15 La Gata Encantada

Titantown era protetta da un immenso albero costituitosi quando vari alberi più piccoli si erano uniti a formare un unico organismo-colonia. Anche se i titanidi non amavano i piani regolatori e l’urbanistica, i loro gusti finivano per imporre una certa struttura all’abitato. Preferivano abitare a meno di cinquecento metri dalla luce, e per questo le loro abitazioni tendevano a disporsi ad anello alla periferia dell’albero. Alcune case erano costruite direttamente sul terreno, altre erano appollaiate sui giganteschi rami che si stendevano orizzontalmente e che erano retti da tronchi ausiliari, grossi a loro volta come sequoie.

Sparsi in tutto l’anello residenziale, ma in prevalenza sulla parte interna, c’erano le botteghe, le forge, i mulini e le raffinerie. In direzione dell’esterno, verso il sole e talvolta all’aria aperta, c’erano bazar, negozi, mercati. Sparsi qua e là per la città c’erano poi gli edifici pubblici e i servizi, i pompieri, le biblioteche, i magazzini e le cisterne. L’acqua era in parte piovana e in parte veniva dai pozzi, ma quella dei pozzi conteneva sali amari ed era lattiginosa.

Robin aveva trascorso vario tempo nell’anello più esterno, e si era servita del medaglione datole da Cirocco per acquistare provviste per il viaggio. Aveva scoperto che gli artigiani titanidi erano cortesi e servizievoli. Invariabilmente le consigliavano gli articoli di migliore qualità, anche nei casi in cui sarebbe stato sufficiente qualcosa di economico. Di conseguenza, lei ora possedeva una borraccia di rame con complessi arabeschi in filigrana che l’avrebbero resa degna del tavolo dei banchetti dello Zar. L’impugnatura del coltello era sagomata per adattarsi perfettamente alla sua mano, e inoltre aveva un rubino che sembrava un grande occhio di vetro. Le avevano fatto un sacco a pelo su misura, di un materiale così riccamente ricamato che lei non osava appoggiarlo a terra. Cornamusa, il titanide da lei conosciuto nella tenda di Cirocco, le aveva fatto da guida; cantando la traduzione ai mercanti che non parlavano inglese.

— Non preoccuparti — le aveva detto. — Come puoi notare, qui nessuno paga in denaro. Noi non lo usiamo.

— Che sistema usate, allora?

— Gaby lo chiama comunismo non coercitivo. Dice che con gli umani non funzionerebbe, perché sono troppo avidi ed egoisti. Scusa, ma riferisco quello che ha detto lei.

— Non c’è niente di cui ti debba scusare. Probabilmente ha ragione.

— Non so. È vero che non abbiamo i problemi associati alla gerarchia che pare abbiate voi umani. Non abbiamo leader, non lottiamo tra noi. La nostra economia si basa sugli Accordi e sui meriti. Tutti lavorano, sia per la produzione di consumo, sia per la comunità. Si accumula prestigio… voi potreste chiamarla ricchezza, o credito… mediante le proprie azioni, o con l’età, o con la necessità. A nessuno manca l’indispensabile; quasi tutti godono almeno di qualche lusso.

— Non la chiamerei ricchezza — disse Robin. — Anche noi, nella Congrega, non usiamo denaro.

— Davvero? E qual è il vostro sistema?

Robin rifletté con tutto il distacco di cui era capace, ricordando il lavoro sociale obbligatorio, imposto da tutta una serie di punizioni, che arrivavano alla morte inclusa.

— Chiamalo comunismo coercitivo. Accompagnato da un sistema di baratti.

La Gata Encantada si trovava nei pressi del tronco del grande albero. Robin c’era già stata, una volta, ma l’oscurità, in quella parte di Titantown, era perpetua, e non c’erano piantine stradali. Non c’erano neppure le strade. Per trovare un posto qualsiasi, occorrevano una lanterna e una grossa dose di fortuna.

Robin pensava al centro della città come al quartiere del tempo libero. La descrizione era abbastanza giusta, anche se, come in tutto il resto di Titantown, c’erano negozi, e anche abitazioni, sparsi fra le sale di danza, i teatri e le bettole. Tra l’anello esterno e il tronco c’era una zona relativamente disabitata. Era la parte meno frequentata della città, occupata da piccoli orti che crescevano in quell’oscurità calda e umida. Gran parte della città era illuminata da grandi lampade di carta; laggiù se ne vedevano poche.

Era la zona che corrispondeva alle sue idee di un giardino pubblico. Sua madre l’aveva avvertita di tenersi lontana da essi, perché laggiù si nascondevano uomini che saltavano addosso alle donne per stuprarle. Naturalmente, gli umani che si spingevano in quella zona di Titantown erano pochi, ma nessuno impediva loro di recarsi laggiù. Lei pensava di avere superato le sue preoccupazioni a proposito dello stupro, ma non riusciva a fare a meno di pensarci. C’erano dei posti dove l’unica luce era quella della sua lanterna.

Udì un sibilo che le fece fare un sobbalzo. Si fermò a controllarne l’origine, e vide alcuni filari di piante basse e carnose che emettevano una fine nebbiolina. Chiunque fosse cresciuto nella Congrega, con le sue file di spruzzatori che attraversano tutta la concava superficie agricola, avrebbe riconosciuto immediatamente la funzione di quella nebbiolina. Respirò a pieni polmoni, sorridendo. L’odore della terra umida la riportava ai giorni dell’infanzia, a un’epoca priva di complicazioni, trascorsa a giocare nei campi di fragole mature.

La taverna era un basso edificio di legno, con la consueta larghissima doppia porta. Accanto alla porta pendeva l’insegna: due cerchi, uno sopra l’altro. In quello in alto, che era più piccolo, erano disegnate due punte in cima, gli occhi a mandorla, un sorriso pieno di denti.

Perché una gatta, si chiese, e perché spagnola? Quando i titanidi imparavano una lingua umana, si trattava invariabilmente di quella inglese, ma laggiù c’era invece la scritta in spagnolo, proprio sopra la porta: La Gata Encantada, senza le solite rune del loro alfabeto. Erano una strana razza, decise Robin. Erano assai simili agli uomini, sotto molti aspetti. Numerose delle loro capacità erano uguali a quelle umane. Gli oggetti che costruivano erano in gran parte uguali a quelli che costruivano gli uomini. Anche le loro arti erano simili a quelle umane, eccetto beninteso la loro musica trascendente. Il loro strano sistema di riproduzione era l’unica caratteristica che li distinguesse nettamente.

Be’, forse non proprio l’unica, si disse poi, entrando nella Gata, quando lo sguardo le cadde sulla vasca piena d’acqua che era un elemento standard di tutti gli edifici titanidi aperti al pubblico. Il pavimento era di sabbia, con uno strato di paglia. Tutto considerato, i titanidi avevano risolto il problema di conciliare tra loro urbanizzazione e incontinenza assai meglio di quanto non fossero riusciti a farlo, per esempio, a New York City, all’epoca del cavallo e del calesse. La città era piena di piccole creature simili ad armadilli che si nutrivano unicamente di quei mucchietti, dappertutto presenti, di grosse palle color arancione. Nelle abitazioni private il problema veniva risolto di volta in volta, quando si presentava, ricorrendo a paletta e secchiello. Ma, dove si riunivano molti titanidi, quella soluzione era impossibile. Gettavano al vento il superfluo e poi se ne dimenticavano. Ecco perché c’erano quelle vasche piene d’acqua: per pulirsi i piedi prima di ritornare a casa.

A parte quel particolare, La Gata Encantada pareva una qualsiasi taverna umana, ma con molto più spazio tra un tavolo e l’altro. C’era perfino un lungo bar di legno, completo di ringhiera poggiapiedi di ottone. Il posto era pieno di titanidi che giganteggiavano sopra di lei, ma da tempo Robin aveva smesso di preoccuparsi che le pestassero i piedi. Avrebbe avuto più paura se fosse stata in mezzo a una folla di umani.

— Ehi, ragazza umana! — Alzò gli occhi, e vide che il barista le faceva dei cenni con un braccio. Le gettò un cuscino. — I tuoi amici ti aspettano nel retro. Vuoi una birra di radici?

— Sì, grazie. — Ricordava dalla sua precedente visita che quella birra era una bevanda alcolica scura e schiumosa, prodotta con cereali fermentati e aromatizzata con radici amare. Aveva il gusto della birra a cui era abituata, ma era più alcolica. Le piaceva molto.

Il gruppo si era radunato attorno a un enorme tavolo, in un angolo lontano dalla folla: Cìrocco, Gaby, Chris, Salterio, Valiha, Cornamusa e un quarto titanide che lei non conosceva. La bevanda di Robin arrivò prima di lei, in un mostruoso boccale da cinque litri. Si sedette sul cuscino che le aveva dato il barista, e il tavolo le arrivò all’altezza del petto.

— Ci sono gatti, su Gea? — domandò.

Gaby guardò Cirocco, ed entrambe alzarono le spalle.

— Non ne ho mai visto uno — disse Gaby. — Questo posto prende il nome da una marcia. I titanidi vanno pazzi per le marce. Dicono che John Philip Sousa è il più grande compositore che sia mai vissuto.

— Non proprio — obiettò Salterio. — In dirittura d’arrivo, è spalla a spalla con Johann Sebastian Bach. — Bevve un sorso, poi vide che Robin e Chris lo guardavano con perplessità. Proseguì, per spiegare la sua affermazione.

— Parlando senza la minima ombra di critica, entrambi sono fondamentali e primitivi. Bach con la sua geometria fatta di ripetizione di forme sonore, il suo calcolo di monotonia ispirata; Sousa con i suoi guizzi di innocenza e di bravura. Il loro modo di affrontare la musica è come quello di una persona che voglia disporre i mattoni per fare uno ziggurat: Sousa con gli ottoni, e Bach con gli archi. Tutti gli umani lo fanno in grado più o meno alto. Anche la vostra musica scritta assomiglia a un muro di mattoni.

— L’idea — aggiunse Valiha — non ci era mai venuta in mente. Eseguire un canto e poi conservarlo, per poi eseguirlo esattamente identico, era un’idea sostanzialmente nuova. La musica di Bach e di Sousa è molto aggraziata, priva di complicazioni inutili, quando è scritta su carta. È una musica iper-umana.

Cirocco continuò a guardare alternativamente i due titanidi, con aria un po’ impacciata, poi cercò con lo sguardo Robin e Chris. Ebbe qualche difficoltà a rintracciarli.

— Con questo, ne sai quanto prima — disse. — Quanto a me, Sousa non mi è mai piaciuto. Bach mi è indifferente. — Batté gli occhi, facendo correre lo sguardo da uno all’altro come se si aspettasse di venire contraddetta. Visto che nessuno lo faceva, bevve una lunga sorsata dal suo bicchiere di birra, rovesciandosene buona parte sul vestito.

Gaby le posò una mano sulla spalla. — Presto ti chiuderanno il bar, Capitano — disse, in tono scherzoso.

Chi ha detto che sono ubriaca? — ruggì Cirocco. Un’onda schiumosa, color oro bruno, corse sul tavolo: il suo bicchiere si era rovesciato. Per un momento, nella sala non si udì il minimo rumore, poi riprese il chiasso di prima perché i titanidi fecero finta di non accorgersi dell’incidente. Giunse qualcuno con uno strofinaccio per asciugare la birra caduta, e subito, davanti a Cirocco, venne messo un altro bicchiere.

— Nessuno lo ha detto — disse Gaby, con voce molto calma.

Cirocco parve avere dimenticato l’incidente.

— Robin, mi pare che tu e Oboe non vi conosciate ancora. Oboe (Trio Mixolidio Diesis) Bolero, ti presento Robin dalle Nove Dita, della Congrega. Robin, ti presento Oboe. Appartiene a un ottimo accordo, e ti terrà calda quando soffierà il vento freddo.

La titanide si alzò e le rivolse un inchino piegando le gambe anteriori.

— Che il sacro flusso ci unisca — mormorò Robin, inchinandosi a sua volta, e osservando quella che presumibilmente doveva essere la sua compagna di viaggio. Oboe era coperta di uno spesso pelo, simile a un velluto, spesso sette o otto centimetri. Solo in corrispondenza delle palme delle mani, di piccole aree sulla punta dei seni, e di parti della faccia si poteva scorgere la pelle nuda, che era di un ricco color verde oliva. Anche il pelo era color oliva, ma segnato da ghirigori simili alle impronte digitali degli uomini. Solo il pelo della coda e i capelli erano bianchi come neve. Pareva un grosso animale di pezza, con cuciti due grandi occhi castani.

— Conoscete Cornamusa, vero? — proseguì Cirocco. — Il Vecchio Cornamusa è… diciamo, il nipote del primo titanide che abbiamo incontrato. La sua retromadre è stata la prima Cornamusa Miscioie… — S’interruppe, perché incontrava difficoltà a pronunciare la parola. — Mic-so-io-ni-a nata. Poi s’incrociò con il suo antepadre. Sembra una cosa molto riprovevole dal punto di vista umano, ma vi assicuro che per i titanidi è una saggia misura di eugenetica. Cornamusa è un Duetto Lidio. — Ruttò, con aria sorpresa. — Come tutti noi.

— Cosa intendi dire? — domandò Chris.

— Tutti gli esseri umani sono Duetti Lidii — disse Cirocco. Trovò una penna e cominciò a disegnare sul tavolo.

— Osserva qui — disse. — Questo è un Duetto Lidio. La riga in alto è la femmina, quella in basso il maschio. L’asterisco è l’uovo non fecondato. La freccia in alto indica dove va l’uovo, e quella sotto indica chi scopa e chi si fa scopare, primario e secondario. Duetto Lidio: antemadre e retromadre sono femmine; antepadre e retropadre sono maschi. Esattamente come negli umani. L’unica differenza è che i titanidi devono farlo due volte. — Rivolse a Chris un’occhiata ammiccante. — Doppio godimento, eh?

— Rocky, non sarebbe meglio…

— È l’unico modo in cui i titanidi si accoppiano come lo fanno gli esseri umani — disse Cirocco, battendo il pugno sul tavolo. — Di ventinove possibilità, questa è solo una. Ci sono duetti composti di sole femmine, e ce ne sono ben tre. I Duetti Eoli. In tutti i Duetti Lidii c’è un maschio, ma qualche volta diventa la retromadre. — Aggrottò la fronte e contò sulle dita. — La maggior parte delle volte, anzi. Quattro su sette. Nel modo Ipolidio, la femmina feconda se stessa frontalmente, e nel Locrilidio lo fa posteriormente. Po-ste-rior-mente.

— Rocky…

— Come fa? — chiese Chris, incuriosito. — Ha un rapporto sessuale con se stessa? — Gaby gli rivolse un’occhiata disgustata, ma l’intervento di Chris non ebbe molta importanza, perché Cirocco non udì le sue parole. Fissava il tavolo dondolando la testa, e guardava lo schema che lei stessa aveva disegnato.

— Non è come pensi — gli spiegò Oboe. — Sarebbe fisicamente impossibile. Si fa manualmente. Si raccoglie il seme e poi lo si inserisce. Il seme di un retropene può fecondare un’antevagina, ma solo se si tratta dello stesso individuo, non tra…

— Ragazzi, ragazzi, lasciatemi un po’ di respiro, per piacere. D’accordo? — Gaby passò lo sguardo su tutti, e alla fine lo posò su Cirocco. Poi fece una smorfia e si alzò in piedi. — Signore e signori e titanidi, speravo che questo viaggio potesse essere pianificato meglio. Credo che Rocky avesse da dire alcune cose, ma non importa. Può dirle un’altra volta.

— ’ltra volta — borbottò Cirocco.

— Bene. Comunque, la prima parte del viaggio è molto facile. Ci limiteremo a scendere il fiume, senza un pensiero al mondo. Basterà caricare l’equipaggiamento sulle barche, e metterle in acqua. Perciò, cosa ne direste di alzarci e di partire?

— Partire! — le fece eco Cirocco. — Un brindisi! Al cammino che dobbiamo fare! Che ci porti all’avventura, e che ci faccia ritornare a casa sani e salvi. — Si alzò in piedi e sollevò il boccale. Robin dovette usare entrambe le mani per sollevare il suo, e lo spinse verso quello degli altri, con grandi tintinnii e rovesciamenti di schiuma. Bevve una profonda sorsata e udì un tonfo. La Maga era caduta dallo sgabello.

Però, non aveva perso i sensi. Robin non seppe decidere se fosse un bene o un male.

— Aspettate un momento — disse poi Cirocco, sollevando le braccia. — Sapete cosa fa la birra. Devo andare a incipriarmi il naso. Arrivo subito. — Si avviò dondolando verso l’altra sala.

Si udì un urlo. Mentre Robin si stava ancora chiedendo chi fosse stato, Gaby si alzò e corse nell’altra stanza, riuscendo in qualche modo a farsi strada in mezzo al pigia-pigia dei titanidi.

— L’ho riconosciuto! È lui! È qui!

Ora riconobbe la voce di Cirocco e si chiese che cosa potesse averla spaventata a quel punto. Robin cominciava ad avere dei dubbi sulla personalità della Maga, ma non le pareva che potesse essere una codarda.

A un’estremità del bancone di mescita, nei pressi della porta, si era formata una piccola folla. C’era poca speranza che una della sua taglia riuscisse a vedere qualcosa in mezzo a tutti quei posteriori di titanidi che bloccavano la visuale, e perciò Robin saltò sul bancone stesso e poté in tal modo arrivare fin quasi al centro del gruppo.

Vide che Cirocco veniva confortata da un titanide che Robin non aveva mai visto. Gaby era poco lontano. In una mano aveva un coltello, e con l’altra faceva dei gesti minacciosi in direzione di un uomo che stava curvo sul pavimento, davanti a lei. Alla luce tremolante delle lampade si vedevano i denti di Gaby brillare come zanne.

— Alzati, alzati — disse a denti stretti. — Sei uguale a tutte le altre merde sul pavimento, schifoso. È ora che qualcuno ti sbatta via, e me ne voglio occupare io.

— Non ho fatto niente — gemette l’uomo. — Lo giuro, chiedilo a Rocky. Non avevo intenzione di fare niente di male, sono stato bravissimo. Tu mi conosci, Gaby.

— Ti conosco fin troppo bene, Gene. Ho avuto due possibilità di ucciderti, e sono stata una stupida a lasciarmele sfuggire. Alzati, e affronta la tua sorte; questo, può farlo anche un verme come te. Alzati, o ti ammazzo laggiù come il maiale che sei.

— No, non farmi del male. — Si piegò su se stesso, tenendosi con le mani l’inguine, e cominciò a piagnucolare. Anche se fosse stato in piedi, avrebbe fatto compassione. Braccia e faccia, anzi, tutta la pelle visibile, erano coperte di vecchie cicatrici. Aveva i piedi nudi e sporchi, ed era vestito di stracci. Aveva una benda nera, come quella dei pirati, sull’occhio sinistro, e gli mancava parte di un orecchio.

— Alzati! — ordinò Gaby.

Con sua somma sorpresa, Robin udì che Cirocco prendeva la parola, e che parlava in tono del tutto privo dei fumi dell’alcool.

— Ha ragione, Gaby — disse, tranquilla. — Non ha fatto niente. Diavolo, non appena mi ha visto, ha cercato di scappare. Ho gridato soprattutto per la sorpresa di vedermelo davanti.

Gaby drizzò un poco la schiena. Dagli occhi le scomparve una parte della luce belluina.

— Intendi dire che non devo ucciderlo? — chiese, senza nessun tono particolare.

— Per l’amor di Dio, Gaby — mormorò Cirocco. Pareva calma, adesso, ma ancora un po’ tremante per l’agitazione di prima. — Non puoi tagliarlo a fette come una bestia da macello.

— Sì, lo so. Ho già sentito altre volte queste parole. — Appoggiò un ginocchio a terra per portarsi all’altezza dell’uomo, e con il piatto della lama gli fece girare la testa.

— Cosa fai, Gene, da queste parti? Cosa stai combinando?

Lui piagnucolò e balbettò per qualche istante. — Venivo a bere, nient’altro. La gola diventa secca, con questo caldo.

— I tuoi amici non sono qui. Ci deve essere una ragione, se sei venuto a Titantown. Tanto per dirne una, non correresti il rischio di incontrarmi, se non avessi dei buoni motivi per venire qui.

— Hai ragione, Gaby, hai ragione, mi fai paura, è vero. Sì, certo, il vecchio Gene sa che non deve mettersi sulla vostra strada. — Rifletté per un attimo, e fece una smorfia nel pensare alle implicazioni della cosa, cosicché si affrettò a cambiare discorso. — Me n’ero dimenticato, Gaby, non sapevo che eri qui, nient’altro.

Robin capiva che quell’uomo era talmente abituato a mentire, che lui stesso non sapeva più quale era la verità. Era anche ovvio che Gaby lo terrorizzava veramente. Era il doppio della donna, ma non pareva avere alcuna intenzione di difendersi da lei.

Gaby si alzò in piedi e fece un gesto con il coltello.

— Alzati, Gene. Non fartelo ripetere.

— Non mi farai del male?

— Se ti rivedrò, ti farò male, e forte. Ci siamo capiti? Dico che non ti ucciderò. Ma se mai dovessi rivederti, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, ti farò male sul serio. Da questo momento in poi, fare in modo che i nostri cammini non si incontrino sarà affar tuo.

— Puoi esserne certa, lo prometto, lo prometto.

— La prossima volta che ti incontro, Gene — disse lei, e indicò con il coltello — ti taglio anche l’altra.

Il coltello non aveva indicato l’orecchio sano, ma notevolmente più in basso.

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