2 Ubi Major…

— Allora, volete un miracolo — disse la titanide, con impeccabile accento irlandese. — Volete recarvi in cima alla montagna e chiedere a Gea di realizzare il vostro grande desiderio. Volete farle perdere del tempo prezioso per risolvere il problema che a voi pare tanto importante.

— Qualcosa del genere. — S’interruppe, mordendosi il labbro inferiore. — Proprio così, suppongo.

— Lasciatemi indovinare. Un problema medico. Un problema di vita e di morte.

— Medico. Ma non di vita e di morte. Vedete, si tratta di…

— No, aspettate. — Sollevò le mani, con le palme rivolte verso di lui. Non intendeva concedergli il visto, si disse Chris’fer.

— Riempiamo il modulo, prima di procedere. — Cominciò dalla cima del foglio, scrivendo la data del giorno, e poi chiese, con una smorfia: — Come si scrive, il vostro nome? Con l’apostrofo?

Nei dieci minuti seguenti, Chris’fer le diede le solite informazioni che si davano in qualsiasi ufficio aperto al pubblico: numero di ONU-IDENTITÀ, nome del coniuge, età, sesso… («WA3874-456-11093, scapolo, ventinove, maschio eterosex…»). A partire dai sei anni di età, ogni cittadino era in grado di recitarlo da addormentato.

— Motivo della visita a Gea? — chiese la titanide. Chris’fer appoggiò le dita di una mano a quelle dell’altra, coprendosi parzialmente la faccia.

— Ho questa malattia. È… difficile da descrivere. È una malattia ghiandolare o neurologica, non lo hanno capito bene. Finora c’è solo un centinaio di casi, e la chiamano sindrome 2096 barra 15. Mi succede di perdere contatto con la realtà. A volte provo una forte paura. Altre volte entro in un mondo allucinatorio e non sono più padrone di me stesso. In seguito, non ricordo più niente. Ho delle allucinazioni, parlo in lingue straniere, e il mio potenziale di Rhine cambia bruscamente. Divento fortunatissimo, lo crediate o no. Un medico diceva che devo ringraziare questo potere paranormale se finora sono riuscito a evitare guai grossi, come uccidere una persona o cercare di volare buttandomi giù dal tetto.

La titanide sbuffò. — Siete sicuro di voler proprio guarire? Molti di noi saprebbero come utilizzarlo, quel po’ di fortuna in più.

— Non c’è niente di divertente, almeno per me. Non c’è nessuna medicina che riesca a fermarlo. Posso soltanto prendere dei tranquillanti in previsione dell’attacco. Da anni mi sottopongo a tutti gli esami psicologici che esistono, e la risposta è che si tratta di un problema medico. Non è causato da traumi del mio passato, e non è neppure una fuga da un problema del momento. Altrimenti, tutto sarebbe risolto. Possono mettere a posto tutto, se si tratta di faccende psicologiche. Gea è la mia ultima speranza. Se Gea mi rifiuta, dovrò finire in un ospedale per il resto della vita. — Senza accorgersene, aveva stretto ì pugni e se li era portati al mento. Riaprì le mani.

L’ambasciatrice lo fissò con occhi grandi, impenetrabili, e poi tornò a guardare il modulo che stava compilando. Chris’fer la osservò. Nello spazio dove c’era scritto: «Motivo della richiesta», la titanide segnò: «Malato». Poi fissò quella parola, aggrottando la fronte e, dopo averla cancellata con un frego, scrisse: «Pazzo».

Chris’fer sentì che le orecchie gli bruciavano. Stava per protestare, ma lei lo precedette con un’altra domanda.

— Che colore preferite?

— Azzurro. No, verde… c’è davvero scritto?

Lei girò leggermente il modulo, per fargli vedere che c’era davvero scritto.

— Allora, decidete per il verde?

Incapace di fare obiezioni, lui annuì lentamente con la testa.

— Età a cui avete perso la verginità.

— Quattordici.

— Come si chiamava lui o lei, e di che colore aveva gli occhi?

— Lyshia. Azzurri.

— Avete avuto ulteriori rapporti sessuali con lui o lei?

— No.

— Chi è, secondo voi, il più grande musicista di ieri e di oggi?

Chris’fer cominciava a irritarsi. In cuor suo, Rea Pashkorian doveva essere la migliore; lui si era comprato tutti i suoi nastri.

— John Philip Sousa.

Lei sorrise senza alzare la testa, e Chris’fer non riuscì a capirne il motivo. Si era aspettato un invito a comportarsi seriamente, o a non cercare di influenzare l’interrogante, ma pareva che la titanide si prestasse al gioco. Con un sospiro, aspettò le altre domande.

Non avevano nessun collegamento con il visto da lui richiesto. Ogni volta, quando già gli pareva di scorgere una sorta di filo conduttore tra le domande, il tipo di domanda cambiava. Alcune domande riguardavano problemi morali, altre parevano formulate a caso. Cercò di rimanere serio, perché non sapeva fino a che punto fossero importanti, quelle domande, per il suo visto. Cominciò a sudare, anche se nella stanza faceva freddo. Non c’era modo di capire quali fossero le risposte giuste, e si limitò a rispondere onestamente. Aveva sentito dire che i titanidi erano abilissimi nello scoprire le menzogne degli umani.

Ma alla fine cominciò ad averne abbastanza.

— Due bambini sono legati alla rotaia del treno e voi avete il tempo di slegarne solamente uno. Non li conoscete, e hanno la stessa età. Uno è un bambino, e l’altra è una bambina. Chi salvate?

— La bambina. No, il bambino. No, ne salverei uno e poi ritornerei a salvare l’altro… maledizione! Non risponderò ad altre domande se non… — S’interruppe. L’ambasciatrice aveva gettato a terra la penna e si era presa la testa tra le mani. Chris’fer provò una paura così forte da temere che fosse l’inizio di uno dei suoi attacchi.

La titanide si alzò in piedi e si diresse alla stufa, aprì il portello e infilò vari pezzi di legno. Così facendo, gli voltò la schiena, e Chris’fer vide che aveva la pelle uguale a quella di un bianco terrestre, dalla testa ai piedi. Era coperta di peli soltanto sulla testa e sulla foltissima coda. Vedendola dietro la scrivania, era facile dimenticare che non era un essere umano. Ma quando si alzava, la sua natura aliena era tanto più notevole, proprio perché la metà superiore non aveva niente di straordinario.

— Non dovete rispondere ad altre domande — disse. — Grazie a Gea, questa volta non hanno importanza. — Nel pronunciare il nome di Gea, nella sua voce comparve un tono di amarezza.

Mentre infilava la legna nella stufa, la coda le si sollevò e rimase ritta in aria. Fece quello che fanno sempre i cavalli durante le parate, di solito davanti al palco delle autorità, e con la stessa indifferenza. A quanto pareva, l’azione non era sottoposta al controllo della volontà. Chris’fer distolse lo sguardo perché era imbarazzato, e pensò che i titanidi erano una strana combinazione di aspetti normalissimi e di aspetti assolutamente fuori dell’ordinario.

Quando si voltò, l’ambasciatrice prese una paletta che era appoggiata in un angolo, raccolse il mucchietto e la paglia su cui era caduto, e andò a rovesciare il tutto in un bidone posto poco lontano. Tornando a sedersi, fissò Chris’fer con aria divertita.

— Adesso capite perché non mi invitano mai alle cerimonie. Se non sto sempre attenta, di minuto in minuto… — Gli lasciò immaginare le conseguenze.

— Che cosa intendevate, dicendo che questa volta non hanno importanza?

Lei ritornò seria.

— Che non dipende da me. È difficile credere il numero di cose che uccidono voi umani e ogni anno ce ne sono di nuove. Sapete quante persone mi chiedono di vedere Gea? Duemila all’anno. Novanta per cento sono quasi in punto di morte. Ricevo lettere, telefonate, visite. Vengono qui i familiari, a piangere: i figli, i mariti, le mogli. Sapete quante persone posso mandare da Gea, ogni anno? Dieci.

Prese la bottiglia di tequila e ne tracannò un lungo sorso. Distrattamente, prese due limoni e li mangiò in un boccone. Guardava la stufa, ma il suo sguardo fissava l’infinito.

— Soltanto dieci?

Lei si girò verso Chris’fer e lo fissò con disprezzo.

— Amico, voi siete davvero eccezionale. Non ne avevate idea.

— Io…

— Lasciate perdere. Vi dispiace. Avete l’impressione di essere stato trattato male. Amico, potrei raccontarvi delle cose assurde… ma lasciamo perdere. La gente studia per anni per acquistare un vantaggio psicologico su di me, su di me e sugli altri tre ambasciatori. Per essere uno dei quaranta. — Diede un pugno al mucchio di moduli. — Ci sono libri, spessi tre dita, che analizzano la serie delle domande, insegnano alla gente le risposte. Studi al computer sulle risposte fornite dai precedenti vincitori. — Prese il mucchio di moduli e lo gettò in aria; i moduli ricaddero in tutta la stanza come una breve tempesta di neve.

— Come sceglierli? — riprese l’ambasciatrice. — Ho cercato in tutti i modi possibili, e non ho mai trovato una risposta giusta. Ho cercato di pensare come una persona umana, di decidere come una persona umana, e la prima cosa che fanno sempre gli uomini è quella di compilare una decina di moduli: per questo ho compilato un modulo anch’io e mi sono augurata che le risposte fossero lì dentro, ma non le ho trovate, così come non le avrei trovate in una palla di cristallo o in un paio di dadi. Sì, posseggo una palla di cristallo, e a volte mi sono servita dei dadi per decidere chi scegliere. E tutti gli anni, mille e novecento e novanta delle mie decisioni sono sbagliate. Ho fatto del mio meglio, giuro di averlo fatto, ho cercato di fare bene il mio lavoro. E l’unico mio desiderio è quello di ritornare sulla ruota.

Sospirò così profondamente che le tremarono le narici. — La ruota ha qualcosa di molto speciale, secondo me. Ogni sua ora corrisponde a un ciclo. Non riuscite ad accorgervene, quando siete lassù, ma, se vi manca, sentite di avere perso qualcosa. Non potete più sentire il centro delle cose. L’orologio della vostra anima non va più avanti. Tutto si stacca, tutto si allontana.

La titanide rimase in silenzio per alcuni istanti, e infine Chris’fer si schiarì la gola.

— Non ne sapevo niente — disse.

Lei sbuffò.

— Mi stupisce — riprese Chris’fer — che siate qui, a svolgere questo lavoro, visto come la pensate. E… mi sorprende che siate irritata con Gea. Pensavo che per voi titanidi fosse una sorta di divinità.

Lei lo fissò e disse, senza toni particolari: — Lo è, signor Minor. Sono qui perché è Dio e perché mi ha detto di venire. E se la incontrerete, non dovrete dimenticarlo. Fate come vi dice. E quanto all’irritazione, certo, sono irritata. Gea non vi chiede di amarla. Vuole solo l’obbedienza, e la ottiene. Succedono brutte cose a coloro che non le danno retta. Non parlo di andare all’inferno. Parlo di un demone che vi mangia vivo. Io non la amo, ma ho un grande rispetto per lei.

«E voi, se mi date retta, fareste meglio a stare più attento. Avete in voi una sorta di fatalismo. Siete venuto senza preparazione, senza sapere certe cose che avreste potuto leggere in un articolo dell’enciclopedia. A Gea, una cosa simile non sarebbe tollerata.»

Chris’fer stava comprendendo lentamente il significato di quel discorso, ma non riusciva ancora a crederci.

— Certo — spiegò la titanide. — Andrete su Gea. Forse dovete ringraziare la vostra fortuna. Non so. Ma ho ricevuto un ordine da Gea. Vuole che le mandi dei pazzi. Voi siete il primo, questa settimana, che rientra nella categoria. Anzi, ho perfino l’impressione che sia giusto mandarvi. Ero già pronta a mandare un assassino e a rifiutare il posto a un grande filantropo. Al confronto, voi siete perfetto. Venite.

Nell’altro ufficio c’erano adesso una titanide un po’ traballante, ma sveglia, e tre umani. Una di questi, una giovane donna dagli occhi rossi, si avvicinò all’ambasciatrice. Disse qualcosa che riguardava un bambino. Dulcinea (Trio Ipomixolidio) Cantata la aggirò elegantemente e si diresse verso il corridoio. Chris’fer vide che la donna cercava conforto tra le braccia di un uomo dalla faccia dura. Si affrettò a guardare da un’altra parte, ma si disse che era impossibile che la donna lo fissasse con uno sguardo d’accusa: non poteva sapere che lui era stato scelto.

Raggiunse l’ambasciatrice nel sottopassaggio e dovette correre per mantenersi al suo passo. Si diressero verso il lato nord del forte, parallelamente alla Baia.

— E toglietevi quell’apostrofo — disse a un certo punto la titanide.

— Eh?

— Dal nome. Chiamatevi semplicemente «’Chris». Odio gli apostrofi.

— Io…

— Non costringetemi a dire che, se dipendesse da me, non manderei su Gea uno che ha un nome ridicolo come Chris’fer.

— Va bene, non vi costringo. Voglio dire, d’accordo. Cambierò nome.

Lei si era fermata a un cancello che si apriva nella rete che serviva a tenere la gente lontana dal ponte. Lo tenne aperto per lui, ed entrambi passarono.

— E cambiatevi il cognome. Fatevi chiamare Major. Forse riuscirà a sconfiggere il fatalismo che c’è in voi.

— D’accordo.

— Cambiatevelo in tribunale, e mandatemi una copia dell’atto.

Si fermarono ai piedi di un enorme pilone di sostegno di cemento armato. Accanto a loro c’era una scaletta di metallo, che pareva collocata laggiù da poco tempo. Guardando verso l’alto, la si vedeva scomparire nella distanza, ma evidentemente saliva fino al livello del ponte, senza nessuna gabbia di protezione.

— Il vostro passaporto è in cima alla torre sud. È una piccola bandiera di Gea, come quella dell’ambasciata. Salite la scaletta, raggiungete il cavo, prendetela e portatela a me. Vi aspetto.

Chris’fer guardò prima la scala, poi il terreno. Si asciugò le palme delle mani sui calzoni.

— Posso chiedere perché? Lo farò, se devo farlo, ma che cosa significa? Mi sembra un gioco.

— È come un gioco, Chris. È fatto a caso, non ha senso. Se non riuscirete ad arrampicarvi su questa scaletta, non varrà la pena che vi mandi su Gea. Avanti, amico. — Sorrideva, e Chris’fer pensò che, nonostante la simpatia che lei professava per gli umani, si sarebbe senza dubbio divertita a vederlo cadere. Posò il piede sul primo scalino, alzò il braccio per afferrarsi a quello sopra di lui, e sentì che la titanide gli posava la mano sulla spalla.

— Quando sarete su Gea — disse — non aspettatevi molto. Da questo momento in poi, siete nelle mani di un potere smisurato e capriccioso.

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