18 Risveglio totale

Gaby aveva sperato di poter giungere fino ad Aglaia prima di montare l’accampamento, ma ora vide che quei progetti erano poco realistici. Cirocco non era in condizione di proseguire.

In realtà, avevano tenuto una buona media. Il ritmo mantenuto dai titanidi con le pagaie li aveva portati all’ultima ansa settentrionale fatta da Ofione prima di volgere definitivamente il suo corso verso est. Una piattaforma di roccia, coperta di relitti trasportati dall’acqua, si sporgeva entro l’alveo del fiume e forniva un comodo argine su cui fermare le canoe. In cima a un piccolo poggio c’era un gruppo di alberi, e lassù i titanidi montarono l’accampamento, con Chris e Robin che cercavano di aiutare e che in realtà facevano solo perdere tempo.

Gaby calcolava che la pioggia fosse destinata a durare per varie decariv. Avrebbe potuto mettersi in contatto con Gea per accertarsene, o addirittura, con ottime ragioni, avrebbe potuto chiederle di farla cessare. Ma il tempo atmosferico era assai regolare su Gea. Già molte volte aveva visto una pioggia di trenta ore venire dopo un’ondata di calore di due ettoriv, e pareva che anche quella volta la successione fosse destinata a ripetersi. Le nubi erano basse e ininterrotte.

A nordest riusciva a distinguere con difficoltà la Casa del Vento, l’ancoraggio su Iperione del cavo inclinato di sostegno che era noto come Scala di Cirocco. Il cavo svaniva nella coltre di nubi, e pareva soltanto una macchia più scura, indistinta, prima di uscire da esse, in qualche punto a nord della posizione di Gaby. Le parve di scorgere un chiarore al di sopra delle nubi, dove il cavo, ormai libero, rifletteva la luce illuminando anche la propria immensa ombra.

La Scala di Cirocco. Fece un sorrisino, ma senza amarezza. Quasi tutti parevano essersi dimenticati che le persone che si erano arrampicate sul cavo erano due. Ma la cosa non le dava fastidio. Sapeva che, a parte la strada da lei costruita, su quel folle mondo Cirocco aveva lasciato molti più segni di lei.

Salì in cima al poggio e osservò divertita Chris e Robin che cercavano di rendersi utili. I titanidi erano troppo cortesi per rifiutare le loro offerte di aiuto, e così finiva che le cose che si potevano fare in cinque minuti ne richiedevano quindici. E, naturalmente, era la cosa da farsi. Chris non aveva parlato dei suoi precedenti, ma era un ragazzo di città, a parte qualche escursione nelle foreste addomesticate della Terra. Robin veniva da una iper-città, anche se la periferia della Congrega era piena di piantagioni e di mucche pittoresche. In tutta la sua vita non aveva mai visto qualcosa di selvatico, di non pianificato.

Quando giunse il momento di preparare il cibo, però, i titanidi piantarono in terra tutt’e quattro i piedi e allontanarono i giovani umani. La cucina dei titanidi era quasi perfetta come la loro musica. Per il primo giorno di viaggio frugarono tra i pacchetti e cercarono i cibi che rischiavano di guastarsi: i bocconi scelti, portati per essere mangiati subito. Gettarono legna sul fuoco e costruirono attorno a esso un muretto circolare di sassi levigati, tirarono fuori le pentole di rame, e fecero i gesti magici con cui i titanidi riuscivano a trasformare carne e pesce in miracoli di improvvisazione.

Poco più tardi, il frutto della loro attività cominciò a diffondersi nell’aria. Gaby si sedette ad assaporare quell’attesa, e si sentì felice come non lo era più stata da molto tempo. Si ricordava di cibi molto più semplici, mangiati in compagnia, molti anni prima, quando lei e Cirocco, stanche e doloranti e senza la certezza di sopravvivere ancora per un altro giorno, erano state vicine più che mai. Erano ricordi dolci e amari insieme, ma l’età le aveva insegnato che per sopravvivere occorreva afferrarsi alle buone cose della vita. Avrebbe potuto lamentarsi di tutto ciò che era andato storto da quel giorno lontano in poi, o avrebbe potuto preoccuparsi per Cirocco, che in quel momento, nella tenda, in preda ai conati, architettava qualche piano per recuperare la bottiglia dalla sacca di Salterio. Invece, preferiva assaporare l’odore del buon cibo, ascoltare il rumore rassicurante della pioggia che si mescolava ai canti dei titanidi, sentire il primo soffio della brezza rinfrescante, lungamente attesa, che giungeva dall’est.

Aveva centotré anni, e partiva per un viaggio che, come tutti i suoi viaggi precedenti, forse non avrebbe mai finito. Su Gea non c’erano assicurazioni sulla vita, neppure per la Maga. Tantomeno per una rompiscatole indipendente come lei, che veniva tollerata da Gea unicamente perché si poteva fare più affidamento su di lei che su Cirocco.

L’idea non la turbava affatto. Contava di sopravvivere e di prosperare. Un tempo, l’idea di raggiungere un’età come la sua sarebbe stata inconcepibile, ma ora sapeva che i centenari sono sempre giovani, sotto la loro scorza; lei, accidentalmente, aveva la fortuna di avere anche un aspetto giovanile e di sentirsi giovane. Oggi si sentiva sedicenne, sui Monti San Bernardino, con il suo telescopio e il suo fuoco, entrambi fatti da lei, in attesa che il cielo si oscurasse e che comparissero le prime stelle. Cosa si poteva chiedere di più alla vita?

Sapeva di non poter crescere di più. Né si aspettava di farlo. Con l’aumentare dell’età, si era accorta che aumentavano l’esperienza e la conoscenza, si allargavano le prospettive. C’erano molte cose che, in apparenza, potevano continuare a crescere per sempre, ma in realtà si raggiungeva a un certo punto un plateau di saggezza. Se fosse riuscita a giungere al secondo secolo, non si aspettava di cambiare ancora in modo significativo. Queste idee le avevano dato un po’ di preoccupazione al compimento dell’ottantesimo anno, ma ormai aveva smesso di pensarci. Le bastavano le preoccupazioni di ciascun giorno.

E quel giorno le riservava ancora una preoccupazione, prima di concludersi.

Guardò Robin che si muoveva accanto al fuoco, e trasse un sospiro.

Il pranzo era al solito livello di eccellenza dei titanidi, a parte una singola nota aspra. Alla lettera. Di tanto in tanto, l’arte culinaria dei titanidi impiegava una potentissima spezia che era preparata dai semi macinati di un frutto azzurro, grosso come un cocomero. Aveva un elegante nome nel linguaggio cantato dei titanidi, ma gli umani la chiamavano generalmente "iper-limone". Era bianca e granulosa, e pochi pizzichi erano sufficienti per qualsiasi ricetta.

Quando il cibo fu quasi pronto per essere servito, Salterio si voltò all’improvviso e sputò in terra il boccone di verdura che stava assaggiando. Per qualche momento gli bruciarono troppo le labbra per riuscire a parlare, e gli altri titanidi lo guardarono con aria interrogativa. Lui indicò il cucchiaio, e Valiha ne assaggiò il contenuto, con la punta della lingua. Fece una smorfia.

Non occorse molto tempo per scoprire che un sacchetto di cuoio con la scritta SALE conteneva in realtà concentrato di iper-limone. Era stata Oboe ad acquistare quel sacchetto. Dopo molte discussioni, i quattro titanidi, scandalizzatissimi dell’accaduto, giunsero alla conclusione che il venditore, un ex dedito alla tequila, e ora convinto astemio, chiamato Cetra, aveva deciso, per qualche suo motivo, di fare quello scherzo al gruppo della Maga.

Nessuno dei titanidi riuscì a ridere della burla. Secondo Gaby non si trattava di una grande cosa, anche se dovettero gettare via una pentola di verdura. Avevano ancora una buona scorta di vero sale. Un controllo delle altre provviste non rivelò ulteriori sostituzioni. Ma, per un titanide, sprecare del buon cibo era un peccato mortale. Nessuno di loro riusciva a capire perché Cetra avesse loro giocato quel tiro.

— Andrò subito a chiederglielo, al nostro ritorno — promise Salterio, buio in volto.

— E io ti accompagnerò — disse Valiha.

— Perché fate tante storie? — volle sapere Gaby. — È stato uno scherzo innocente. A volte, voialtri mi sembrate troppo seri. Sono lieta di vedere che apprezzate anche gli scherzi.

— Non ce l’abbiamo con gli scherzi — disse Oboe. — Un bello scherzo piace a tutti. Ma questo è… di cattivo gusto.

Anche se non era invecchiata, in Gaby qualcosa era cambiato con il passare degli anni. Dormiva meno di un tempo. Di solito, due ore su venti le erano sufficienti. Spesso rimaneva sveglia per sessanta e perfino per settanta rivoluzioni senza difficoltà.

I titanidi dicevano che diventava progressivamente simile a loro, e che presto avrebbe perso del tutto quell’antipatica abitudine del sonno.

Qualunque fosse il motivo, si era detta che per quei primi giorni poteva evitare di dormire fino al successivo accampamento. Si allontanò da sola, camminando per qualche tempo sulla riva del fiume e, quando fece ritorno, nel campo si sentiva solo la bassa cantilena dei titanidi in fase di riposo. Erano stesi attorno al fuoco, come quattro enormi sculture buffe: con le mani facevano dei lavoretti non impegnativi, e la loro mente seguiva chissà quali pensieri. Valiha era stesa sul fianco, appoggiata a un gomito. Oboe era stesa sulla schiena, e adesso il torso umano era allineato con il resto del corpo; aveva le gambe in alto, e le teneva ripiegate come un cagnolino che volesse farsi grattare la pancia. Di tutte le posizioni assunte dai titanidi, Gaby aveva sempre pensato che quella fosse la più buffa.

A una certa distanza dal fuoco c’erano quattro tende, in mezzo agli alberi. Passò davanti alla sua, che naturalmente era vuota. Nella seconda c’era Cirocco, che dormiva un sonno agitato: aveva in corpo due robuste dosi di liquore e un lago di caffè. Gaby sapeva che quello che la agitava non era il caffè.

Si fermò davanti alla tenda di Chris, e si disse che dare un’occhiata all’interno sarebbe stata solamente pura e semplice curiosità. Non aveva niente da dire a Chris. E dunque rimaneva soltanto l’ultima tenda. Attese per alcuni minuti, finché non sentì giungere un fruscio dall’interno.

— Posso parlarti un momento?

— Chi è? Gaby?

— Sì.

— Penso di sì. Entra.

Robin era seduta sul sacco a pelo, che era steso sopra un mucchio di muschio portato da Oboe. Gaby accese la lampada appesa al bastone della tenda, e vide che Robin la fissava con attenzione, ma senza particolare avversione. Indossava gli abiti che aveva portato per l’intera giornata.

— Ti ho disturbato?

Robin scosse la testa. — Non riesco a dormire — confessò. — È la prima volta, in tutta la mia vita, che non dormo in un letto.

— Oboe sarà lieta di procurarti dell’altro muschio.

— Non servirebbe. Devo abituarmi, credo.

— Potresti metterti qualcosa di più leggero.

Robin le mostrò l’elegantissima camicia da notte che Oboe le aveva preparato. — Non è il mio genere — disse. — Come si può dormire in una camicia da notte come questa? Starebbe bene in una vetrina.

Gaby rise, poi appoggiò a terra un ginocchio e si aggiustò uno stivale. Quando sollevò nuovamente lo sguardo, vide che Robin la guardava. Meglio affrontare l’argomento, pensò. Sa che non sei entrata per portarle gli asciugamani puliti.

— Credo di doverti delle scuse, per prima cosa — disse. — E quindi ti faccio le mie scuse. Mi spiace di averlo fatto, non avevo giustificazione.

— Accetto le scuse — disse Robin. — Ma l’avvertimento resta valido.

— Giusto. Capisco. — Gaby sceglieva le parole con la massima attenzione possibile. Occorreva qualcosa di più di una scusa, ma non voleva assumere toni di superiorità.

— Quello che ho fatto è sbagliato sia nella tua cultura che nella mia — disse. — Le scuse sono per avere violato il mio codice di comportamento. Ma mi dicevi che voi streghe avete un sistema di doveri, non ricordo più la parola.

Labra — disse Robin.

— Già. Non pretendo di capirne tutte le sfumature. Credo di averlo violato, anche se non so come. Perciò devo chiederti un aiuto. C’è un modo per risolvere la questione tra noi? Posso fare qualcosa per cancellare l’accaduto?

Robin aggrottava la fronte. — Non vorrai…

— No, sono disposta a fare qualsiasi cosa. C’è forse un modo?

— Sì. Ma…

— Quale?

Robin sollevò le mani. — Come in tutte le culture primitive, credo. Un duello. Tra noi.

— Un duello di che tipo? — chiese Gaby. — A morte?

— Non siamo primitivi fino a questo punto. Lo scopo è la riconciliazione, non l’omicidio. Se pensassi di doverti uccidere, lo farei, sperando di essere aiutata in tribunale dalle sorelle. Un combattimento a mani nude.

Gaby rifletté. — E se vinco io?

Robin sospirò, esasperata.

— Non hai capito. L’importante non è vincere; almeno, non nel senso che pensi tu. Non dobbiamo cercare di dimostrare chi è la migliore. La lotta servirebbe soltanto a far vedere chi è più forte e più veloce, e questo non ha niente a che fare con l’onore. Ma, accettando di lottare con la clausola di non ucciderci, ciascuna di noi riconosce che l’altra è un avversario meritevole, e dunque onorevole. — S’interruppe, e per un attimo fece una faccia estremamente perfida. — Non preoccupartene — aggiunse. — Non vincerai…

Gaby le sorrise a sua volta, e pensò nuovamente che quella strana ragazzina le era davvero simpatica. Più che mai, desiderava averla dalla propria parte, quando fossero iniziati i pericoli.

— Allora? Sono un’avversaria meritevole?

Robin attese qualche istante, prima di rispondere. Da quando aveva proposto la lotta, Gaby si era accorta di un certo cambiamento in se stessa. Si chiese se Robin lo stesse prendendo in considerazione. Doveva lasciarla vincere? Poteva essere rischioso, se Robin l’avesse sospettata di lottare senza impegno. E se Robin avesse perso, avrebbe seppellito la scure di guerra? Gaby doveva basarsi sulla sua parola. Pensava di conoscere a sufficienza la piccola strega: il suo concetto di onore non le avrebbe permesso di suggerire la lotta, se non avesse pensato di mantenere i patti. Perciò doveva aspettarsi un combattimento serio, e probabilmente anche qualche ammaccatura.

— Se è davvero questo che vuoi… — disse Robin.

Robin si toglieva i vestiti, e Gaby la imitò. Erano a mezzo chilometro dal fiume, e il fuoco del campo era una macchiolina di luce che si scorgeva a distanza, in mezzo alla pioggia. Il campo dove dovevano combattere era una bassa depressione fra due collinette. C’era dell’erba, ma il terreno era sufficientemente compatto: terra cotta dal calore, che cominciava a inumidirsi soltanto allora, dopo sei ore di pioggia continua. Comunque, c’era qualche difficoltà a muoversi. In certi punti c’erano delle pozzanghere e del fango.

Si misero una davanti all’altra, e Gaby valutò la sua avversaria. Erano pressappoco pari. Gaby aveva qualche centimetro di altezza e qualche chilo di più.

— Ci sono delle procedure da rispettare, dei rituali?

— Sì, ma si tratta di cose complicate, e per te non avrebbero significato; meglio lasciarle perdere. Abracadabra e salagazam, tu t’inchini a me e io mi inchino a te, e il rito è soddisfatto. Va bene?

— Ci sono delle regole?

— Come? Oh, credo di sì, non pensi? Ma non so fino a che punto tu conosci la lotta.

— So come uccidere una persona con le mani nude.

— Allora, diciamo niente colpi che causino danni permanenti all’avversario. Chi perde dovrà essere in grado di camminare, domani. A parte questo, tutto è permesso.

— Giusto, ma, prima di cominciare, mi incuriosiva il tatuaggio che hai sullo stomaco. Cosa significa? — Indicò il ventre di Robin.

Sarebbe andata meglio se Robin si fosse guardata la pancia invece di guardare la mano di Gaby, ma fu colta fuori guardia lo stesso, quando Gaby scalciò con il piede che aveva accuratamente infilato nel fango. Robin evitò il calcio, ma un mucchietto di fango la colpì sulla faccia, accecandole un occhio.

Gaby aveva previsto il balzo all’indietro ed era pronta a sfruttarlo, ma i riflessi di Robin furono più svelti, e Gaby si prese un calcio sul fianco. La rallentò quanto bastava a Robin per eseguire la sua mossa a sorpresa.

Si voltò dall’altra parte e corse via.

Gaby le corse dietro, ma non era una tattica a cui fosse abituata. Si aspettava qualche trucco, e perciò la rincorse più lentamente di quanto avrebbe potuto. Di conseguenza, Robin riuscì presto a distanziarla. Si fermò quando la distanza tra loro salì a dieci metri, e, quando si voltò, aveva entrambi gli occhi bene aperti.

Gaby pensava che probabilmente vedeva meno bene di prima, ma la pioggia le aveva tolto gran parte dello svantaggio. Gaby rimase colpita dalle azioni di Robin. Quando tornò ad avvicinarsi alla ragazza, lo fece con grande cautela.

Fu come se fossero ripartite dall’inizio. Gaby si sentiva impacciata, perché non aveva mai combattuto in quella maniera, in precedenza. Aveva imparato la lotta molto tempo prima, e anche se le sue conoscenze non erano certo arrugginite, faticava a ricordare cosa avesse imparato in quelle lezioni. Negli ultimi ottant’anni aveva sempre combattuto seriamente, nel senso che quei combattimenti potevano essere mortali. L’impostazione della lotta non era mai più stata quella di una lezione. Robin, invece, doveva avere una grande esperienza di quel tipo di lotta. Dato il caratterino della ragazza, Gaby era disposta a metterci la mano sul fuoco.

Non c’era motivo perché la lotta durasse più di qualche minuto, anche lottando corpo a corpo. Ma Gaby ne dubitava. Quando si avvicinò all’avversaria, decise di rischiare il tutto per tutto; non cercò di colpire con calci o pugni, e in tal modo lasciò a Robin un varco, perché era certa di riuscire a bloccarla in tempo, se lei ne avesse approfittato. Invece, Robin non cercò di approfittarne, e finirono per afferrarsi per le braccia, con un presa di lotta greco-romana. Senza bisogno di dirlo a parole, questo costituiva una sorta di accordo tra loro, e Gaby si ripromise di rispettarlo. Accettando che la lotta si ritualizzasse al di là delle regole pattuite, Robin in sostanza le diceva che non voleva che si facessero male. Questo significava che giudicava Gaby un’avversaria onorevole.

Occorse un certo tempo. Gaby comprese che, accettando quel tipo di lotta, rinunciava a qualsiasi vantaggio. Ma la cosa non aveva importanza. Si aspettava di perdere, ma questo non le impedì di offrire tutta la resistenza di cui era capace. Robin si trovò in un vero combattimento, e non in un gioco.

— Basta! — gridò Gaby.

Robin le lasciò il braccio, e anche la fitta di dolore si allontanò progressivamente dalla spalla di Gaby. Sollevò la faccia dal fango e, muovendosi con cautela, riuscì a mettersi su un fianco. Cominciò a sperare di poter anche riprendere l’uso del braccio, un giorno o l’altro.

Sollevando gli occhi, vide che Robin sedeva a testa bassa, e che soffiava come un mantice.

— Rivincita? — disse Gaby.

Robin si mise a ridere. Senza alcun imbarazzo.

— Se tu lo dicessi sul serio — riuscì infine a dire — ti metterei le manette e ti ficcherei in una gabbia. Ma probabilmente riusciresti a rosicchiare le sbarre.

— Due o tre volte te la sei vista brutta, eh?

— Non ti dico quanto.

Gaby si chiese perché si sentisse così bene, considerato che aveva tutto il corpo dolorante. Doveva essere l’euforia del maratoneta, il rilassamento completo che sopraggiunge dopo essersi sforzati allo spasimo. Comunque, non aveva subito danni. Qualche livido, e la spalla le avrebbe fatto male per qualche giorno, ma l’indolenzimento che provava era dovuto solo alla stanchezza, non ai cazzotti.

Robin si alzò lentamente in piedi. Le tese la mano.

— Andiamo al fiume. Hai bisogno di una bella lavata.

Aiutata da Robin, Gaby riuscì a rialzarsi. Robin zoppicava leggermente, e neppure Gaby si sentiva molto sicura delle sue gambe, e perciò furono costrette a sostenersi a vicenda nel corso dei primi, faticosi, cento o duecento metri.

— Volevo chiederti davvero il significato del tatuaggio — disse Gaby, quando raggiunsero il fiume.

Robin si passò le mani sull’addome, ma non riuscì a pulirsi. — Adesso non si vede — disse. — Troppo fango. Cosa ne pensi?

Gaby stava per fare qualche commento educato e non impegnativo, ma poi cambiò idea.

— È una delle cose più orribili che abbia visto.

— Esattamente. È fonte di grande labra.

— Me lo spieghi? Tutte le streghe si sfigurano così?

Scesero cautamente nell’acqua del fiume e si sedettero sulle pietre. La pioggia era un po’ cessata, e si era ridotta a una fine nebbia, mentre a nord, da un varco tra le nuvole, giungeva nuovamente un po’ di luce.

Gaby non vedeva più il tatuaggio, ma non riusciva a toglierselo dalla mente. Era grottesco, agghiacciante. Assomigliava a un disegno anatomico, e mostrava i vari strati di tessuto, incisi e tirati indietro in modo da mettere a nudo gli organi sottostanti. Le ovaie parevano grappoli marci, pieni di vermi. Le tube erano annodate varie volte. Ma il peggiore era l’utero: era gonfio, fuoriusciva dall’«incisione» e perdeva gocce di sangue da una lacerazione. Era chiaro che la ferita era causata dall’interno, come se qualcosa si facesse strada per uscire. E della creatura ancora nascosta là dentro si scorgevano soltanto gli occhi, rossi e animaleschi.

Quando andarono a riprendere i vestiti, riprese a piovere forte. Gaby non si preoccupò quando vide che Robin inciampava e cadeva; il terreno era scivoloso, e nella lotta si era leggermente storta una caviglia. Ma alla quarta caduta di Robin divenne chiaro che c’era qualcosa che non andava. Barcollava, tremava e stringeva i denti.

— Ti aiuto io — disse Gaby, dopo un poco.

— No, grazie, ce la faccio da sola.

Un minuto più tardi, cadde a terra e non si rialzò più. Il suo corpo tremava, ma in modo ritmico e lento, senza scosse violente. Gli occhi erano fissi. Gaby si inginocchiò accanto a lei e le mise un braccio dietro le ginocchia, l’altro dietro le spalle, e fece per sollevarla.

— Nnnno… Nnno.

— Cosa? Ragiona, non posso lasciarti sotto la pioggia.

— Sssii… Sssii. Lllasciami…

Era un vero problema. Gaby la lasciò a terra, ma le rimase accanto, perplessa. Guardò in direzione del campo, che ormai non era lontano, e poi tornò a guardare Robin. Era in cima a una bassa collinetta, e non c’era il pericolo che l’acqua salisse. E neppure che Robin affogasse a causa della pioggia. In quella parte di Iperione non c’erano predatori che le potessero dare fastidio, anche se qualche piccolo animale poteva morsicarla.

Si ripromise di chiarire in seguito l’intera faccenda. Dovevano trovare qualche tipo di accordo, perché Gaby non era disposta a rifarlo. Ma per adesso si voltò dall’altra parte e fece ritorno al campo.

Oboe si alzò in piedi, preoccupata, quando vide che Gaby ritornava da sola. Gaby sapeva che la titanide le aveva viste allontanarsi insieme; probabilmente, sapeva cosa erano andate a fare, laggiù nella pioggia. Prima che traesse le conclusioni sbagliate, Gaby si affrettò a rassicurarla.

— Robin sta bene. Almeno, mi pare. Ha un attacco e non vuole essere aiutata. Potremo andare a riprenderla quando sarà il momento di partire. Dove vai?

— A prenderla, naturalmente, per riportarla nella tenda.

— Non credo che lo voglia.

Oboe pareva al massimo dell’irritazione; Gaby non aveva mai visto un titanide così irritato.

— Voi umani, e i vostri sciocchi giochi — disse, sbuffando in segno di insofferenza. — Io non sono tenuta a rispettare le regole di nessun gioco: né le sue, né le tue.

Robin scorse la figura di Oboe che si avvicinava in mezzo alla pioggia scrosciante. Maledizione, Gaby le aveva spedito la cavalleria; era ovvio.

— Sono venuta per conto mio — disse la titanide, sollevando Robin dal fango. — Qualsiasi concetto umano tu intenda difendere attraverso questo folle gesto, il concetto rimane intatto, perché non sei portata via da un essere umano.

Posami a terra, cavallino a dondolo troppo cresciuto, cercò di dire Robin, ma la sua gola emise solo qualche odioso gorgoglio.

— Mi occuperò io di te — disse teneramente Oboe.

Quando Oboe se la mise sulla groppa, in Robin era scesa un calma carica di minacce. Rinuncia alla lotta, sottomettiti, aspetta che finisca, e alla fine avrai la tua rivincita. Adesso non puoi fare niente, ma in seguito potrai fargliela pagare.

Oboe fece ritorno con un catino di acqua tiepida. Lavò Robin e la asciugò, la tenne sollevata come una bambola di pezza con i circuiti guasti e le infilò la camicia da notte ricamata. Poi la sollevò con una sola mano, come se il suo peso non superasse quello di un foglio di carta, e la fece scivolare nel sacco a pelo. Infine glielo chiuse sul collo.

E cominciò a cantare.

Robin sentì come una sorta di nodo bruciante in fondo alla gola. La cosa la riempì di orrore. Venire presa, lavata, vestita, infilata a letto… era una terribile offesa alla sua dignità. Aveva il dovere di essere in collera. Di prepararsi gli insulti da rivolgere a quella creatura non appena riacquistata la padronanza del suo corpo. Invece, si sentiva solo soffocare da un’emozione da tempo scordata.

Mettersi a piangere sarebbe stato inconcepibile. Se ci si abbandonava al pianto, non ci si poteva mai più liberare dall’autocompassione. Era la sua più grande paura, talmente spaventosa che non riusciva neppure a pronunciarne il nome. C’erano state delle volte in cui, tutta sola, aveva pianto. Ma non lo avrebbe mai fatto in presenza di altre persone.

Eppure, in un certo senso, lei era sola. La stessa Oboe l’aveva detto. Le regole umane, i concetti della Congrega, laggiù non erano validi. E poi non si trattava neppure delle regole umane: la Congrega non le aveva mai chiesto di non piangere. Glielo chiedeva unicamente la disciplina che lei stessa si imponeva.

Sentì un pianto e capì che proveniva da lei. Dall’angolo degli occhi le scendevano le lacrime. Il nodo che aveva in gola non si lasciava inghiottire, e per questo doveva venire fuori in qualche altro modo.

Robin si arrese a quel nodo, e piangendo fra le braccia di Oboe finì per addormentarsi.

Chris sedeva sul sacco a pelo, in quella maledetta penombra, e tremava. Da ore gli pareva imminente un attacco, che però si rifiutava di sopraggiungere. O era già sopraggiunto? Come aveva detto a Gaby, lui era il meno adatto a giudicare se si trovava in una delle sue fughe psicologiche. Comunque, questo non era del tutto vero. Se avesse avuto un attacco, lui non se ne sarebbe reso conto, alla sua mente sarebbe parso del tutto ragionevole funzionare con gli ingranaggi fuori posto e i pistoni sbiellati, ma non se ne sarebbe stato lì a sudare.

Si disse che era colpa della luce e della pioggia che batteva sulla tenda. La luce era del tutto fasulla. A giudicare da quella che riusciva a penetrare all’interno della tenda, o si era di prima mattina, ed era quindi il momento di alzarsi, o si era al tramonto, e quindi era troppo presto per andare a dormire. E non si decideva mai a diventare una luce più decente.

Nonostante la pioggia, era incredibile la quantità di cose che riusciva a udire. C’erano i tranquilli canti dei titanidi e gli scoppiettii del fuoco. Qualcuno si era avvicinato alla sua tenda, si era fermato per un istante, gettando su di essa la sua ombra, e poi se n’era andato. Più tardi aveva sentito voci di gente che conversava e rumore di gente che si allontanava. Molto più tardi, qualcuno aveva fatto ritorno.

E adesso c’era qualcuno che si avvicinava. Neppure la Maga avrebbe potuto gettare un’ombra così grande.

— Si può?

— Entra, Valiha.

Aveva con sé un asciugamano, e mentre infilava nella tenda la testa e il torso per tenerla aperta, se ne servì per pulirsi gli zoccoli dal fango, prima di posarli sulla tela che costituiva il pavimento della tenda. Ripeté poi l’operazione per le zampe di dietro, piegandosi e torcendosi; pareva un cane intento a grattarsi le orecchie, ma nel suo gesto non c’era niente di goffo. Indossava un mantello di tela cerata, color viola, che pareva una piccola tenda. Se lo tolse e lo appese a un portamantelli accanto all’entrata. Per tutto il tempo richiesto da queste operazioni, Chris continuò a chiedersi il motivo di quella visita.

— Ti spiace se accendo la lucerna?

— Fai pure.

La tenda era di dimensione adatta ai titanidi, ossia Valiha poteva stare in piedi al suo interno e aveva ancora lo spazio sufficiente per girare su se stessa. La lucerna gettò strane ombre di lei, finché Valiha non la appese al palo e non si sedette a terra a gambe incrociate.

— Non posso fermarmi a lungo — disse. — Anzi, forse venire qui è uno sbaglio. Comunque, sono venuta.

Se intendeva confonderlo, c’era riuscita perfettamente. Si toccava nervosamente con le mani il bordo del marsupio, e quello spettacolo metteva leggermente in imbarazzo Chris. Infilava i pollici all’interno e poi lo tirava come se fosse stato un paio di calzoncini da bagno con la cintura elastica.

— Sono rimasta sconvolta nel sapere che tu… davvero non ricordavi le cento riv passate insieme, quando ti ho trovato mentre vagavi sotto la Scala di Cirocco, dopo il Grande Salto.

— Quanto sono, cento riv?

— Poco più di quattro giorni terrestri.

— È un periodo alquanto lungo. E ci siamo divertiti?

Lei lo fissò per un istante, poi riprese a torcere il bordo del marsupio.

— Io sì. E dicevi che ti piaceva. Ma quello che volevo dirti adesso, è che non devi pensare che ti considerassi solo un portafortuna, come ho detto quando hai ripreso i sensi.

Chris alzò le spalle. — Anche se fosse vero, non mi darebbe nessun fastidio. E se ti ho portato fortuna, ne sono lietissimo.

— Non si tratta di questo. — Si morse il labbro inferiore, e Chris le vide spuntare una lacrimuccia, che subito scomparve. — Che Gea mi maledica — gemette. — Non riesco a dirlo nel modo giusto. Anzi, non so neppure cosa dovrei dirti, tranne che ringraziarti. Anche se non ricordi niente. — Infilò una mano nella borsa e prese una cosa che poi gli mise tra le mani.

— È per te — disse. Poi si alzò in piedi e scomparve. Prima, praticamente, che Chris riuscisse a capire.

Aprì la mano e fissò l’uovo titanide. Il colore dominante era il giallo, come sulla stessa Valiha, ma c’era anche una serie di anse nere. Sulla sua dura superficie c’era una scritta, in piccoli, tremolanti caratteri terrestri:

Valiha (Assolo Eolio) Madrigale: Fortunato Major
26 Gigariv, 97618 685 Riv (2100 d.C.)
"Gea Non Spiega Mai Perché Ruota"
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