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Stephen Oberg rimase perplesso quando incontrò il responsabile della sorveglianza militare di Pau Seco. L’uomo era un massiccio brasiliano dell’entroterra, con occhi scuri e un profondo senso della territorialità. Si presentò come Maggiore Andreazza e offrì a Oberg una sedia dallo schienale stretto e scomodissimo. Il suo ufficio si affacciava sull’ampia valle della miniera. Lui si accomodò in un’elegante poltrona girevole dietro la sontuosa scrivania.

— Grazie — disse Oberg.

Andreazza lo guardò come da lontano. — Dovete dirmi perché siete venuto fin qui — dichiarò.

E così Oberg dovette rispiegare tutto un’altra volta. Le potenze dell’Anello del Pacifico erano ansiose di assicurarsi che gli oneiroliti di profondità non cadessero nelle mani di persone poco sicure. A tal fine, le organizzazioni di sicurezza avevano intensificato i controlli negli istituti di ricerca in Virginia, a Kyoto e a Seoul. Tuttavia, un informatore vicino allo scienziato americano Cruz Wexler aveva avvertito l’Organizzazione che si premeditava un asporto proprio lì, a Pau Seco. Oberg era venuto per impedirlo.

Andreazza girò la poltrona verso la finestra. — Noi stessi siamo già molto impegnati con i controlli — fece notare.

— Lo so. — Con i fucili, pensò Oberg, le intimidazioni e le esecuzioni pubbliche. Solo l’anno prima c’erano state parecchie impiccagioni a Pau Seco. Eppure… Cercò le parole. — I controlli non sono stati abbastanza rigorosi.

Andreazza alzò le spalle. — Le formigas vengono perquisite ogni sera, quando lasciano la miniera. Abbiamo informatori nei recinti di lavoro. Non vedo che cosa potremmo fare di più.

— Non intendo criticare i vostri sforzi, Maggiore. Sono sicuro che sono encomiabili. Voglio solo localizzare tre americani. — Aprì la valigetta, ne estrasse le fotografie che aveva ottenuto dai funzionali della SUDAM e le fece scivolare sulla scrivania di Andreazza.

Il maggiore diede loro una rapida scorsa. — Se sono qui — commentò — dubito che siano ancora così puliti.

— Sappiamo che hanno un contatto nella città vecchia — insisté Oberg. — Qualcuno che probabilmente li ospita.

— Noi controlliamo la miniera — precisò Andreazza. — In qualche modo controlliamo anche le baracche, si capisce; ma non sopravvalutateci, signor Oberg. Fuori dal recinto vivono duecentocinquantamila persone. La città vecchia è nel caos. Senza nemmeno un nome, c’è un limite a ciò che possiamo fare.

— Abbiamo il nome — ribatté Oberg.

— Davvero?

— Il nome è Ng.

— Capisco — disse Andreazza, annuendo.


Pranzarono insieme al commissariato militare. Oberg era ansioso di continuare il suo lavoro, l’urgenza gli rendeva l’attesa insopportabile, ma Andreazza l’obbligò a rispettare il protocollo della buona educazione. Il cibo, era ovvio, risultò disgustoso.

— Oberg — disse Andreazza a un certo punto. — Stephen Oberg. Lo sapevate che c’era un Oberg qui, durante la guerra? Apparteneva ai Reparti Speciali, penso. Rase al suolo un certo numero di villaggi a ovest di Rio Branco. Fu uno scandalo. Uccise centinaia di donne e bambini. — Sorrise. — Così almeno raccontano.

— Non lo sapevo — rispose l’altro con disinvoltura.

— Già — concluse Andreazza, in tono pensoso.

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