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Teresa fece di nuovo ricorso alle pillole quando il sole stava abbassandosi sull’orizzonte.

Era salita sul letto della balsa con le pillole in tasca, ma senza una vera intenzione di usarle. Il desiderio non era mai così esplicito. Le teneva di riserva ed era felice di sentirle a portata di mano. Indossava un maglione perché l’inverno era ormai alle porte. Le giornate erano diventate più corte e più fredde.

Si sdraiò sul tetto metallico, con la schiena appoggiata a uno scambiatore di calore, ad ascoltare il rumore ritmato delle pompe di sentina e a guardare il cielo che si tingeva di rosso.

Tolse di tasca una manciata di pillole e le guardò.

Erano piccole, nere, anonime e vagamente resinose. Sordide, in qualche modo. Forse le avevano preparate artigianalmente in un laboratorio della Città Galleggiante, per poi stamparle in un torchio primitivo e infine venderle furtivamente a chi era ormai assuefatto. Come lei.

Sentiva di averne bisogno. Non era una faccenda di autocommiserazione. Era come se la visione traumatica provocatale dalla pietra nella stanza sul Ver-o-Peso le avesse riaperto vecchie ferite: aveva bisogno di un anestetico. Aveva sognato spesso la bambina, sentendola sempre di più come una presenza concreta, piena di rimproveri e di aspettative. Anche in quel momento, per esempio. La bambina pretendeva che lei gettasse via le pillole. La sua era una voce reale, lontana ma distinta.

Io ti ho salvato la vita.

Il che era assurdo.

Tu saresti morta nell’incendio. Volevi morire. Io ti ho salvato la vita.

Misteriosamente, lei era diventata due persone diverse.

Io ti ho salvato la vita. Tu prendevi le pillole e io facevo le sculture. Tu le vendevi…

No, pensò Teresa.

Mise alcune pillole in bocca e le inghiottì di colpo, rischiando di strozzarsi. Troppe, forse. Ma riuscirono a disperdere quella voce.

L’euforia iniziò con un senso di leggerezza che si sprigionava dallo stomaco. Quando la sensazione raggiunse la testa, lei respirò di sollievo. L’euforia la sosteneva perfettamente. Il cielo si era fatto scuro e il vento proveniente dalla diga era gelido, ma Teresa non ci fece caso. Si strinse nel maglione e si appoggiò all’indietro, respirando a fondo, con regolarità. Dappertutto cominciavano ad accendersi le lanterne e dai canali si alzava la prima nebbia.

Era quasi in stato di incoscienza quando udì Byron rientrare, accolto dalle domande concitate di Wexler. Teresa pensò che probabilmente non sapevano che lei fosse così vicina e paragonò il loro dialogo a un duetto di strumenti scordati. Il suono sconsolato, triste e rassegnato delle loro voci le sembrò quasi buffo. Chiuse gli occhi e rimase in ascolto, distinguendo in lontananza il grido dei gabbiani in cerca di un nido. Sotto la luna piena, la marea premeva contro le pareti della diga e l’acqua che sgorgava dai canali di sfogo generava un dondolio lieve e pulsante. La balsa la cullava dolcemente. Sospirò, sola nella splendente oscurità. Le voci si erano zittite, pensò. Che silenzio meraviglioso!

Ma improvvisamente, come risvegliata da un misterioso campanello d’allarme, si rizzò a sedere e vide un uomo solitario che si avvicinava lungo la passerella.

Non si era accorta che fosse tanto tardi. La maggior parte delle barche era già immersa nel buio, e in lontananza si intravedeva il chiarore di qualche discoteca galleggiante. L’uomo camminava adagio, con aria estremamente vigile. Costeggiò la balsa, poi si fermò. Teresa, dalla sua postazione sul tetto, si ritrasse per non essere vista.

La morte alla porta, passò.

Era una strana idea, ma Teresa la considerò con calma. La morte le era sempre stata molto vicina, fin dall’epoca dell’incendio, tanti anni prima. Lei l’aveva corteggiata, aveva tentato di sedurla. Se mai, era strano che si fosse fatta attendere così a lungo.

L’ascoltò bussare.

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