6 Tendopoli

Nasu era intrattabile. Lo testimoniavano due nuovi segni sul braccio di Robin. L’anaconda non ama le docce e le manipolazioni: Nasu era spaventato da tutto ciò che gli era successo nei due giorni precedenti, e il suo modo di comunicarlo era quello di colpire il bersaglio più vicino, costituito da Robin. In tutto il tempo che erano stati insieme, Nasu aveva morsicato Robin soltanto tre volte, in precedenza.

La stessa Robin non si sentiva molto meglio. Alcune delle avvertenze che le avevano dato alla Congrega erano solo delle fantasie. Ma il calore era terribile.

La temperatura era di trentacinque gradi. Questa stupefacente notizia le era stata fornita dalla guida che li aveva accolti alla superficie, e l’aveva controllata lei stessa, con sommo stupore, servendosi di un termometro. Era assurdo condurre un ambiente in quella maniera, ma la gente non se ne curava. Si lamentava, ma non aveva intenzione di fare niente per cambiare la situazione.

Robin sentiva la necessità di spogliarsi. Resistette quanto più possibile, ma poi si disse che, dato che sua madre si era già sbagliata su molte altre cose, lei non correva rischi nel disobbedirle su questo particolare. Gran parte della gente che circolava sulle strade polverose di Titantown era nuda; perché non poteva mettersi nuda anche lei? Come compromesso, comunque, decise di non scoprirsi i fianchi, per indicare che intendeva difendersi da qualsiasi tentativo di stupro. Anche se il suo timore dello stupro era assai diminuito.

Il primo pene da lei visto, nelle docce di massa dell’immigrazione, l’aveva fatta ridere, e le aveva fatto guadagnare un’occhiataccia da parte dell’orgoglioso possessore. Anche il resto doveva essere altrettanto comico. Non le pareva che potesse gonfiarsi al punto da farle male, ma per il momento accantonò il problema, in attesa di controllare questo particolare su qualche maschio intento allo stupro.

La prima notte non ci furono stupri, anche se Robin rimase sveglia per molto tempo, per potersi difendere da eventuali attacchi. La seconda notte, due maschi si dedicarono allo stupro, in fondo al dormitorio. C’erano delle cuccette vuote, e Robin si sedette a guardare. Gli arnesi sballonzolanti, che in precedenza l’avevano fatta tanto ridere, si ingrandirono più di quanto non avesse creduto… ma non tanto, in fin dei conti. Le donne non sembravano patire danni. Nessuna era stata percossa fino all’incoscienza, e non avevano la faccia a terra. Una, anzi, stava sopra l’uomo.

La donna disse a Robin di andarsene, e lei se ne andò perché aveva visto a sufficienza. Pensava che se qualcuno le avesse dato una botta in testa e quel che segue, l’esperienza sarebbe stata spiacevole, ma non eccessivamente pericolosa. Ricordava di essersi dilatata assai di più, nel corso di esami medici.

Guardò ancora le donne, dopo la fine dello stupro, per controllare se provassero vergogna. Ma non ne vide alcuna traccia. Dunque, almeno questo particolare era vero: alle donne peniste veniva insegnato a subire con indifferenza la degradazione. Gli schiavi, ricordò, lo facevano sempre, almeno esteriormente. Si meravigliò al pensiero di quanta ribellione dovesse covare in quelle loro anime.

Durante il periodo in cui Robin rimase a osservare, non ci furono donne che facessero l’amore tra loro. Robin se lo spiegò con la supposizione che fossero costrette a nasconderlo agli occhi degli uomini.


Titantown era stata inizialmente costruita sotto un grande albero, ma con la fine della guerra tra titanidi e angeli, molti anni prima, si era estesa verso est. Gran parte dei titanidi abitava ancora sotto l’albero o fra i suoi rami. Alcuni si erano trasferiti sotto tende di seta multicolore, accanto alla folle via che era diventata una sorta di luna park per turisti. Una via piena di mescite e ippodromi, casinò, empori, attrazioni, spogliarelli e spettacoli vari. Il terreno era coperto di uno strato di segatura e di sterco dei Titanidi, nell’aria si mescolavano l’odore dello zucchero filato, del profumo, dei cosmetici, della marijuana e del sudore. L’intera zona mostrava il caratteristico disinteresse dei Titanidi per l’urbanistica e la pianificazione. Di fronte a un casinò da gioco sorgeva la Chiesa Primitiva Intergalattica Battista, che a sua volta sorgeva a fianco di un bordello inter-specie: tre tendoni esili come promesse. Le voci intonate dei cori dei titanidi si mescolavano al rumore delle roulette e ai soffi della passione che oltrepassavano le sottili pareti di tela. Al primo forte vento, l’intera zona poteva essere spazzata via in un attimo, per poi risorgere qualche ora più tardi, con una nuova configurazione.

L’ascensore per il mozzo partiva una volta ogni ettoriv — equivalenti, le dissero, a cinque giorni della Congrega, ovvero quattro virgola due giorni terrestri — e Robin si trovò con trentasei ore libere. Una visita a Titantown poteva essere istruttiva, anche se Robin non capiva bene la funzione di quel luogo di confusione. Il concetto di svago che le era stato instillato nella Congrega non le permetteva di vedere quella sorta di baraonda come un posto dove divertirsi. Divertimento, per le streghe significava gare atletiche, banchetti, festeggiamenti, anche se sapevano apprezzare un tiro ben giocato e una storia menzognera ben raccontata.

Sua madre le aveva consegnato varie centinaia di crediti delle Nazioni Unite. Robin, che in quel momento si trovava sul balconcino di legno della sua camera d’albergo, posta sull’albero, lasciò correre lo sguardo sui colori vivaci della tendopoli, sulla baraonda, e provò il desiderio di recarsi laggiù. Se non fosse riuscita a far chiasso come gli altri, sarebbe stato meglio farsi cancellare il terzo Occhio.

Il gioco d’azzardo risultò una noia. Vinse qualcosa, perse qualcosa di più, ma non riuscì a dare importanza alla cosa. I soldi erano uno stupido gioco penista, e lei non cercò di capirlo. Sua madre le aveva detto che era il modo con cui si teneva conto del punteggio nella costante esibizione gerarchica della cultura penica. E Robin non aveva bisogno di sapere altro.

Decise però di adottare un atteggiamento possibilista, anche se molte cose non le parevano molto promettenti. Dapprima seguì le persone che davano l’impressione di divertirsi di più, e ne imitò le scelte. Per mezzo credito affittò l’uso di tre coltelli da scagliare contro un uomo che invitava la gente a colpirlo, davanti a un bersaglio di legno. Quell’uomo era bravissimo. Robin non riuscì a colpirlo, né ci riuscirono gli altri, in tutto il tempo che Robin restò laggiù a guardare.

Si accodò a una coppia ubriaca che entrava nel Fantastico Zoo del Professor Potter, dove si mostravano strani animali di Gea, chiusi in gabbia. A Robin, lo spettacolo parve affascinante, e non capì perché i due ubriachi, dopo una rapida occhiata, se ne andassero via, per cercare un posto, come disse il maschio, dove ci fosse più «movimento». Benissimo, anche lei avrebbe cercato il movimento.

In una tenda guardò un uomo che stuprava una donna su una sorta di piattaforma rialzata, e lo spettacolo le parve assai noioso. Sapeva già come andava a finire, e le contorsioni della coppia non aggiungevano molto interesse alla cosa. Poi fu la volta di due titanidi, e questa volta lo spettacolo valeva la pena di essere visto, anche se metteva in discussione tutte le definizioni note a Robin. Dapprima lei pensò che uno dei titanidi stuprasse l’altro, ma poi lo stupratore si tirò indietro, e venne penetrato dalla stuprata. Era logico, tutto questo? Se entrambi i sessi erano in grado di stuprare, si poteva ancora parlare di stupro? Naturalmente, questi dubbi valevano solo per i titanidi. Ciascuno di loro aveva doppi organi, maschile e femminile, nella parte posteriore, e nella parte anteriore un organo singolo: o maschile, o femminile. L’annunciatore presentò lo spettacolo come «istruttivo», e spiegò che i titanidi non avevano alcuna difficoltà a praticare in pubblico un accoppiamento posteriore, ma che l’amore con gli organi anteriori era riservato all’intimità. Insegnò a Robin un nuovo verbo: scopare.

Nel vedere il pene posteriore dei titanidi, Robin cominciò ad allarmarsi. Normalmente, era coperto dalle zampe di dietro, ma, quando compariva nella sua integrità, era davvero uno strumento terribile. Era esattamente uguale al modello umano, ma era lungo come il braccio di Robin, e due volte più spesso. Si chiese se sua madre non si fosse confusa, e non avesse attribuito ai maschi umani quello che invece apparteneva ai titanidi.

C’erano numerose altre attrazioni di carattere istruttivo e scientifico, e molte di esse si basavano sulla violenza. Questo non costituì affatto una sorpresa per Robin, che non si aspettava altro, da una società penista, e che a sua volta conosceva la violenza. In una piccola tenda, una donna dimostrava i poteri di qualche forma di super-yoga piantandosi spilli negli occhi, infilandosi uno sciabolone nella pancia fino a farlo uscire dall’altra parte, e poi amputandosi abilmente il braccio sinistro con bisturi e sega. Robin era certa che quella donna fosse o un robot o un ologramma, ma l’illusione era troppo perfetta per capirlo. Al successivo spettacolo, la donna era più in gamba di prima.

Prese un biglietto per assistere a una rappresentazione di Romeo e Giulietta interpretata da attori titanidi, ma le scappò continuamente da ridere, e dovette uscire prima della fine. Avrebbero fatto meglio a chiamarlo Capuleti e Montecchi del Quinto Cavalleggeri. Inoltre, il copione era stato clamorosamente manipolato. Secondo Robin, Shakespeare avrebbe potuto anche accettare i titanidi nei ruoli principali, ma certo la grande drammaturga si sarebbe rivoltata nella tomba, se avesse saputo che i revisionisti penisti avevano trasformato Romeo in un uomo.

Richiamata dal suono della musica, entrò in una tenda di medie dimensioni, vide due lunghe file di panche di legno, e si sedette con sollievo su quella più vicina. Dirimpetto a lei, c’era una fila di titanidi che cantava, sotto la direzione di un uomo che indossava un lungo vestito nero. Pareva un’attrazione come le altre, a parte l’assenza del botteghino dei biglietti. D’altronde, di qualsiasi cosa si trattasse, Robin era stanca e aveva voglia di sedersi.

Si sentì toccare gentilmente sulla spalla. Voltandosi, scorse un altro uomo vestito di nero. Dietro l’uomo c’era un titanide con occhiali dalla montatura di acciaio.

— Scusa, vorresti metterti questo, per piacere? — Le mostrò un lungo camicione bianco. Le sorrideva con aria amichevole, e così pure faceva il titanide.

— Perché? — domandò Robin.

— È la regola, qui dentro — spiegò l’uomo, in tono di scusa. — Noi riteniamo che sia poco decoroso scoprire il proprio corpo. — Solo allora, Robin notò che anche il titanide portava la camicia. Era il primo (o la prima) da lei visto che si coprisse il petto.

S’infilò il camicione, con un’alzata di spalle, disposta a soddisfare qualsiasi arzigogolata convinzione per il piacere di ascoltare la buona musica. — Comunque, che razza di posto è questo?

L’uomo si sedette accanto a lei e le rivolse un mesto sorriso.

— Hai ragione a domandarlo — disse, con un sospiro. — A volte, questo luogo mette alla prova la fede, anche quella dei più devoti. Noi siamo venuti a portare il Verbo agli altri pianeti. Anche i titanidi hanno l’anima, esattamente come gli uomini. Siamo qui da dodici anni, ormai. Le funzioni sono ben seguite, e abbiamo celebrato qualche matrimonio, qualche battesimo. — Con una leggera smorfia, sollevò lo sguardo sul gruppo di titanidi che cantava in fondo alla tenda. — Ma penso che anche dopo avere fatto tutto questo, il nostro gregge accorra qui soltanto per esercitarsi nel coro.

— Non è vero, fratello Daniel — disse il titanide, in inglese. — Io credo in Dio Padre creatore e padrone del cielo e della terra e nel suo figlio unigenito Gesù Cristo nostro signore…

— Cristiani! — esclamò Robin, con un grido strozzato. Balzò in piedi, facendo con una mano il segno protettivo delle due dita puntate, e sollevando con l’altra mano la testa di Nasu. Indietreggiò lentamente, con il cuore che le batteva a precipizio. Poi fuggì via di corsa, e non si fermò finché la chiesa non scomparve alle sue spalle, in mezzo all’aria polverosa.

Era entrata in una chiesa! Era la sua più grande paura, l’unico terrore della sua infanzia su cui non avesse mai nutrito dubbi. I cristiani erano la radice e il tronco stessi della struttura penista del potere. Una volta capitati tra le loro grinfie, i poveri pagani allegri e pacifici venivano drogati con sostanze che toglievano loro la volontà, e poi dovevano subire orrende torture fisiche e mentali. Non c’era modo di fuggire, non c’era speranza. Con i loro terribili riti, presto sconvolgevano la mente al di là di ogni speranza di recupero, e a quel punto la convertita veniva infettata con una malattia senza nome che corrompeva l’utero. Da quel momento in poi, la malcapitata era costretta a partorire le figlie con dolore, fino all’ultimo dei suoi giorni.


La cucina dei titanidi aveva strani aromi. Robin trovò un posto da cui giungeva un profumo stuzzicante, e ordinò una cosa misteriosa, chiamata «Bigburger McDonald’s». Pareva costituito prevalentemente di carboidrati, avvolti intorno a carne animale macinata. Era delizioso. Lo mangiò fino all’ultima briciola, e si sentì un’ingorda.

Mentre puliva dal piatto, con le dita, la senape, si accorse che una donna, seduta al tavolo accanto al suo, la fissava. Lei la fissò a sua volta, poi le rivolse un sorriso.

— Ammiravo i tuoi dipinti — spiegò la donna, alzandosi e venendo a sedersi accanto a lei. Si era profumata e portava una serie di sottili fazzoletti, attentamente disposti in modo da sembrare collocati a caso, che finivano per coprirle gran parte del petto e tutto il basso ventre. A tutta prima, dimostrava una quarantina di anni, ma poi Robin si accorse che le rughe e le ombre se le era fatte lei, con dei cosmetici, per sembrare più vecchia.

— Non sono dipinti — disse Robin.

— Non… — Sulla fronte le comparvero alcune rughe vere. — Cos’è, un nuovo procedimento? Sono af-fa-scinata!

— In realtà, è un processo molto vecchio. Tatuaggio. Si prende uno spillo e si infila nella pelle il colore.

— Deve fare male.

Robin alzò le spalle. Faceva male, certo, ma non c’era molto labra da guadagnare, a parlarne. Si piangeva e si urlava durante il procedimento, ma poi non se ne parlava più.

— Mi chiamo Trini, detto per inciso. Come fai, per togliertelo?

— Piacere, Robin, che il sacro flusso ci unisca — disse lei, presentandosi a sua volta. Spiegò: — Non te lo togli mai. I tatuaggi durano tutta la vita. Puoi correggerli un poco, ma il disegno resta sempre quello.

— Che… voglio dire, non ti pare una cosa un po’ troppo inflessibile? A me, come a tutti, piace tenermi per tre o quattro giorni una pittura da pelle, ma poi mi stufo.

Robin alzò di nuovo le spalle, un po’ annoiata. All’inizio, le era parso che quella donna volesse fare l’amore, ma ora aveva l’impressione che desiderasse soltanto chiacchierare.

— Naturalmente, prima di farti fare un tatuaggio, ci pensi bene. — Allungò il collo per leggere il menu sulla parete, chiedendosi se aveva ancora posto per un piatto chiamato «crauti».

— Vedo che la pelle resta perfettamente liscia — disse Trini, passando delicatamente la punta delle dita sulla spira di serpente che si avvolgeva intorno al seno sinistro di Robin. Poi abbassò la mano e gliela appoggiò leggermente sulla coscia.

Robin guardò la mano, un po’ infastidita dal fatto di non capire bene i segnali di quella donna penista. Provò a guardarla in faccia, ma anche la faccia era indecifrabile. Trini era troppo esperta nell’ostentare indifferenza, si disse Robin, ma non si sa mai: tentar non nuoce. Si dovette sollevare leggermente, per appoggiarle la mano sulla spalla. Poi la baciò sulle labbra. Quando si tirò indietro, vide che Trini sorrideva.


— Che lavoro fai, allora? — Robin si sporse di lato per aspirare un «tiro» dalla sigaretta drogata che Trini le porgeva, poi tornò ad appoggiarsi sui gomiti. Erano stese fianco a fianco, e si guardavano negli occhi. Tra i capelli spettinati di Trini si scorgeva il chiarore della finestra aperta.

— Prostituta.

— Cosa vuol dire?

Trini scoppiò a ridere. Anche Robin rise con lei, ma smise molto prima.

— Dove diavolo sei vissuta finora? No, non c’è bisogno di dirlo, lo so già. Rinchiusa in quella grossa scatola di latta che sta nel cielo. Davvero non lo sai?

— Se l’avessi saputo, non te l’avrei chiesto. — Robin era di nuovo seccata, perché non amava fare la figura dell’ignorante. Lo sguardo le cadde sul polpaccio di Trini, e lo sfiorò con le dita, distrattamente. Trini si depilava le gambe, per certi suoi misteriosi motivi, ma non gli avambracci. Robin invece si depilava in tutte le zone dove aveva un tatuaggio, ossia braccio sinistro e gamba destra, parte del pube, e un grosso cerchio dietro l’orecchio sinistro.

— Scusa, la chiamano la professione più antica. Fornisco piacere sessuale a pagamento.

— Vendi il tuo corpo?

Trini rise. — Che idea! Io vendo un servizio. Sono una lavoratrice specializzata, con apposito diploma.

Robin si mise a sedere sul letto. — Adesso ricordo. Sei una puttana.

— Non più. Adesso sono indipendente.

Robin ammise di non capire. Il concetto di vendere le proprie prestazioni sessuali non le era nuovo, ma incontrava difficoltà nell’inserirlo entro una prospettiva economica più vasta. A quanto ne sapeva lei, da qualche parte doveva anche esserci la figura dello schiavista: il losco personaggio che possedeva le donne e ne vendeva il corpo ai maschi meno ricchi di lui.

— Qui dobbiamo intenderci sui termini. Tu dici «puttana» come se fosse la stessa cosa di «prostituta». E forse lo erano, in passato. Puoi lavorare per mezzo di un’agenzia o in una casa di appuntamento, e allora sei una puttana. Oppure puoi essere indipendente, e allora sei una cortigiana. Sulla Terra, naturalmente. Qui non ci sono leggi, e ciascuno fa per sé.

Robin cercò di capire, ma non ci riuscì. Da come lei si immaginava la società penista, il fatto che Trini si tenesse il denaro non rientrava nel quadro. Infatti, significava che il corpo da lei messo in vendita era sua proprietà, mentre invece, naturalmente, agli occhi degli uomini non lo era affatto. Era certa che nelle parole di Trini ci fosse una contraddizione, ma era troppo stanca per pensarci in quel momento. Comunque, una cosa le pareva chiara.

— Quanto ti devo, allora?

Trini rimase a bocca aperta. — Hai creduto… oh, no, Robin. Questo l’ho fatto per me. Fare l’amore con gli uomini è il mio lavoro, è quello che mi dà da vivere. Ma faccio l’amore con le donne perché mi piace. Sai, sono lesbica. — Per la prima volta, Trini parve leggermente imbarazzata. — Credo di sapere cosa stai pensando. Perché una donna che non ama gli uomini si guadagna da vivere avendo rapporti sessuali con loro? È una cosa un po’…

— No, non pensavo affatto a questo. La frase che hai detto prima è la prima cosa sensata che ti sento dire. Lo capisco perfettamente, e vedo che ti vergogni della tua schiavitù penista. Ma che cos’è una lesbica?

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