37 Sul fronte occidentale

Nasu scappò nei primi tempi della loro permanenza nella caverna. Chris non era in grado di dire quando fosse scappato; il tempo era diventato una quantità impalpabile.

Robin le tentò tutte, pur di trovare il serpente. Accusò se stessa. Chris non riuscì a consolarla, perché sapeva che era vero. Gea non era il posto adatto a un anaconda. Nasu aveva sofferto più di tutti, chiuso nella borsa di Robin, senza prendere aria. Con qualche brutto presentimento, Robin gli aveva infine permesso di esplorare l’accampamento. Le rocce erano tiepide, e Robin era convinta che il serpente non si sarebbe allontanato dalla luce. Chris aveva i suoi dubbi. Secondo lui, Robin attribuiva al serpente un’intelligenza e una fedeltà quasi assurde, solo perché era il suo "demone", qualunque fosse il significato della parola. Secondo lui, non ci si poteva aspettare questo genere di cose da un serpente, e la fuga di Nasu dimostrò che aveva ragione. Un mattino si svegliarono e non lo videro più.

Per molti giorni esaminarono tutta l’area circostante. Robin guardò dietro ogni angolo, chiamando il serpente per nome. Lasciò in giro dei bocconcini di carne per richiamarlo, ma la cosa non funzionò. Alla fine, la ricerca ebbe termine quando Robin comprese che non lo avrebbe più visto. Cominciò a chiedere a Chris e Valiha se l’animale poteva sopravvivere, e loro le dissero sempre che non avrebbe avuto problemi. Chris non ne era convinto.

Gradualmente, ricerca e domande svanirono. Robin accettò la perdita, e l’incidente scomparve oltre l’orizzonte della loro vita senza tempo.

Entrambi gli orologi erano rimasti nelle sacche di Cornamusa. Già in precedenza, Chris non aveva badato molto al trascorrere del tempo, e laggiù nella caverna non aveva modo di misurarlo. Eppure, c’era un processo che continuava a ticchettare come una bomba a orologeria: Valiha stava facendo un piccolo titanide.

Secondo lei, si era ferita verso la rivoluzione numero mille e duecento della sua gravidanza, ma lei stessa diceva di non ricordare niente della discesa fino a Teti. Chris tradusse le rivoluzioni in un mese e venti giorni, e si sentì meglio. Poi le chiese quanto tempo occorreva perché le guarissero le gambe.

— Tra mille rivoluzioni potrò probabilmente camminare con le stampelle — disse. — Quarantadue giorni.

— Con le stampelle, qui, non potrai fare molta strada.

— Probabilmente no, se occorre arrampicarsi.

— Occorre — disse Robin, che aveva esplorato la zona intorno al campo.

— Per una guarigione completa occorrono da quattro a cinque chiloriv. Non credo di poter fare molto cammino, dopo tre sole.

— Da cinque a sette mesi — calcolò Chris, e tirò un sospiro di sollievo. — Resterà poco margine di tempo, ma penso che potremo farti uscire prima della nascita.

Valiha parve sorpresa, poi capì.

— Ti sbagli — disse tranquillamente. — Pensi che occorrano nove dei vostri mesi. Ma noi facciamo più in fretta.

Chris si passò la mano sulla fronte.

— Quanto, in fretta?

— Spesso mi sono chiesta perché le femmine umane impieghino tanto tempo per produrre un bambino molto più piccolo e ancora così lontano dall’autonomia… senza voler offendere nessuno, beninteso. I nostri neonati sono già in grado di…

— Quanto? — domandò Chris.

— Cinque chiloriv — disse Valiha. — Sette mesi. Nascerà prima che possa uscire di qui sulle mie gambe.

L’impossibilità di misurare il tempo portava Chris a confondere l’ordine degli avvenimenti, ma ricordava di avere catturato il primo uccello luminoso dopo avere messo a posto le zampe di Valiha.

Quei piccoli animali luminescenti non avevano paura di loro, ma si allontanavano dal movimento. Quando Robin e Chris erano svegli, gli uccelli si tenevano lontano, ma quando dormivano venivano ad appollaiarsi accanto a loro.

Robin era stata in grado, fin dal primo "mattino", di allungare una mano per accarezzarne uno, ma, dopo qualche minuto, la decina di uccelli che aveva visto al suo risveglio si era allontanata. Riuscì a catturare l’ultimo e lo legò a un albero; l’uccello continuò a svolazzare tutto il giorno, e l’indomani ce n’erano di nuovo altri dieci. Questa volta, Robin li prese tutti.

Erano creature globulari piene d’aria. Avevano occhi piccoli e brillanti, erano privi di testa, avevano ali sottili come bolle di sapone e un solo piede con due dita. Chris non riuscì a scorgere una bocca e non riuscì a capire cosa mangiassero. Morivano se erano tenuti prigionieri per più di due giorni, e di conseguenza Chris e Robin li tenevano per un giorno solo, e ogni mattino ne prendevano altri. Dopo morti, parevano dei palloncini sgonfi. Se li si toccava nel punto sbagliato, davano una scossa elettrica. Chris pensava che funzionassero come le lampade al neon, a causa del colore della loro luce, ma la cosa pareva estremamente improbabile a lui stesso, e non lo disse a nessuno.

Pochi giorni dopo avere medicato Valiha, l’avevano spostata, perché non volevano rimanere sulla scarpata di un burrone, con un salto di venti metri sotto di loro. Chris si era chiesto come spostarla, e Robin gli aveva semplicemente suggerito di sollevarla. Nella ridotta gravità, erano in grado di farlo. La spostarono di pochi metri alla volta, e infine raggiunsero il pianoro che stava al di sopra della precedente posizione.

Lassù piazzarono la tenda, preparandosi a un’attesa di vari mesi, e trascorsero al suo interno gran parte del tempo, anche se la temperatura si manteneva fissa a ventotto gradi. Ma preferivano non vedere intorno a loro quella caverna piena di echi.

Valiha cominciò a intagliare il legno che Robin raccoglieva per lei durante i suoi viaggi di esplorazione. La titanide era quella che si annoiava di meno: per lei, era come un lungo periodo di riposo.

Si trovavano all’estremità occidentale di una caverna larga un chilometro e avente una lunghezza imprecisabile. Il pavimento era composto di rocce cadute, di crepacci, scarpate, punte. Dalla dimensione apparente degli uccelli appesi al soffitto, la caverna doveva essere alta almeno un chilometro.

Sia a nord che a sud c’erano numerose aperture. C’erano gallerie simili a quella da cui erano giunti. Molte parevano scavate nella roccia; alcune avevano anche armature di tronchi. Alcune salivano, altre scendevano, altre rimanevano orizzontali, ma tutte, dopo un centinaio di metri, si suddividevano in altre due o tre gallerie, che dopo un poco si suddividevano a loro volta. Inoltre, nelle pareti c’erano fessure come quelle che si trovano nelle caverne naturali. Ma al di là di esse, l’ambiente era così caotico che non valeva la pena di esplorarle. Da una galleria promettente si poteva passare a un varco sottilissimo, e da questo a una sala immensa.

Dapprima Chris si recò a esplorarle con Robin, ma al suo ritorno trovava sempre Valiha in un grave stato di disperazione, e dovette smettere, anche se gli dispiaceva che Robin le esplorasse da sola.

— Non mi piace — le diceva ogni volta. — Conosco un po’ di speleologia, e non è una cosa che si possa fare da soli.

— Ma Valiha ha bisogno di te. E qualcuno deve andare a prendere il cibo.

Era vero. Nelle caverne c’erano altri animali, oltre agli uccelli luminosi, e tutti si lasciavano catturare facilmente, anche se non era facile trovarli. Robin ne aveva scoperte tre specie, grosse come gatti, lente come tartarughe, prive di denti e di peli. Non si capiva cosa facessero, ma Robin li trovava sempre nei pressi di certe masse grigie, coniche, di una sostanza tiepida e simile a gomma, che potevano essere un animale sedentario o una pianta, ma che dovevano avere profonde radici e che quasi certamente erano vive. Lei chiamava familiarmente "tette" quelle masse gommose, perché le ricordavano le mammelle delle mucche, e "cetriolo", "lattuga" e "gambero" le tre specie animali. Non per il gusto, giacché tutti avevano lo stesso sapore di carne di manzo, ma perché avevano quelle forme. Aveva incontrato innumerevoli cetrioli senza mai notarli, finché un giorno non ne aveva colpito accidentalmente uno con un calcio, e quello aveva aperto un occhio enorme.

Tutti e tre temevano che Valiha non avesse cibo a sufficienza, o cibo del tipo giusto. — È difficile trovare quegli animali — diceva Robin. — Preferirei vederli scappare quando mi avvicino. Invece, mi può capitare di passare a un metro da uno di essi e di non vederlo.

Questo fino al giorno in cui Robin non tagliò una delle "tette" con il coltello, e fu colpita da uno schizzo di liquido bianco e denso.

— È il latte di Gea — disse Valiha, felice, e immediatamente bevve tutto quello che Robin le aveva portato. — Non pensavo di trovarlo a questa profondità. Nel mio paese scorre a una profondità di due metri o poco più.

— Cosa intendi dire con "latte di Gea"? — chiese Chris.

— Non saprei spiegarlo. È il latte di Gea, e basta. E le nostre preoccupazioni sono finite. Mio figlio si alimenterà di questo latte. Contiene tutto ciò che occorre per la sopravvivenza.

— E noi? — chiese Robin. — Anche gli umani possono berlo?

— Certo. È il latte universale.

— Che gusto ha, Robin? — chiese Chris.

— Non lo so. Non penserai che io beva un liquido sconosciuto.

— Gli umani che l’hanno assaggiato dicono che ha un gusto amaro — spiegò Valiha. — Lo penso anch’io, ma ho l’impressione che la sua qualità vari da una rivoluzione all’altra. Quando Gea è compiaciuta, diventa più dolce. Quando Gea è in collera, diventa spesso e si caglia, ma continua a essere nutriente.

— E di che umore è Gea, adesso? — chiese Robin.

Valiha assaggiò le ultime gocce, poi inclinò la testa, pensosa.

— Preoccupata, direi.

Robm rise. — E che preoccupazioni può avere Gea?

— Cirocco.

— Cosa intendi dire?

— Quello che ho detto. Se la Maga è ancora viva, e se noi sopravviveremo fino a parlarle degli ultimi momenti di Gaby, Gea tremerà.

Robin non pareva convinta, e Chris in cuor suo era d’accordo con lei. Non capiva che pericolo potesse costituire Cirocco per Gea.

Ma Robin capì subito il significato della scoperta.

— Adesso posso andare a cercare aiuto — disse, dando così inizio a una discussione con Chris che sarebbe durata tre giorni e che lui, fin dall’inizio, sapeva di perdere.

— La corda. Ti basterà? E fiammiferi, ne hai?

— Ho tutto. — Robin aveva sulle spalle uno zaino ricavato da una delle sacche di Valiha.

Erano passati quattro giorni dalla capitolazione di Chris. In quel periodo, avevano cercato la più vicina delle "tette" e avevano trasportato laggiù Valiha.

— Hai preso l’acqua?

— Qui. Ho tutto, Chris.

Con lo zaino sulle spalle, pareva ancora più piccola: a Chris fece venire in mente un bambino di pochi anni, vestito per uscire a giocare con la neve, e provò l’irresistibile desiderio di abbracciarla per proteggerla. Ma questo era proprio ciò che lei non voleva, e Chris si affrettò a guardare da un’altra parte per non farsi scorgere.

— Ricordati di lasciare dei segni lungo il sentiero.

Lei gli mostrò il martello, poi tornò a infilarlo nella cintura. Era una bellissima cintura, fabbricata da Valiha con le pelli di "cetriolo". Pensavano che non appena Valiha fosse stata in grado di muoversi con le stampelle, lei e Chris avrebbero seguito il sentiero tracciato da Robin, ma la speranza era che Robin potesse ritornare molto prima di allora.

— Arrivederci, Valiha.

— Arrivederci. Ti direi "Gea sia con te", ma so che preferisci viaggiare senza di lei.

— Giusto — disse Robin, ridendo. — Lasciala nel suo mozzo, a preoccuparsi della Maga. Ci rivediamo tra una chiloriv.

Chris la guardò allontanarsi. Gli parve che si girasse ancora una volta a salutare; poi scorse solo più la luce dei tre uccelli che portava in una gabbietta, e infine più niente.

Il latte di Gea era effettivamente amaro. Il suo gusto cambiava leggermente da un giorno all’altro, ma Chris avrebbe desiderato una maggiore varietà. In meno di cento rivoluzioni ne ebbe la nausea, e cominciò a domandarsi se era meglio quel liquido o la morte per inedia.

Quando poteva, andava a raccogliere legna e a catturare animali, e Valiha cercava di prepararglieli in maniera sempre diversa. Chris li mangiava come se fosse digiuno da giorni. ’ Chris tornò ad avere degli attacchi, dopo un lungo periodo tra il Festival di Crio e l’arrivo nella caverna. Si svegliava in qualche posto e non ricordava come c’era arrivato. Ogni volta che questo gli accadeva, si voltava verso Valiha per vedere se le avesse fatto del male, ma Valiha gli diceva di no. Anzi, spesso gli pareva assai soddisfatta. A quanto pareva, Valiha lo preferiva durante i suoi attacchi di pazzia.

Forse era quella la cura, si disse un giorno. Aveva trovato il modo di trasformare la pazzia in normalità. Chris non sapeva cosa faceva durante i suoi attacchi: non osava chiederlo a Valiha, e Valiha non gliene parlava mai.

Parlavano d’altro. Dapprima parlarono di se stessi, e presto Valiha si trovò senza argomenti: Chris si era dimenticato di quanto fosse assurdamente giovane. Anche se era adulta e matura, le sue esperienze erano estremamente limitate. Ma entro breve tempo anche Chris esaurì il racconto della sua,vita, e dovette passare ad altri argomenti. Parlarono delle loro speranze e dei loro timori, umani e titanidi. Inventarono giochi e racconti. Valiha era abilissima nel raccontare: la sua immaginazione e le sue prospettive erano leggermente sfalsate rispetto a quelle umane, e Chris rimaneva sorpreso dalle sue intuizioni e dalle sue osservazioni inquietanti. Cominciò a capire cosa significava essere quasi umani, ma non umani del tutto. Pensò a quanti miliardi di esseri umani, sulla Terra, non avevano mai fatto un’esperienza così affascinante.

Rimase stupito dalla pazienza di Valiha. Lui si sentiva impazzire dalla claustrofobia, nonostante la sua libertà di movimento fosse assai superiore. Cominciò a capire perché sulla Terra uccidessero i cavalli che si rompevano le zampe: la costituzione fisica dei cavalli non era fatta per stare sdraiati. Le zampe dei titanidi erano molto più flessibili di quelle dei cavalli terrestri, ma Valiha passò un periodo estremamente sgradevole. Per mezza chiloriv non poté fare altro che rimanere distesa sul fianco. Poi, quando le ossa cominciarono a saldarsi, poté ritornare in posizione eretta, ma solo per breve tempo, perché doveva allungare le zampe davanti a sé.

Chris capì la scomodità della posizione quando lei, incidentalmente, disse che i titanidi, nei loro ospedali, erano sospesi a un’imbracatura che sollevava il tronco e lasciava libere le gambe. Chris rimase stupito.

— Perché non me l’hai detto prima? Penso di poter costruire qualcosa di simile. Tu ti appoggi sulle zampe posteriori… — Si accorse che Valiha non lo guardava, e le chiese: — Cosa c’è?

— Non voglio darti disturbo… — E incominciò a piangere.

— Non preoccuparti — disse lui, cercando di consolarla.

— Sono stata così stupida — gemette Valiha. — Sono stata stupida a rompermi le gambe.

— È stato un incidente.

— Sì, ma ricordo tutto. Non ricordo cosa è successo prima… sulle scale. Ricordo però un dolore terribile, e che mi sono messa a correre. Poi, quando sono giunta al burrone, ho fatto il salto, anche se sapevo di non poter arrivare dall’altra parte.

— Si fanno delle strane cose, quando si ha paura — disse Chris.

— Sì, ma adesso tu sei bloccato qui, per colpa mia.

— Siamo tutti e due bloccati — ammise lui. — Non dico che sia il posto ideale, ma finché non sarai guarita, resterò con te. Comunque, la colpa non è certo tua.

Lei rimase in silenzio per qualche tempo. Poi lo guardò negli occhi.

— Per me è il posto ideale — disse.

— Cosa intendi dire? — fece lui, perplesso.

— Intendo dire che ti amo.

— No, non credo che tu ami me.

Lei scosse la testa. — Capisco cosa vuoi dire, ma non è vero. Io ti amo sempre, sia quando sei tranquillo, sia quando sei agitato.

Per qualche tempo, Chris rimase in silenzio, poi, visto che anche Valiha taceva, le rivolse la domanda che da tempo non osava chiedere. — Perché, facciamo forse l’amore, quando sono pazzo?

— Certo, lo facciamo tumultuosamente. Tu mi…

— Va bene, va bene, lascia stare i particolari! — la interruppe Chris.

— Non volevo dire niente di pornografico — disse Valiha, col tono della virtù offesa.

— Io… ehi, dove hai imparato certe parole? Hai mangiato un dizionario? — chiese Chris.

— Devo conoscere tutte le parole inglesi, per l’esperimento — spiegò lei.

— Esperimento?… no, lascia perdere, ne parleremo in seguito. So che una volta abbiamo fatto l’amore. Volevo solo sapere se era successo di nuovo.

— Certo, venti o trenta rivoluzioni fa.

— E non ti dà fastidio che io lo faccia solo quando sono pazzo?

Valiha rifletté per qualche istante. — Ti confesso che ho incontrato gravi difficoltà a capire cosa intendi dire con "pazzo". A volte tu perdi certe inibizioni… altra parola che non capivo bene. Questo ti porta a litigare con altri esseri umani. Io non ho problemi, perché se diventi insopportabile ti prendo per i capelli e ti tengo sollevato in aria finché non ti calmi. Poi comincio a ragionare con te, e tu ritorni a comportarti bene.

Chris rise senza allegria. — Non so cosa dire. Sono stato studiato dai migliori medici, e quelli mi hanno dato solo delle pillole inutili. Chissà cosa direbbero della tua cura!

— Funziona, però — disse lei, in tono di scusa. E aggiunse: — Ma suppongo che possa essere efficace solo in una società dove tutti sono più grossi di te.

Con qualche difficoltà, Chris trovò tre lunghi pali di legno e costruì un treppiede per Valiha, imbottendolo con i loro vestiti invernali, inutili nel clima temperato della caverna. Quando ebbe finito, Valiha si sollevò lentamente a forza di braccia, e Chris la aiutò a infilare le zampe nei fori. Con un sospiro di sollievo, infine lei si sistemò, e da quel momento in poi passò gran parte del tempo con le gambe sospese.

Ma non tutto il tempo, perché in quella posizione non potevano fare l’amore. Dapprima con riluttanza, Chris si lasciò convincere all’amore frontale dei titanidi, e presto si chiese come avesse potuto farne a meno. Poi capì che, naturalmente, l’aveva sempre fatto. Dopo avere accettato questa realtà, anche il latte di Gea gli sembrò migliore.

Valiha aveva molte somiglianze con una donna umana, ma non era uguale a essa. Non si poteva dire se fosse migliore o peggiore: era diversa. Quando pensava a questo, Chris era certo che non fosse affatto un caso, e aveva l’impressione di sentire, dietro le quinte, la risata di Gea. Che scherzo cosmico aveva fatto all’umanità, nel predisporre le cose in modo che la prima razza intelligente incontrata dall’uomo potesse fare gli stessi giochi erotici, e con la stessa attrezzatura. Capiva che le sue titubanze iniziali erano dovute al fatto che parte del corpo di Valiha era equina, e di solito si mantiene un certo distacco con gli animali. Ma trovò facile superare questi preconcetti: sotto molti aspetti, c’era assai meno di equino in Valiha di quanto non ci fosse di scimmiesco in lui.

Le stampelle dei titanidi erano fatte come quelle usate dagli uomini da migliaia di anni, e Chris non ebbe difficoltà a fabbricarne un paio.

Dapprima Valiha riuscì a fare solo una cinquantina di passi, prima di doversi fermare, e poi il tragitto di ritorno fino alla tenda. Poi, gradualmente, riuscì a percorrere tragitti più lunghi; Chris smontò la tenda, si mise in spalla tutte le loro attrezzature, compreso il treppiede per far riposare Valiha, e partirono. Con le stampelle, Valiha camminava ruotando le spalle: prima una spalla, poi l’altra, poi le gambe posteriori. Questo costituiva un notevole sforzo per la sua schiena di tipo umano e per la parte di colonna vertebrale che s’innalzava ad angolo retto, alla base del torso. Chris non sapeva come fosse lo scheletro dei titanidi all’attaccatura tra la parte umana e la parte equina, ma pensava che le sue vertebre fossero diverse da quelle dell’uomo: le permettevano infatti di ruotare la testa di centottanta gradi e di fare contorsioni impossibili. Ma scoprì che il mal di schiena dei titanidi era uguale a quello umano. Dopo ogni tragitto era costretto a massaggiarle a lungo i muscoli dorsali, contratti e indolenziti.

Pian piano, i muscoli si rafforzarono, ma non fu mai un modo agevole di camminare. Secondo Chris, il massimo tragitto giornaliero che poteva fare in quelle condizioni era di un paio di chilometri. Tutti i giorni incontravano alcuni dei segni lasciati da Robin. Non c’era modo di sapere quando li avesse lasciati, ma, anche se non lo dissero mai, pensavano che ormai avrebbe già dovuto fare ritorno.

Proseguirono, e ogni giorno la domanda divenne più inquietante.

Dove era Robin?

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