La ruota continuava a girare, e Gea continuava a essere sola.
L’astronave terrestre della morte si trovava dove era sempre stata, immersa nel pozzo gravitazionale di Saturno. L’equipaggio era sostituito ogni anno per ridurre la noia del servizio. Ogni dieci anni il carico di armi nucleari era controllato, e quelle difettose erano sostituite.
Non era una vana minaccia, ma Gea la ignorava lo stesso. Non intendeva dare loro una scusa per attaccare. Finché la Terra aveva bisogno di lei, lei era al sicuro, e fare in modo che la Terra avesse bisogno di lei era compito suo. Era politicamente inconcepibile che qualche parlamento o qualche dittatura della Terra si opponesse a lei. La storia dei pellegrini, se fosse giunta all’orecchio della popolazione della Terra, avrebbe potuto causarle un temporaneo imbarazzo, ma non di più. Gea aveva ancora mille doni da dare. Il suo sistema antispionistico serviva solo a divertirla; le piaceva l’idea che i pellegrini, al loro arrivo, ignorassero ogni cosa.
Per capire fino a che punto fosse indifferente alla presenza di quelle bombe in orbita, è sufficiente dire che riteneva che la Terra fosse un pericolo leggermente inferiore a quello costituito dalla Maga rinnegata, e quest’ultimo pericolo era infinitesimale, incalcolabile. Ma Gea era cauta, e volle calcolarlo lo stesso. Nel centro del mozzo, i suoi pensieri corsero più veloci della luce in una matrice cristallina di spazio la cui stessa esistenza era in contrasto con la fisica nota agli scienziati della Terra. Nella matrice si aprivano grandi buchi, come gli alveoli di denti perduti, ma anche ora, nel periodo della sua decadenza, la mente di Gea aveva una potenza tale da superare di gran lunga tutte le macchine da calcolo dei terrestri messe insieme.
E la risposta fu quella che già sapeva. Cirocco non era un pericolo.
Gli Altopiani erano unici, su Gea. Anche se ogni loro chilometro era legato a un cervello regionale, il controllo che sì poteva effettivamente esercitare in luoghi cosi distanti dai centri del potere era trascurabile. In un certo senso, si trattava di una terra di nessuno.
Nella zona crepuscolare tra Rea e Iperione, ben al di sopra del territorio abitato, nella zona più inaccessibile degli altopiani, un titanide solitario stava di guardia davanti all’imboccatura di una caverna. Non molto lontano, un miliardo di piante di coca crescevano rigogliose. Udì giungere un rumore dall’interno della caverna, si voltò, ed entrò.
Cirocco Jones, fino a poco tempo prima Maga di Gea, ma ora chiamata Demonio, si era svegliata, e si agitava in preda ai brividi, con i sudori freddi. Era nuda, e così magra che si vedevano le costole. Aveva gli occhi profondamente infossati.
Cornamusa sì recò da lei e la tenne ferma finché non cessò di tremare. Aveva scovato una scorta di liquore poco dopo il suo arrivo su Iperione, anche se la Casa della Melodia era stata cancellata dal più singolare fenomeno meteorologico che si fosse mai visto su Gea: una pioggia di cattedrali. Cornamusa l’aveva trovata, e l’aveva portata alla caverna.
Le sollevò la testa e la aiutò a bere acqua da una tazza. Quando la sentì tossire, lasciò che si sdraiasse di nuovo.
Ma presto Cirocco aprì di nuovo le palpebre. Per la prima volta dopo molti giorni, riuscì a rizzarsi a sedere senza aiuto. Cornamusa la guardò negli occhi, scorse il fuoco che vi aveva già visto molte volte in passato, e si rallegrò.
Gea avrebbe presto avuto notizie del Demonio.