11

Ng descrisse il posto, che si trovava sulla strada, e disse loro di aspettare là. Un autocarro sarebbe venuto a prelevarli.

— Potrebbe essere una trappola — brontolò Byron. — Chi ci assicura che non ci avete venduto?

Keller si aspettò una reazione irritata da parte del vietnamita, invece lui scrollò soltanto la testa. — Ho anch’io il mio onore — assicurò. — Non tradisco chi mi paga.

Così s’incamminarono lungo la strada che univa la miniera alla città vecchia, nascosti dai vestiti, dal buio della notte e dal viavai delle persone attorno a loro. Evitarono i falò e camminarono con le spalle curve, non troppo adagio ma nemmeno troppo in fretta, attenti alle pattuglie della polizia. Fuori dalla città si mantennero al riparo del bosco. Un cane dal torace magro si affiancò a loro per mezzo chilometro, saltellando su tre gambe. Byron gli tirò dietro un sasso, per convincerlo ad allontanarsi.

Finalmente arrivarono nel punto che Ng aveva descritto, uno slargo nella strada allo sbocco di una pista disboscata che proveniva da ovest. La mezzanotte era già passata e il traffico era molto ridotto. Per due volte dei grossi diesel d’anteguerra passarono rombando accanto a loro, diretti verso Pau Seco. Una volta, invece, transitò un mezzo di trasporto militare. Per il resto del tempo la strada rimase vuota, e nella notte si udirono soltanto i rumori del bosco.

Keller era caduto in una specie di vigile dormiveglia, quando un furgone si fermò sul margine della strada, svegliandolo. Il cielo andava già schiarendosi e lui fu in grado di leggere la parola ELETRONORTE scritta a lettere bianche un po’ sbiadite sulla fiancata mezzo arrugginita del veicolo. L’autista aspettava, con il motore in folle.

Keller si fece avanti per primo, seguito da Byron e poi da Teresa. L’autista, dagli occhi grandi e impassibili, fece cenno di salire dietro. Keller richiuse con un colpo secco la portiera e il veicolo ripartì immediatamente.

Sedettero sul pianale di metallo completamente sgombro, con la schiena appoggiata alla paratia.

— Dove ci porta? — chiese Teresa con voce stanca.

Byron si strinse nelle spalle. — Non ha molta importanza, dato che non possiamo più passare da Rio. È meglio che evitiamo le grandi città, almeno per il momento.

Teresa strinse tra le mani il fagotto della pietra esotica, quasi accarezzandolo con le dita. — Almeno abbiamo ottenuto ciò che volevamo — commentò.

Tu l’hai ottenuto — precisò Byron. — E anche Ray, immagino. Un buon reportage, Keller? Direi di sì, dannazione.

Keller non disse nulla. Teresa si era appoggiata contro di lui, a occhi chiusi. L’uomo le mise un braccio attorno alle spalle, per farla stare più comoda, e il furgone continuò il suo viaggio nella notte, portandoli lontano da Pau Seco.


Scivolò nel sonno, conscio del calore e del peso del corpo di Teresa contro il suo, mentre il furgone proseguiva in direzione dell’alba. Di tanto in tanto l’autista lanciava un’occhiata alle sue spalle, senza parlare ma con espressione perplessa, come se stesse cercando di ricavare un senso dall’aspetto di quel nuovo, misterioso carico. Alla fine, quando le luci che filtravano dalla cabina lo svegliarono, Keller abbozzò un sorriso.

— Grazie del passaggio — disse con la voce ancora impastata di sonno.

Il conducente scrollò la testa.

Ela e muito gentil. - Gesticolò in direzione di Teresa. — Ragazza graziosa.

Molto graziosa, pensò Keller senza malizia.

— Vostra ragazza? Vostra moglie?

— No. — Decisamente no. Ma strinse le braccia attorno à lei in un gesto protettivo, e Teresa si mosse nel sonno.

— Vostra ragazza — ripeté l’autista, convinto, e tornò a volgere la sua attenzione alla strada.

E Keller riconobbe, in un attimo di introspezione penetrante come un raggio di sole, che l’uomo aveva ragione, che si stava innamorando di lei. E che magari era già successo.

Il che lo metteva in una brutta posizione.

Adhyasa, pensò. Doveva comportarsi come una macchina. Le macchine non hanno sentimenti e quindi non è possibile corromperle. Una macchina innamorata può anche provare la tentazione di distogliere lo sguardo.

Eppure… Rimase seduto sul pianale traballante del furgone, con il corpo di Teresa appoggiato contro di sé, e pensò che la desiderava più di quanto avesse desiderato qualsiasi altra cosa da anni. Il desiderio stesso era una cosa nuova, che gli si alzava dentro come un’onda di marea. Una parte di lui accettava la cosa con gioia, felice che l’antica tundra minacciasse di sgelarsi. Un’altra parte ne temeva i rischi. Allontanarsi troppo dal Palazzo del Ghiaccio lo avrebbe messo a nudo e reso vulnerabile. Fuori, potevano attenderlo molti pericoli.

I vecchi dolori. I ricordi. Le cose già viste.

Eppure…

— Ecco — disse all’improvviso l’autista. Il furgone rallentò e Keller andò a sbattere contro la paratia. Teresa si riscosse con un gemito. — Avie-se! In fretta, per favore.

Rimasero di nuovo soli, strizzando gli occhi per la troppa luce, in un’arida città posta all’incrocio di molte strade che si chiamava Sinop.


Avevano carte di credito e banconote brasiliane. Quanto bastava, disse Byron, per farli uscire dal paese. Per il momento dovevano trovare una stanza. Poi, l’indomani, avrebbero seguito l’autostrada orientale fino a Barreira, o magari Campo Alegre. Lui aveva delle conoscenze a Belem. Con il loro aiuto avrebbero potuto trovare una combinazione per lasciare il Brasile in aereo.

Affittarono una stanza a buon mercato prima che scendesse la sera. Byron si avviò alla porta con un pugno di monete in mano. Voleva fare alcune telefonate, spiegò, ma non da lì. Magari si sarebbe anche ubriacato. Guardò Keller, poi Teresa. Sì, si sarebbe ubriacato senz’altro.

La porta si richiuse dietro di lui come un sospiro.

Teresa tirò le tende e spense la luce. Ora la stanza era buia come una caverna, e il rumore del traffico proveniente dalla strada principale risultava ingigantito dall’oscurità. Lei si arrampicò sul materasso a molle di tipo economico su cui Keller si era già sdraiato e si rannicchiò contro di lui. Indossava ancora i vestiti che si era messa a Pau Seco, impregnati dell’odore del carburante del furgone e di quello più pungente del sudore. Dopo un attimo Keller si rese conto che stava tremando.

— Hai paura? — le chiese.

Teresa si girò e annuì contro il suo petto. — Siamo nei guai, vero? Non ci vuole molto a capirlo. Siamo nei guai.

Aveva ragione, naturalmente. Wexler le aveva promesso un viaggio facile, una specie di vacanza. Ma la grossa presenza militare a Pau Seco e la paura tangibile negli occhi di Meirelles avevano dimostrato che l’impresa era andata ben oltre la progettata gita di piacere. Qualcuno aveva cominciato a interessarsi a loro. L’Organizzazione federale, si disse Keller. Forse, nell’istituto di Wexler a Carmel c’era una talpa. Oppure lo stesso Wexler era un informatore, o magari aveva confessato durante un interrogatorio. Non aveva importanza. Restava il fatto che c’era qualcuno interessato a loro. Qualcuno molto potente.

Dal momento che non trovava niente di rassicurante da dirle, Keller cercò di tranquillizzarla accarezzandola.

— Tu sei un Angelo — disse lei, con aria assonnata.

Lui annuì nel buio.

— Viene registrato tutto nella memoria?

— Tutto quello che vedo e sento.

— Anche questo?

— Anche questo — ammise lui.

— Chi lo vede?

— Forse nessuno.

— Chi lo trasforma in video?

— Io — rispose Keller. — Decodifico la memoria ed eseguo il montaggio negli studi della Rete.

— Decodificherai anche questo?

Intendeva la conversazione, forse. Oppure quello che stava cominciando a nascere tra di loro. Keller esitò. — No — rispose infine.

Lei tracciò i contorni del suo cranio con le dita. — Hai dei fili qui dentro.

Lui annuì.

— Dicono che possono provocare disturbi.

— È vero.

— A te ne danno?

— A volte. È difficile spiegarlo. La memoria gioca brutti scherzi. — Ray rimase con gli occhi fissi nel buio. — Prima che mi istallassero l’impianto, quando ero ancora nell’ospedale militare di Santarem, ho rubato un testo dalla biblioteca medica. Elencava una serie di effetti collaterali, di disturbi che potevano verificarsi se qualcosa andava storto. Cecità, amnesia, perdita delle emozioni…

— Emozioni?

— Sì. — Lui sorrise, pur sapendo che Teresa non poteva vederlo nel buio. — L’amore, l’odio.

— Ti succede questo?

— Non lo so. — La domanda lo fece sentire a disagio. — A volte me lo chiedo anch’io.

Non c’era modo di spiegarle che cosa intendesse in realtà. Non c’era modo di condensare l’esperienza in poche parole. Keller era emerso dall’ospedale militare per affacciarsi in un mondo pieno d’incertezze. I fili non avevano invaso solo il cervello, ma tutta la sua essenza. Ogni percezione diventava sospetta, ogni emozione era un potenziale sintomo. È così che si impara, pensò. Praticando il wu-nien con grande attenzione si diventa, in qualche modo, delle macchine.

Avrebbe voluto spiegare che si trattava di una strana combinazione di chiarezza e confusione. Come quelle notti in cui la nebbia è così fitta che viene il dubbio di essere ciechi, e invece i suoni giungono da distanze incredibili con sorprendente nitidezza. Magari non riesci a vederti i piedi, ma la sirena di una nave in porto ti arriva con fragore e tonalità assolutamente intatte. Allo stesso modo, Keller era in grado di registrare il distante scampanellio degli eventi, sia economici che politici. Eseguiva quel compito con grande maestria. Ma la nebbia nascondeva l’amore. E anche l’odio.

— Dev’essere una sensazione strana. — Teresa sembrava più calma, mentre scivolava nel sonno, stretta contro di lui.

— Già, piuttosto strana. — Ma non fu certo che lei avesse sentito. Il suo respiro divenne più profondo, mentre lei si abbandonava tra le sue braccia. — Molto strana — ripeté Ray, rivolgendosi alla stanza buia e silenziosa.


Raggiunsero in autobus la provincia settentrionale del Para e si fermarono una notte a Campo Alegre, sul fiume Araguaia. Era una vecchia città, con un’economia basata principalmente sull’allevamento del bestiame, organizzata in cooperative. La loro sistemazione era primitiva e il puzzo del macello poco lontano ricordava a Keller la prima impressione che aveva avuto da Cuiaba. Si fermarono in un vecchio albergo del ventesimo secolo, frequentato da tetri agenti di commercio che si occupavano dell’esportazione della carne. Sbalordirono l’addetto alla ricezione pagando in contanti. Male, disse Byron, il contante dava nell’occhio. Ma finché non riuscivano a procurarsi qualche carta di credito al mercato nero, non potevano fare altrimenti.

Teresa comperò qualche indumento più consono alla foggia locale e una borsa nella quale nascondere la pietra esotica. Ray aveva osservato il modo in cui se la portava dietro, con cura esagerata e l’evidente desiderio di usarla al più presto. Un desiderio appena smorzato dalla paura. Ciò che Teresa chiedeva alla pietra, aveva capito, era un aiuto per ritrovare la memoria. Gli sembrava pericolosa e ingenua l’idea che la memoria fosse in grado di dare un nuovo significato alla sua vita, come se fosse stata un tesoro sepolto.

Lui sapeva tutto sulla memoria. Ed era sicuro che non fosse affatto un tesoro. Anzi, il vero tesoro era l’oblio. Ma dov’era la pietra, la droga, la pillola o la polvere che poteva operare una così grande magia?

Teresa si ritirò nel minuscolo stanzino per la doccia e lasciò Byron e Keller da soli in camera. Fino a quel momento Byron era rimasto alla finestra, con gli occhi fissi sulle acque gonfie dell’Araguaia. Adesso, mentre lo scroscio costante dell’acqua riempiva il silenzio della stanza, si volse all’improvviso verso Keller.

— So che cosa sta succedendo — dichiarò.

L’altro lo fissò senza parlare.

— Non è certo un segreto — continuò Byron. — Cristo, Ray. Non sono cieco. E nemmeno sordo. — Raddrizzò le spalle, e quel gesto di grande dignità tradì tutto il suo dolore. — Non è difficile capire. E non è detto che io disapprovi. Se lei è felice, per me va bene. Se tu non la stai usando, intendo dire. Il punto è questo: non voglio che tu le faccia del male.

— Ascolta, io… — incominciò a dire Keller.

— Credi che sia facile per me? — l’interruppe Byron, in tono convulso. — Ero anch’io come te, ricordi? So che cosa vuol dire. Ero un buon Angelo. Facevo il mio lavoro con passione. Poi tornai dalla guerra e mi fece disconnettere i fili. Fai pure quei gesti, come per dire che hai capito, che io sono tornato alla vita normale… Ma non è così semplice. Ci si porta dietro tutto, nella vita. Non è solo una faccenda fisica. Se vuoi davvero tornare nel mondo devi andarlo a cercare, riprenderne possesso. Devi avere qualcosa per cui valga la pena di provarci. — Sospirò a fondo, prima di riprendere a parlare.

— Io avevo lei. Non era una semplice infatuazione, ma molto di più. Forse era amore vero. Probabilmente lo è ancora. Lei rappresentava il mio biglietto di ritorno per il mondo. Sai come succede, la gente scopre che sei stato un Angelo e comincia a trattarti in modo diverso. Come se tu fossi uno zombie, un morto vivente. A volte non mi interessa che la gente lo pensi, a volte sono io stesso a incoraggiarla. Non fa sempre male, trovarsi in un mondo a parte. Ma non voglio che sia realmente così. Mi capisci? Lei era il mio modo di dimostrare che non era vero. Le ho voluto bene abbastanza da salvarle la vita, o da accompagnarla fin qui. Conosco il sentimento che lei prova per me. Non è amore. Ma non mi interessa. L’importante è che io ami lei, e che abbia continuato ad amarla anche quando è andata a letto con altri. Anche adesso che si sta palesemente innamorando di te. Ciò che importa è il mio amore. — Aveva i pugni stretti e il viso rivolto alla finestra.

— Immagino che per te sia difficile capirmi — continuò. — Il tuo impianto funziona ancora. Il Palazzo di Ghiaccio ti mette al riparo da tutto, anche se con ogni probabilità sei convinto del contrario. Puoi guardare Teresa dall’alto del tuo castello sicuro, e puoi addirittura permetterti il lusso di innamorarti un po’. Bel coraggio! I miei fili non ci sono più, Ray. Qui sta la differenza. Io non sono più una macchina. Sono un essere umano, oppure una nullità. Sono una macchina guasta. Per questo l’amo. Se lei mi ricambia, tanto meglio, è il massimo che possa sperare, ma anche se non mi ama, se mi fa stare male, io continuerò a lasciarla fare, perché solo così sarò sicuro di essere davvero tornato dalla guerra, di essere di nuovo nel mondo, di respirare… — Premette i pugni contro i braccioli della poltroncina. — Di essere fatto di carne e di sangue.

Keller continuò a fissarlo in silenzio.

Byron scrollò la testa. — È difficile parlare con te, a volte.

Nella doccia, l’acqua smise di scrosciare e le ultime gocce scivolarono lentamente verso il basso. Teresa canticchiava.

— Non farle del male — ripeté Byron con dolcezza. — È l’unica cosa che ti chiedo.


Arrivarono a Belem, un porto internazionale nelle ampie foci del Rio delle Amazzoni, dove Byron conosceva un americano espatriato che forse poteva aiutarli a uscire dal Brasile, e dove Keller fece l’amore con Teresa per la prima volta.

Avevano preso alloggio in una stanza d’albergo simile a quelle di Sinop o di Campo Alegre. La stanza si trovava in un bell’edificio in mattoni e si affacciava su un mercato di pesce chiamato Ver-o-Peso. Byron passò la maggior parte del tempo sulle banchine del porto, cercando di contattare il suo vecchio amico dell’esercito, e per parecchi pomeriggi Ray si ritrovò solo in camera con Teresa.

Fecero l’amore con le tende tirate. Cominciò a piovere e l’acqua attuti i rumori del traffico. Teresa gemette una volta, come se il semplice atto d’amore le avesse liberato dentro qualche brandello di memoria.

Era passato molto tempo dall’ultima volta che Ray aveva fatto l’amore con una donna di cui gli importava. Si accorse, seppure in modo remoto, che qualcosa si muoveva dentro di lui, che qualche sinapsi abbandonata riprendeva vita. Immaginò la rete di fili nella sua testa come una cartina stradale in cui giungle neutrali, dimenticate per anni, si illuminavano all’improvviso. Era una specie di peccato, pensò, ma si abbandonò senza ripensamenti al suo sentimento per Teresa, alla gioia di fare l’amore con lei. Sapeva che non avrebbe mai decodificato quella scena dalla memoria AV, per cui gli sembrava quasi di avere dei dubbi sulla sua esistenza. Un’esperienza condivisa da loro due, destinata a rimanere solo nella memoria di lei e nella sua. Memoria umana, si disse, volubile e poco affidabile. Ma ne avrebbe custodito il ricordo con cura. Adhyasa, il peccato dell’Angelo. Ma l’avrebbe tenuto stretto dentro di sé.

Dopo, rimasero abbracciati in silenzio.

La pioggia aveva sollevato un velo di umidità e la pelle di Teresa sembrava febbricitante accanto alla sua. Lei teneva gli occhi ostinatamente chiusi. La tensione degli ultimi giorni, pensò Keller, il viaggio da Pau Seco. E non solo quello.

— Non è solo dell’Organizzazione che hai paura — le disse.

Lei scrollò la testa.

— La pietra, allora?

— È strano — rispose Teresa. — Desideri qualcosa per tanto tempo, e poi… la tieni tra le mani e pensi "che cos’è?" "Che cosa ha a che fare con me?" — Si rizzò a sedere, scostando le lenzuola spiegazzate.

— Forse non ne hai davvero bisogno — suggerì Ray.

I capelli le si rovesciarono sulla spalla e sfiorarono il viso di lui. — Ne ho bisogno, credimi. I sogni… — Quel pensiero ne generò un altro.

La pioggia batteva contro il telaio troppo vecchio della finestra. Teresa si alzò e fissò da lontano la borsa in cui teneva nascosta la pietra. Keller provò una grande paura per lei. Non c’era modo di sapere che cosa poteva contenere la pietra.

— Cerca di avere pazienza — le disse. — Se torneremo nella Città Galleggiante, se tutto si sistemerà…

— No — replicò lei, risoluta, nel buio. — No, Ray. Non voglio aspettare.

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