che tutto fosse facilissimo. Con i tacchi e con la punta del bastone batteva un ritmo complesso, che echeggiava nelle profondità del mozzo.

Ballava a una cinquantina di metri dalla porta del normalissimo ascensore di cui si era servito Chris per l’ultimo tratto del suo viaggio. Si udì un suono di campanello, e Chris vide che la porta si chiudeva.

La presenza di quel ballerino gli dava un po’ fastidio. Gli pareva di essere entrato in una sala cinematografica dopo l’inizio dello spettacolo, e senza sapere che film dessero. Quel ballerino doveva riferirsi a qualcosa, doveva avere qualcosa in mente, anche se quella danza pareva separata dalla realtà, sufficiente in se stessa. La faccia era invisibile, nascosta dietro il cappello, e si vedeva soltanto la punta bianca del mento. Adesso si sarebbe tolto il cappello, pensò Chris, e sarebbe comparso un teschio vuoto, la faccia della morte. Oppure si sarebbe fermato, e, con una mano elegantemente inguantata, avrebbe indicato a Chris la direzione da seguire. Ma non indicò nessuna direzione, rifiutò di trasformarsi nel simbolo di qualcos’altro. Continuò a danzare, e basta.

Infine si mosse quando Chris si avvicinò a lui. Il cono di luce si spense, e se ne accese un altro, a venti metri di distanza. La sagoma dell’uomo si mosse nell’oscurità finché non giunse nuovamente a farsi rivestire di luce. Si accese un’altra luce, poi un’altra ancora, a intervalli di tempo sempre più brevi. Il ballerino saltò da una all’altra, fermandosi ogni volta, prima di passare alla successiva, a improvvisare qualche perentoria affermazione con i tacchetti. Infine le luci si spensero, il picchiettio dei tacchi sul marmo svanì.

Ora che i suoi occhi si erano abituati al buio, Chris cominciò a distinguere qualche altro particolare. In alto, molto al di sopra di lui, c’era una singola riga di luce rossa, netta come quella di un laser. Su tutti i lati, Chris vide che era circondato da sagome altissime: la collezione di cattedrali di Gea. Torri e pinnacoli, archi rampanti e demoni di pietra grigi, sullo sfondo di una nera, insondabile oscurità. C’erano solo le facciate, o quelle costruzioni erano complete anche all’interno? I libri non glielo avevano detto. Dicevano solo che Gea collezionava esempi architettonici, e che era specializzata in architettura sacra.

Udì un rumore di tacchetti e, quando il rumore si fece più vicino, scorse una donna che indossava una tuta bianca, come quelle delle inservienti della quarantena. Arrivò da dietro l’angolo di un tempio di pietre tozze, e laggiù si fermò, per illuminare la zona davanti a lei, grazie a una lampada portatile. La luce accecò Chris, lo sorpassò, ritornò su di lui, come per inchiodare un criminale in fuga, infine si abbassò.

— Da questa parte, prego.

Chris seguì la donna, camminando goffamente a causa della bassa gravità. La donna gli fece fare un cammino tortuoso in mezzo ai monumenti. Aveva stivali bianchi, di pelle, con tacchetti che battevano con grande sicurezza sul terreno. Pareva non incontrare alcuna difficoltà a camminare, mentre Chris tendeva a rimbalzare come una palla di gomma. Sulla superficie interna del mozzo, la rotazione assicurava soltanto un quarantesimo di gravità; Chris pesava pochi chilogrammi.

Si chiese chi fosse quella donna. Durante la quarantena, non gli era mai venuto in mente che gli inservienti potessero non essere umani. Ma, lassù, la cosa era diversa. Sapeva che Gea era capace di costruire a propria volontà le creature viventi. Poteva creare nuove specie, come i titanidi, la cui razza non aveva ancora due secoli, e dare loro il libero arbitrio e il beneficio del suo disinteresse. E poteva creare singoli individui altrettanto liberi e incontrollati.

Ma creava anche quelli che erano chiamati gli strumenti di Gea. Questi erano delle semplici estensioni di lei. Li usava per costruire le sue copie di cattedrali, scala 1:1, per comunicare con le piccole forme di vita, per fare, insomma, tutto quello che non riusciva a fare con la sua normale ecologia esistenziale. E presto lui, Chris, avrebbe incontrato uno di questi strumenti, che gli avrebbe detto di chiamarsi Gea. In realtà, Gea era tutt’intorno a lui, ma non poteva certo mettersi a parlare con i muri.

Chris guardò ancora bene la donna alta che lo accompagnava, con lunghi capelli neri. Era uno «strumento», oppure una vera donna?

— Di dove siete? — le domandò.

— Del Tennessee.

Gli edifici erano stati costruiti senza un piano preciso. Alcuni erano posti l’uno accanto all’altro, in una sorta di baraccopoli del cielo, altri erano alquanto intervallati. Data la disposizione a casaccio, c’erano strette stradine dove ci si aspettava una piazza, e viceversa. S’infilarono tra una copia di Chartres e una pagoda senza nome, poi sbucarono in un enorme piazzale pavimentato di marmo, che portava a Karnak.

L’autore del libro che Chris aveva letto ammetteva di non sapere perché Gea costruisse quelle repliche. E perché, dopo averlo fatto, le lasciasse al buio, dove nessuno poteva vederle. E a passare in mezzo a esse ci si sentiva come una formica perduta sul fondo polveroso della scatola dei balocchi di qualche bambino. Le costruzioni potevano essere l’equivalente dei segnapunti di un gioco del Monopoli per iper-miliardari.

— Quello è il mio favorito — disse a un tratto la donna.

— Quale?

— Quello — disse lei, puntando la lampada. — Statunitense.

Aveva un aspetto familiare, ma dopo avere visto tante costruzioni in così breve tempo, tutti i mucchi di pietra cominciavano ad assomigliarsi.

— A cosa servono? Non si riesce neppure a vederli.

— Oh — gli assicurò lei — Gea non ha bisogno di luce visibile. Uno dei miei bis-bisnonni ci ha lavorato. L’ho visto, a Washington.

— Non mi sembra di conoscerlo.

— Certo, adesso è a pezzi. Lo vogliono demolire.

— È per questo che siete venuta qui? Per studiare la grande architettura del passato?

Lei sorrise. — No, per costruirla. Sulla Terra, dove potete ancora fare questo genere di lavoro? Per costruire questi edifici, hanno lavorato per centinaia di anni. Anche qui, ne occorrono venti o trenta, e non ci sono di mezzo i sindacati, i regolamenti edilizi e le preoccupazioni economiche. Sulla Terra, costruivamo complessi ancora più grandi, ma se non li costruivamo in sei mesi, chiamavano un’altra persona. E alla fine della costruzione, l’edificio sembrava un mucchio di sterco caduto dal cielo. Qui, invece, lavoro sul Tabernacolo Mormone dello Zimbabwe.

— Sì, ma a cosa serve? Cosa vuol dire?

Lei lo fissò con commiserazione. — Se dovete fare questa domanda, vuol dire che non sareste in grado di capire la risposta.

Raggiunsero un’area di luce diffusa. Era impossibile capire da dove provenisse l’illuminazione, ma per la prima volta si riusciva a scorgere il «tetto» del mozzo, che aveva un raggio di curvatura molto più piccolo di quello della periferia, ma che distava da loro più di venti chilometri. Pareva un complicato cestino di vimini, e ogni «vimine» era un refolo di cavo, lungo un chilometro. Alla parete più vicina a loro era appesa una tela bianca, grande come la vela maestra di un brigantino. Stavano proiettando un film, che, oltre ad avere solo due dimensioni, era anche muto e in bianco e nero. Una pianola automatica posta accanto alla cabina di proiezione, forniva l’accompagnamento musicale.

Tra la cabina e lo schermo si stendeva un tappeto persiano che pareva misurare almeno un ettaro. Su cuscini e sofà erano sdraiati cinquanta-sessanta tra uomini e donne, che indossavano abiti larghi, sgargianti. Parte guardava il film, parte parlava, rideva, beveva. Una di quelle persone era Gea.

Non faceva molto onore alle sue fotografie.

Non esistevamo molte fotografie del particolare «strumento» che Gea amava presentare come se stessa. Nelle foto, la statura rimaneva indeterminata. Un conto era leggere che Gea era una donna di bassa statura, un altro vedersela davanti. Nessuno l’avrebbe notata, se l’avesse vista seduta su una panchina. Chris ne aveva viste migliaia, come lei, nelle periferie della Terra: piccole, sgraziate raccoglitrici di rottami.

La faccia dalle guance cascanti ricordava soprattutto una patata. Occhi scuri e lucidi, sopracciglia folte, pieghe di grasso. I capelli erano ricci, con venature grigie, e tagliati all’altezza delle spalle. Sulla Terra, Chris si era procurato una foto di Charles Laughton per vedere se gli assomigliava, come dicevano i suoi libri, e aveva constatato che i libri avevano ragione.

Gea rise con aria sardonica.

— So quello che pensi, figliolo. Faccio meno impressione di un maledettissimo cespuglio che brucia senza bruciare, vero? D’altronde, cosa credi che avesse in mente, Geova, quando è così comparso? Mettere una fifa boia a un superstizioso capraio ebreo, ecco cosa aveva in mente. Accomodati, figliolo. Prendi un cuscino, e raccontami tutto.

Era straordinariamente facile parlare con Gea. Ecco il lato positivo di quella scelta così poco ortodossa del suo Aspetto Divino: in un certo modo difficile da definire, andava d’accordo con l’immagine di Gea come Madre Terra. Davanti a lei, ci si poteva sentire tranquilli. Si poteva prendere quello che si aveva dentro, metterlo a nudo, con una fiducia che diventava sempre più grande. E Gea aveva quell’intuito che dovrebbero avere tutti i buoni terapeuti e tutti i buoni genitori. Ti ascoltava, certo, ma soprattutto ti faceva capire di averti ascoltato. Non ti dava necessariamente ragione, e il suo affetto non era privo di critiche. Chris non si sentiva particolarmente favorito, e non gli pareva neppure che il suo caso le importasse molto. Ma Gea si interessava di lui e del suo problema.

Si chiese se era solo una sensazione soggettiva, se proiettava su quella donnetta grassa tutte le sue speranze. Comunque, mentre faceva il suo racconto gli scappò anche qualche lacrima, e non sentì il bisogno di scusarsene.

Raramente alzò gli occhi su di lei. Fece correre lo sguardo dappertutto, su una faccia, su un bicchiere, un tappeto, senza fissare niente in particolare.

Infine, terminò il discorso che si era preparato. Su quel che poteva succedere da quel momento in poi, non c’erano testimonianze attendibili. La gente che era ritornata sulla Terra, guarita, si manteneva stranamente sul vago, quando si trattava di parlare dei colloqui con Gea e dei sei mesi che, in media, aveva passato al suo interno dopo i colloqui. Non ne parlava mai, nonostante le pressioni.

Gea guardò per qualche tempo lo schermo, bevve qualche sorso da un calice dal gambo lunghissimo.

— Perfetto — disse. — È pressappoco quello che mi ha detto Dulcinea. Ti ho visitato attentamente, so che cosa hai, e ti assicuro che è possibile una cura. Non soltanto per te, naturalmente, ma anche per…

— Scusatemi, ma come mi avete visitato?

— Non interrompere. Torniamo al nostro accordo. È uno scambio, e probabilmente non ti piacerà quello che ti chiederò. Dulcinea ti ha fatto una domanda, quando eravate ancora all’ambasciata, e tu non hai risposto. Mi chiedo se ci hai pensato sopra, dopo di allora, e se adesso sapresti rispondere.

Chris cercò di ricordare, e alla fine gli tornò in mente la domanda sui due bambini legati sul binario.

— Non significa molto — disse Gea, magnanima — ma è interessante. Ci sono due risposte, a quanto vedo. Una è per gli dèi, e l’altra per gli uomini. Non ci hai mai pensato?

— Sì, una volta.

— E qual è la tua opinione?

Con un sospiro, Chris decise di parlare onestamente. — Pare probabile che… cercando di liberarli tutti e due, morirei nel tentativo di liberare il secondo. Non so quale libererei per primo. Ma se cercassi di liberarne uno, poi dovrei cercare di liberare anche il secondo.

— E moriresti — concluse Gea, con un cenno d’assenso. — Questa è la risposta degli uomini. Voi uomini lo fate sempre. Salite su un ramo per salvare uno della vostra razza, e il ramo si spezza sotto il vostro peso. Dieci soccorritori muoiono per salvare un escursionista che si è perduto. Un concetto sbagliatissimo dell’aritmetica. Ma, naturalmente, questo non vale per tutti. Molti umani se ne starebbero lì fermi, a guardare, mentre il treno uccide tutt’e due i bambini. — Lo fissò, socchiudendo le palpebre. — Cosa faresti, tu?

— Non so. Onestamente, non so se sarei disposto a sacrificarmi.

— Per un dio, la risposta è facile. Un dio li lascerebbe morire entrambi. In altre parole, le vite individuali non hanno importanza. Anche se so di ogni passerotto che cade, non faccio niente per evitare la sua caduta. È nella natura della vita che le creature muoiano. Non mi aspetto che la cosa ti piaccia, o che tu la capisca, o che tu sia d’accordo. Te lo dico unicamente per chiarire la mia posizione. Capisci?

— Credo. Ma non ne sono certo.

Gea scosse la mano, come per lasciar perdere la questione. — La tua approvazione non ha importanza. È solo per informarti di come funziona il mio universo.

— L’ho capito.

— Benissimo. Comunque, io non sono impersonale fino a quel punto. Di solito, gli dèi non lo sono. Se ci fosse una vita dopo di questa… e, detto per inciso, non c’è, né nella mia teologia, né nella tua… probabilmente finirei per premiare il tizio che si è lanciato sul binario ed è perito nel generoso tentativo di salvare entrambi i bambini. Quel poveraccio me lo porterei in paradiso, se il paradiso ci fosse. Purtroppo — allargò le braccia, scuotendo la testa — questo è la cosa più prossima al paradiso che ci possa essere, qui dove siamo noi adesso. Non gli faccio tanta réclame, e non pretendo complimenti per averlo costruito; è un posto, come tanti altri. Si mangia bene. — S’interruppe per un istante, e poi concluse: — Ma se devo ammirare qualcuno per un’azione che ha fatto, io lo premio in questa vita. Mi segui?

— Be’, sono qui che ascolto.

Gea si sporse verso di lui e gli diede una pacca sul ginocchio.

— Mi sei simpatico. Dunque, io non do niente per niente. Ma, nello stesso tempo, non metto niente in vendita. Le cure vengono date sulla base del merito. Dulcinea diceva che finora non ti pareva di avere fatto niente che ti meritasse la guarigione. Prova a pensarci ancora.

— Non credo di capire cosa desiderate.

— Be’ — spiegò Gea — per le cose fatte sulla Terra occorrerebbe portare la documentazione. Inventare un dispositivo salva-vita, formulare una nuova filosofia interessante. Sacrificarsi per gli altri. Non hai mai visto La vita è meravigliosa, di Frank Capra? No? È una vergogna che voialtri trascuriate i classici per seguire i capricci della moda e del gusto popolare. Il protagonista di quel film aveva compiuto delle azioni che lo avrebbero reso meritevole, ma non erano documentate, e lui non potrebbe portarmi fin qui un autobus pieno di testimoni, e di conseguenza non avrebbe fortuna. È un peccato, ma io posso agire solo in questo modo. Non ti è venuto in mente niente?

Chris scosse la testa.

— Qualcosa che hai fatto dopo avere parlato con Dulcinea?

— No, niente. Suppongo di avere dedicato tutte le energie al mio problema. Devo scusarmene.

— Non ce n’è bisogno, non ce n’è bisogno. Allora, veniamo al nostro accordo. La questione è che io mi occupo soltanto degli eroi. Puoi pensare che io mi comporto snobisticamente nei riguardi degli effimeri, ma il fatto è che, in un punto o nell’altro, devo pur tirare una linea di demarcazione. Come criterio di scelta, potevo adottare la ricchezza, e il tuo compito sarebbe più difficile. È più facile diventare un eroe, sai, che diventare un riccone.

«Una volta, non mi sarei neppure degnata di parlarti. Prima avresti dovuto dimostrarmi di essere un eroe. A quell’epoca, la prova era semplice. L’ascensore era chiuso agli esseri liberi. Se desideravano vedermi, dovevano arrampicarsi lungo un raggio, seicento chilometri. Chi riusciva a farcela era per definizione un eroe. Molti non ce la facevano, e diventavano degli eroi morti.

«Ma da quando sono diventata la guaritrice della razza umana, ho cambiato le condizioni. Alcuni di coloro che hanno bisogno di cure sono troppo deboli per lasciare il letto. Non possono uccidere draghi, ovviamente, ma ci sono altri modi per dimostrarsi degni, e adesso ne hanno la possibilità anche loro. Consideralo un omaggio al concetto umano di sportività. Comunque, tieni presente che non garantisco un trattamento equo a nessuno. Dovrai correre i tuoi rischi.»

— Questo mi è chiaro.

— Allora, sei a posto. A meno che tu non abbia qualche domanda, puoi partire. Ritorna quando sarai degno della mia attenzione. — Ma non fece alcun cenno di allontanarsi.

— Che cosa volete che faccia?

Gea raddrizzò la schiena, cominciò a contare sulla punta delle dita. Erano corti salsicciotti incrostati di gemme, e gli anelli erano sepolti in mezzo al grasso.

— Punto uno. Niente. Torni a casa e lasci perdere il tutto. Punto due. Il più semplice. Scendi alla circonferenza e risali fin qui. Hai una possibilità di riuscita su trenta. Tre. — Smise di contare, e con un gesto del braccio indicò la gente riunita attorno a lei. — Partecipa al ricevimento. Continua a divertirmi, e io ti terrò eternamente in buona salute. Tutta questa gente è arrivata qui come ci sei arrivato tu. Ha deciso di giocare sul sicuro. Ci sono molti film e, come dicevo, si mangia bene. Ma il numero dei suicidi è elevato.

Chris si guardò attorno, e per la prima volta li fissò con attenzione. Ne capiva perfettamente il motivo. Molte di quelle persone non sembravano neppure vive. Sedevano immobili a guardare l’immenso schermo: presenze opache che trasudavano depressione come un grigio miasma osservato in una foto Kirlian.

— Quattro. Scendi alla circonferenza, e fai qualcosa. Ritorna da me come eroe, e io non solo ti guarirò, ma darò ai medici della Terra le informazioni occorrenti per curare le altre settantatré persone che hanno la tua stessa malattia.

«E qui finisce. Adesso, tocca soltanto a te. Corri verso il binario, o aspetti che lo faccia qualcun altro? Quelle settantatré persone sperano che arrivi qualcuno più coraggioso di loro, qualcuno che soffra del loro stesso disturbo. C’è già qui un uomo, a dire il vero, che ha la tua stessa malattia. Eccolo là, quel giovane dagli occhi affamati. Se scenderai alla circonferenza, per vivere o per morire che sia, potresti salvarlo. Oppure potresti unirti a lui, e aspettare che arrivi un vero eroe.»

Chris guardò l’uomo e rimase sorpreso. «Occhi affamati» era la descrizione esatta. Per uno spaventoso istante, Chris si vide a fianco di quell’uomo.

— Ma cosa volete che faccia? — gemette Chris. — Non potete darmi un suggerimento?

Capì che Gea stava rapidamente perdendo l’interesse in lui. Si era voltata a guardare le immagini sullo schermo. Ma si girò verso di lui per l’ultima volta.

— Là sotto c’è un’area di un milione di metri quadri. Le caratteristiche geografiche sfiderebbero la tua immaginazione. C’è un diamante grosso come il Ritz, posto in cima a una montagna di vetro. Portami quel diamante. Certe tribù vivono sotto un’oppressione spietata, schiave di creature malvage con gli occhi rossi e ardenti come la brace. Liberale. Ci sono centocinquanta draghi, ciascuno diverso dall’altro, sparsi qua e là per la mia circonferenza. Uccidine uno. Ci sono migliaia di torti da raddrizzare, di ostacoli da superare, di innocenti da salvare. Il mio consiglio è di metterti in viaggio lungo la mia superficie. Prima che tu ritorni al punto di partenza, ti garantisco che il tuo coraggio sarà stato messo alla prova mille volte.

«Ma devi deciderti subito. Quell’uomo laggiù e altri settantadue sulla Terra aspettano te. Sono legati alle rotaie del treno. Tocca a te salvarli, e il tuo primo passo è quello di capire che forse non riuscirai neppure a salvare te stesso. Ma se morirai, almeno sarai morto nel tentativo.

«Che cosa decidi, allora? O ordini da bere, o ti togli dai piedi!»

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