13

Keller si recò con Byron in un caffè sul porto del Rio delle Amazzoni, dove secondo gli accordi avrebbero dovuto incontrare un americano che poteva aiutarli a lasciare il Brasile.

Il Rio delle Amazzoni era così vasto da assomigliare al mare. L’acqua era gonfia e marrone; le navi ancorate parevano adatte ad attraversare anche l’oceano. Keller ordinò un tucupi e osservò un motopeschereccio israeliano staccarsi dall’orizzonte, con i radar e i pannelli solari stagliati contro il bordo del cielo. L’uomo atteso da Byron arrivò poco prima che il motopeschereccio arrivasse in porto. Era un veterano con i capelli tagliati a spazzola e un paio di occhi luminosi, quasi febbricitanti. Strinse la mano a Keller ma si ritirò di colpo quando Byron lo presentò con il suo nome, Denny.

— Credevo che fosse un colloquio strettamente riservato — osservò.

Byron guardò Keller. Keller annuì, mise sul tavolo i soldi per il tucupi e andò a fare una passeggiata lungo la strada del porto.

Si fermò ad osservare alcuni stivatori brasiliani che scaricavano un peschereccio. Sulla fiancata dell’imbarcazione spiccava il nome dipinto a lettere bianche, Esperance. Speranza, pensò Keller. Un bene di cui erano un po’ a corto, ultimamente. Teresa aveva preferito restare in albergo, con la scusa che aveva bisogno di stare un po’ da sola. Lui continuava a chiedersi se aveva fatto bene a lasciarla.

Teresa era tentata dalla pietra. Si trovavano a Belem ormai da una settimana, e Ray aveva osservato il nervoso balletto di attrazione e paura che lei aveva danzato attorno all’oneirolita. Naturalmente sarebbe stato meglio lasciarlo perdere finché non avessero raggiunto un posto più sicuro. Ma Teresa se ne sentiva attratta, e non lo nascondeva. Desiderio e paura. Paura ed esperance.

Inoltre, era preoccupato per il tempo che stavano perdendo in quella città. Erano in fuga, anche se era facile dimenticarsene o ignorarlo. Più a lungo rimanevano fermi nello stesso posto e più diventavano localizzabili. E, peggio ancora, le loro prospettive non erano affatto rosee. Byron aveva già tentato due volte di assicurarsi un passaggio aereo clandestino in uscita dal Brasile. Entrambe le volte l’accordo era saltato. Denny era l’ultima speranza, un amico di un amico, probabilmente a sua volta un contrabbandiere; ma questo a Belem non era un demerito. La città e il porto brulicavano di stranieri e di gente di passaggio, e Keller si consolò pensando che non era un male, considerata la situazione. Lì, in ogni caso, tre americani indigenti potevano anche non dare nell’occhio.

Ma, era pur conscio delle forze che erano state scatenate contro di loro, ed era ormai abbastanza lontano dalla pratica del wu-nien per preoccuparsi soprattutto di Teresa.

Guardò il caffè e scorse Byron che gli faceva cenno di tornare. Denny se n’era andato. La trattativa era stata breve.

Keller si avviò stancamente lungo la strada pavimentata a ciottoli. — È fatta?

Byron scrollò la testa. — Ha promesso che ci chiamerà.

Camminarono in silenzio fino all’albergo sul Ver-o-Peso. Byron bussò alla porta della stanza e, visto che non otteneva risposta, infilò la chiave nella serratura. Il meccanismo scattò e la porta si aprì. Byron esitò sulla soglia. Ray, ansioso, lo spinse da parte per entrare.

Teresa giaceva rannicchiata sul pavimento, e teneva la pietra stretta con entrambe le mani.


Era ormai sprofondata nel sogno.

Sembrava tutto molto più vivido di quanto non fosse mai stato. Il sogno la circondava come un oceano e allo stesso tempo lei lo conteneva, in un abbraccio di conoscenza. Sapeva più cose di quante non ne avesse mai sapute.

Una sovrabbondanza di domande. E anche di risposte.

Voleva saperne di più sul popolo azzurro con le ali. Sotto molti aspetti le sembravano familiari, quasi umani. Ebbe modo di approfondire la loro storia con una semplice occhiata, di ricordarla, e le analogie la sorpresero. Come gli esseri umani, anch’essi rappresentavano la specie evoluta di creature che nella loro preistoria erano vissute sugli alberi. Avevano pollici opponibili, un’ampia capacità cranica, una vasta gamma di culture e di lingue. Erano passati attraverso tecnologie simili a quelle umane: selce, fuoco, agricoltura, ferro. Teresa apprese tutto all’istante e senza il minimo sforzo.

Così umani, pensò. Eppure…

La loro storia era stranamente pacifica. Avevano avuto guerre, ma molto più brevi e sporadiche di quelle umane. Le loro religioni erano più contemplative che militanti. Erano panteisti e adoravano la natura. Avevano inventato molto presto il linguaggio scritto e altrettanto in fretta avevano sviluppato una letteratura universale. Avevano imparato a usare rudimentali macchine per la stampa fin dall’Era del Bronzo.

Erano imbattibili, se non addirittura geniali, in tutto ciò che riguardava la tecnologia dell’informazione. Dai libri a circuito binario erano giunti alle memorie molecolari e poi a sistemi di archiviazione e di ripristino così sofisticati e immediati che lei non riuscì a comprenderli nemmeno vagamente. Capì, comunque, che gli oneiroliti erano il prodotto di quell’evoluzione, la realizzazione finale e più completa.

Le pietre erano molto più di ciò che sembravano. Avevano una topologia complessa e segreta e ciascuna era legata alle altre, ne rifletteva il contenuto e possedeva una collocazione specifica nella geometria della conoscenza… e il loro compito era tanto semplice da sembrare ridicolo.

Le pietre ricordavano.

Contenevano il passato, oppure erano una specie di passaporto per raggiungerlo: la distinzione era andata perduta. Erano al tempo stessa testi di storia e macchine per il tempo, limitate solo da una specie di effetto di vicinanza. La pietra di Pau Seco conteneva quasi tutta la storia degli Esotici e gran parte della storia moderna della Terra. Oltre questi limiti non poteva andare, ma era già abbastanza.

I ricordi più vecchi risultavano annebbiati. Teresa poté vedere il popolo azzurro con maggior nitidezza nel momento del loro massimo splendore, in un mondo così strano da sfidare la sua capacità di comprensione. Avevano esteso il proprio dominio fino ai margini del sistema planetario in cui vivevano, colonizzando anche il freddo anello di polvere e pietre che ne segnava l’estremo avamposto. Proprio lì avevano costruito i giganteschi e delicati veicoli interstellari, capaci di viaggiare nello spaziò battendo le ali come farfalle. I piloti di quei vascelli erano intelligenze immortali e binarie indifferenti al passare del tempo, e create a immagine e somiglianza delle creature da cui, in un certo senso, discendevano. Nella loro diaspora, le navi a farfalla si erano imbattute in molti più mondi deserti di quanti a Teresa importasse conoscere. Una delle navi aveva avvistato la Terra, nel periodo in cui la dinastia Chou stava succedendo a quella Shang e gli Assiri marciavano su Babilonia. All’epoca, alcune tribù neolitiche americane avevano scorto la nave nella sua orbita polare ellittica e l’avevano scambiata per una stella multicolore. Gli osservatori babilonesi si erano preoccupati, e quelli cinesi si erano trovati nel posto sbagliato. Era un mondo molto diviso e primitivo. Lo è ancora, pensò Teresa. Tuttavia, gli Esotici ritennero che fosse degno del loro dono, perché di un dono si trattava. Saggiamente, scelsero di depositarlo nelle viscere del Mato Grosso, in un luogo allora disabitato e senza nome. Un giardino adeguato per l’albero della conoscenza.

Poi se ne andarono, scomparendo dal campo conoscitivo di Teresa.

Lei aveva già visto alcune di quelle immagini in precedenza, molto più confuse e caotiche, ma le erano sembrate solo visioni frammentarie, probabilmente per colpa di una pietra meno raffinata. Ora ne rimase affascinata. Le pietre, ne dedusse, erano magneti di conoscenza. Assorbivano e registravano ogni minima traccia di esperienza, anche a distanza, senza contatto diretto, automaticamente, in virtù di un meccanismo che andava al di là delle sue capacità di comprensione. La vita, pensò. Le pietre registravano e archiviavano lo scorrere della vita.

E così, contenevano anche il passato umano. Una Babele di lingue, di costumi, di battaglie, di nascite sanguinarie e di morti premature. Lei avrebbe potuto approfondire a volontà qualunque parte della storia umana, e l’idea le dava le vertigini. Avrebbe potuto vivere per un attimo accanto ad Aristotele o ad Hammurabi, o a uno qualunque dei milioni e milioni di uomini passati sulla Terra senza lasciare traccia. Ma non era il momento. L’avrebbe fatto più tardi. Ora le bastava sapere che erano tutti conservati lì dentro, che in qualche modo non erano morti. Per il momento preferiva mantenersi al di sopra di tutto, cogliere l’insieme, percepire l’umanità come una singola creatura, una voce unica, un fiume.

La contemplò per un tempo che le parve infinito, e avrebbe continuato a contemplarla, rapita, se non fosse stato per quella voce che la chiamava con insistenza.

Sono qui, diceva. Era fievole e lontana, ma terribilmente persistente. Sono qui da sempre.

La riportò giù. Lei gemette, spaventata.


Teresa si lasciò sfuggire un gemito. Keller si chinò su di lei, preoccupato.

— Non toccarla — lo ammonì Byron.

Ma lei tremava, rannicchiata in posizione fetale, con la pietra stretta contro di sé. Forse provava dolore, pensò Ray. Oppure il sogno era insopportabile.

— Lasciala stare — ripeté Byron. — Non puoi fare niente per lei.

— Sta soffrendo.

— Ne uscirà.

— Come lo sai? — Keller si accorse di essere prossimo al panico. Wu-nien, pensò. Ma la capacità di controllo l’aveva ormai abbandonato. — Non è come le altre volte. Questa è una pietra diversa.

— Sapeva quello che faceva.

Lei rabbrividì sul pavimento, con gli occhi ostinatamente chiusi. Sembrava persa, pensò Keller. Magari caduta negli abissi dell’inconscio. Lui ebbe voglia di scrollarla.

Byron mise una mano sulla sua, per trattenerlo. Ma in quel momento squillò il telefono. — Lascia stare — disse Byron, voltandosi. La rete video dei telefoni era saltata anni prima, Byron fissò il monitor vuoto.

Ray tornò a occuparsi di Teresa. Prese una coperta dal letto e gliela stese addosso. Lei aprì la bocca e si lasciò sfuggire un breve grido strozzato.

I ricordi, pensò Keller impotente.

Lui ne sapeva qualcosa. Avrebbe dovuto dirglielo.


Vide la bambina.

Viveva in una baracca galleggiante, vicino al margine estremo della darsena, in un punto da cui non era possibile vedere la terraferma. Ora sapeva molte cose su di lei. Cose che non aveva potuto conoscere prima.

La bambina era brava. E obbediente. Viveva con la madre e parlava un buon inglese, non il dialetto spagnolo delle sue compagne di giochi. Aveva imparato a leggere in una scuola pubblica, ricavata in un granaio abbandonato che dai suoi trampoli di cemento dominava il ghetto galleggiante. Era una bambina allegra e spensierata, ignara della propria condizione di povertà. Se ne accorse solo quando smisero di arrivare gli assegni del governo e quando gli sportelli automatici delle banche dovettero chiudere in seguito ai disordini. Allora cominciò a sentire la fame. Si spaventò e divenne irritabile. Ma alla fine il cibo tornò e lei imparò presto a sopportare quei saltuari digiuni: aveva fiducia che prima o poi sarebbero terminati.

Divenne molto orgogliosa delle proprie buone qualità, tanto che a volte qualche amica se ne sentiva urtata, il che incoraggiò la sua diffidenza. Eppure sapeva, pur senza conoscere le parole giuste, che non si trattava di presunzione o di pedanteria. Le doti che sua madre cercava di sviluppare in lei erano soprattutto quelle utili alla sopravvivenza. E la sopravvivenza era tutt’altro che assicurata. Anche troppo spesso era stata testimone dei guai capitati ai suoi piccoli amici. Alcuni erano morti di malattia, altri erano finiti in orfanatrofio e altri ancora avevano semplicemente traslocato, ma per lei era come se fossero morti perché non possedeva ancora la nozione del mondo esterno. Accettava quelle verità con la rassegnazione tipica solo dei giovanissimi e si sottometteva senza discutere alle regole di educazione e di virtù dettate da sua madre. Era, insomma, una brava bambina.

Sempre per le stesse ragioni, non le sembrava strano non avere un padre. Una volta l’aveva avuto. Sua madre gliene parlava spesso. Suo padre era stato un uomo saggio e coraggioso, che era morto nel tentativo di attraversare con la famiglia il confine messicano, quando lei era ancora in fasce. Avevano avuto una posizione sociale rispettabile, in Messico. Suo padre era avvocato. Durante le purghe di Aguilar, negli anni Trenta, tutti coloro che avevano a che fare con i tribunali erano stati di colpo considerati nemici. E così loro erano dovuti scappare. Purtroppo Aguilar era un fedele amico degli Stati Uniti e quindi il confine era stato chiuso, anche ai rispettabili avvocati con famiglia. Avevano tentato l’espatrio con altri trenta disperati, uomini e donne, disposti ad attraversare di corsa il brandello di deserto che segnava il confine tra le due nazioni, sfidando il filo spinato, i rivelatori a raggi infrarossi, e la sorveglianza via satellite. La bambina era troppo piccola per ricordare quell’episodio, ma lo aveva sentito raccontare molte volte. Era una specie di leggenda, un mito intrepido e coraggioso. Molti profughi erano stati falciati dal fuoco delle armi automatiche, e tra questi anche suo padre. Sua madre aveva continuato ad avanzare, troppo atterrita per provare dolore. Il dolore, naturalmente, era venuto più tardi. Molti dei fuggiaschi erano stati catturati e deportati, alcuni erano riusciti a nascondersi nel ghetto spagnolo vicino al confine. La bambina e sua madre avevano fatto parte della minoranza più fortunata.

Non avevano abbastanza denaro per comperare documenti falsi al mercato nero e rifarsi una vita tra gli americani. Però potevano permettersi di raggiungere la Città Galleggiante, dove non c’erano leggi ed era possibile trascorrere una vita tranquilla nell’ombra. Non sarebbero rientrate nella legalità, ma almeno sarebbero sfuggite ai capricci del regime di Aguilar.

La bambina non poteva ricordare suo padre se non attraverso quei racconti, ma la sua assenza non le sembrò mai strana. Fino a quando sua madre non portò a casa un altro uomo.

Lei aveva dieci anni, e ne rimase offesa. Lesse una certa espressione colpevole negli occhi della madre e se ne sentì irritata e impaurita. Era troppo piccola per capire i conflitti di sentimenti nel cuore degli adulti, la paura della vecchiaia e della morte. Ma era abbastanza grande per sentirsi tradita. Non lo meritava. Perché lei era una brava bambina.

Odiò quell’uomo fin dal primo giorno. Lui si chiamava Carlos e lavorava all’imbarcadero, dove sua madre svolgeva qualche lavoro saltuario. Incontrandola per la prima volta, Carlos si chinò, le mise la sua grossa mano sulla spalla e le disse che aveva incontrato sua madre al lavoro. — È un’ottima lavoratrice — dichiarò. Si raddrizzò, sogghignò in modo volgare e diede alla donna una pacca sul sedere. — Eh? Fa sempre quello che le si chiede.

Sconvolta, la bambina vide per la prima volta sua madre come un’entità separata, una donna adulta con una vita propria. Non disse nulla, e rimase impassibile tenendosi forte al tavolo della cucina. Dentro, si sentiva piena di ribellione. Tutto le sembrò di colpo terribilmente squallido, dalle mattonelle sbrecciate sotto i piedi all’aspetto trasandato della baracca dove abitavano. La pentola di fagioli sul fornello diffondeva in tutta la stanza un odore greve e fumoso. E Carlos continuava a sorriderle, sprigionando dai pori dilatati sudore e falsità. I suoi denti erano scheggiati e appuntiti, il suo alito puzzava di cibo guasto.

Non era un avvocato.

Si trasferì da loro. La bambina non fu consultata, in proposito. Carlos si trasferì da loro e riempì la baracca con la sua presenza ingombrante. Occupava molto più spazio di un uomo normale. Inciampava dappertutto. Beveva, sebbene non in modo esagerato, all’inizio. Le sue grosse mani si muovevano sul corpo di sua madre con aggressiva familiarità, e lei lo accettava senza proteste né incoraggiamenti. Le pareti che dividevano le due stanze erano abbastanza sottili da non lasciare dubbi su quello che succedeva di notte nel loro letto. Sesso, pensava la bambina, un crescendo di grugniti e di gemiti. Indescrivibile. Quando succedeva, lei nascondeva la faccia e si copriva le orecchie. Al mattino Carlos la guardava sogghignando e bisbigliava: — Come hai dormito, piccola? C’era troppo baccano per i tuoi gusti? — E rideva di quella risata terribile e segreta che nasceva nel fondo della gola.

Un giorno, mentre Carlos era al lavoro, la bambina trovò il coraggio di chiedere alla madre perché gli avesse permesso di trasferirsi da loro. Il tono di rimprovero nella sua voce era evidente, tanto che la madre la schiaffeggiò. Lei spalancò la bocca e alzò una mano per tastarsi la faccia. Aveva la guancia in fiamme.

Sua madre arrossì. — Non siamo nella posizione di scegliere — dichiarò, quasi con rabbia. — Guardami! Sono giovane? Sono graziosa? Guardami! Sono forse ricca?

La bambina si rese conto per la prima volta che lei non possedeva nessuna di quelle qualità.

— Lui porta del denaro. Forse tu non sai che cosa vuol dire. Non guardi nel piatto quando mangi, e invece dovresti farlo. C’è dentro della carne. Carne, capisci? E verdura fresca. Hai dei vestiti. Non soffri la fame.

Dunque siamo povere, pensò la bambina. Carlos era la maledizione della loro povertà.

Le nuove scoperte la disorientarono, spaventandola.

Eppure avrebbe potuto ancora adattarsi. Ma proprio allora l’atteggiamento di Carlos cominciò a cambiare. Per quanto fosse già sgradevole, diventò addirittura peggiore. L’abuso di alcolici s’intensificò. La madre confidò alla bambina che l’uomo non andava d’accordo con il caposquadra e iniziava ad avere problemi sul lavoro. Certe notti, i grugniti e i gemiti nella stanza accanto si concludevano con una serie di imprecazioni soffocate. Le mattine successive Carlos faceva colazione con espressione torva, senza scherzare. Le occasionali effusioni rivolte a sua madre divennero sempre più aggressive. Carlos la trattava con così scarsa delicatezza da sembrare un orso. E assomigliò sempre di più, con il passare del tempo, a un grosso e rabbioso animale chiuso in gabbia. Purtroppo, la gabbia era estremamente fragile. Le sue sbarre potevano saltare da un momento all’altro. Lei non voleva pensarci.

Carlos cominciò a toccarla più spesso.

All’inizio, lei accettò la cosa nello stesso modo in cui l’accettava sua madre, con rassegnazione. Sentiva lo sguardo di sua madre su di sé, quando Carlos la prendeva sulle ginocchia per accarezzarla. Lui aveva delle mani enormi, simili ad animali senza pelo, o a delle talpe. Si muovevano a caso, secondo il proprio capriccio. La toccavano e l’accarezzavano. Generalmente, dopo che lei aveva sopportato per un po’, l’uomo si alzava di colpo, la guardava con rabbia come se avesse fatto qualcosa di male, e poi portava sua madre nell’altra stanza.

Sua madre se ne scusò, un giorno. Erano sole. La baracca galleggiante ondeggiava dolcemente, la pioggia batteva contro il tetto e le pompe di sentina brontolavano sotto il pavimento. — Mi dispiace — disse sua madre. — Non mi aspettavo che succedesse…

La bambina sentì crescere in lei un’ondata di collera, immensa e inaspettata. — Allora fallo andare via! — Rimase stupita delle sue stesse lacrime. — Digli di andarsene!

Sua madre l’abbracciò e cercò di confortarla. — Non è così facile. Vorrei che lo fosse. Mi dispiace, davvero. È difficile stare da soli, anche se tu non lo capisci. È stato molto difficile per me. Pensavo che lui ci avrebbe aiutate. Ne ero convinta. — Le accarezzò i capelli. — Pensavo che ci avrebbe voluto bene.

Quella sera, quando Carlos cominciò a toccarla, sua madre le disse di andare nella sua camera. Attraverso la porta lei udì le voci dei due adulti alzarsi di tono. Si sentì il rumore di una zuffa e infine la porta sbatté forte. Lei attese in silenzio, ma non udì nessun altro rumore. Aveva paura di andare a vedere. Alla fine si addormentò, tremando nel sonno.

Il mattino dopo Carlos la guardò con aria minacciosa e lasciò la baracca senza parlare. Sua madre aveva un grosso livido sulla guancia. Ogni tanto se lo toccava, quasi con meraviglia, come se fosse spuntato per magia. La sua faccia, con l’aggiunta del livido, sembrava terribilmente invecchiata. La bambina la guardò con aria sconcertata. Da quanto tempo sua madre aveva tutte quelle rughe attorno agli occhi? Da quanto tempo la sua pelle era diventata crespa e avvizzita sotto la gola?

Adesso era lei a sentire il dovere di scusarsi. Ma la stanza era appesantita da un silenzio greve e lei non sapeva bene come cominciare. Fu un disastro, fin dalla prima parola.

Mama, mi dispiace…

— Ti dispiace! — Sua madre si voltò verso di lei. Alcune gocce di grasso schizzarono dai fornelli e macchiarono sfrigolando il pavimento. — Ti dispiace! Mio Dio! Se non fosse stato per te…

Si portò la mano alla bocca, ma ormai era troppo tardi. La frase le era sfuggita e la bambina la tenne bene a mente. Le parole erano come carboni ardenti: non si poteva toccarli, eppure destavano un grande interesse. Lei ne rimase al tempo stesso colpita e curiosamente compiaciuta. Compiaciuta, perché finalmente cominciava a capire qualcosa. Era così semplice! Ora tutto si spiegava. Si spiegavano le occhiate strane che Carlos le aveva rivolto, e anche il livido sulla guancia di sua madre. Lei ne era la causa. Si trovava al centro della tempesta. Lei aveva tentato Carlos in qualche modo, lo aveva sedotto senza volerlo. Di certo non lo aveva programmato. Eppure lo aveva tentato, e Carlos aveva sfogato la propria rabbia e la propria frustrazione nell’unico modo che conosceva, prendendosela con sua madre. A letto. E a pugni.

La bambina si disse che quella era una riflessione ormai adulta, di cui doveva essere orgogliosa. Non era più una bambina.

Capì anche che non era poi così brava, dopotutto.


Byron si chinò verso il monitor del telefono, assorto. Keller non riusciva a staccare gli occhi da Teresa. Non l’aveva mai vista così. I suoi occhi si muovevano incessantemente sotto le palpebre chiuse e le lacrime le rigavano le guance.

Era sconvolgente. Doveva fare qualcosa. Non poteva lasciare che le succedesse una cosa simile.

Se qualcuno è in pericolo bisogna aiutarlo, pensò sopraffatto dall’angoscia. Lo aveva imparato. Molto tempo prima.

Byron distolse l’attenzione dal telefono e si girò. — Non farlo, Ray…

Ma Keller aveva già steso le mani verso di lei.


L’incendio ebbe origine in un deposito di carburante vicino alla parete della diga.

In seguito, la gente disse che era stato inevitabile. La Città Galleggiante era dotata solo delle strutture pubbliche più elementari. Non esistevano piani regolatori, né regolamenti edilizi, né commissioni di sicurezza. Era una città di legno e cartone. In alcuni punti, il carburante fuoriuscito aveva coperto completamente l’acqua tra le fabbriche e le barche da abitazione. L’incendio cominciò come un banale incidente industriale causato da una torcia all’acetilene. In breve, divenne qualcosa di terrificante.

Quel giorno, la bambina si trovava a casa. Carlos era al lavoro e sua madre riparava l’intonaco della cucina. C’era il sole. Lei salì sul tetto in lamiera della baracca e rimase sorpresa nel vedere un pennacchio di fumo spuntare a nord, dalle parti della diga, che insudiciava la cupola azzurra del cielo. Il pennacchio sembrava perfettamente verticale; in realtà, il vento lo spingeva esattamente nella sua direzione.

Lei ne rimase affascinata.

Restò a guardarlo per un po’, canticchiando piano, accarezzata dai raggi del sole. Il pennacchio di fumo a poco a poco si allargò e divenne quasi un muro, un’accozzaglia di nuvole che oscurarono il cielo. Mettendosi in punta di piedi, a lei parve di vedere addirittura le fiamme, ancora molto lontane, che si alzavano dalle baracche galleggianti parecchi chilometri più in là.

Poco prima di mezzogiorno cominciò a cadere una sottile pioggia di cenere.

Sua madre la chiamò, e dato che lei non rispondeva, salì la scala che portava al tetto. — Santo cielo, tesoro! Pensavo che ti fossi persa. Pensavo…

— Guarda — la interruppe lei. — Un incendio.

Sua madre rimase immobile per un attimo, con il grembiule macchiato mosso dal vento, che nel frattempo era diventato sempre più forte e secco. Poi si fece il segno della croce in silenzio e strinse la mano bruna sul braccio della figlia. Quando parlò, la sua voce era priva di espressione. — Vieni ad aiutarmi.

Mentre scendevano, un elicottero della Città di Los Angeles passò con fragore sopra la loro testa, dirigendosi verso il fuoco. Virò e rimase sospeso nel cielo per qualche secondo.

La bambina avvertì il primo brivido di paura.

Sua madre borbottava qualcosa tra sé. Cominciò a muoversi a grandi passi sulle mattonelle sbrecciate, accatastando di tutto su un lenzuolo, al centro della stanza. Vestiti, documenti della previdenza sociale, cibo in scatola. Sbalordita, la bambina guardò fuori dall’unica finestra. Sui ponti mobili si erano formati capannelli di persone che fissavano con grande apprensione il manto di fumo nero che oscurava ormai completamente il cielo.

Sua madre la tirò via. — Non possiamo più aspettare. — Aveva la voce rotta e si guardava intorno con grande nervosismo. La bambina capì, ed era un’altra intuizione da adulta, che sua madre doveva aver avuto la stessa espressione da animale spaventato al momento di attraversare il confine messicano.

— Lo aspetterei, capisci? Carlos. Ma non c’è più tempo.

Raccolse le quattro cocche del lenzuolo chiudendovi dentro i loro miseri averi e trasportò il fagotto fino alla piccola motolancia ancorata sotto casa. Era poco più di una canoa, con un solo motore avvitato a poppa, e rollò sotto il peso imprevisto. La baracca si affacciava su uno degli affluenti minori di un canale più grande, ma le sue acque di solito tranquille erano già affollate di barche. In alcune, la gente piangeva. La bambina si chiese che cosa fosse quella nuova catastrofe che stava sconvolgendo la sua vita. La cenere volteggiava attorno a lei come neve.

Sua madre la condusse ancora una volta all’interno della baracca. — Guardati attorno — le disse. — Prendi tutto ciò che ti interessa e che puoi trasportare. Fai presto! Poi aiutami a prendere il resto del cibo.

La bambina scelse la vecchia bambola del mercato delle pulci, il primo giocattolo che avesse mai posseduto. Ormai non le era più tanto affezionata, ma le sembrò la cosa più giusta da prendere, in un momento simile. Se la mise sottobraccio, soddisfatta.

Fu allora che Carlos tornò a casa.

Spalancò la porta con una stridula risata da ubriaco. La bambina si nascose d’istinto tra la porta della cucina e la parete. L’odore dell’intonaco fresco le riempì le narici. Chiuse gli occhi e si coprì le orecchie.

Udì tutto comunque.

Carlos aveva lasciato il lavoro molto presto. L’intero turno della mattina era stato soppresso a causa dell’incendio. Dapprima avevano pensato tutti che fosse una sciocchezza, erano andati al bar vicino al margine della darsena e avevano cominciato a bere. Ma l’incendio si era propagato attaccando uno dopo l’altro tutti gli edifici industriali e alla fine fu chiaro che era successo e stava per succedere qualcosa di terribile. A uno a uno gli uomini si erano uniti alla folla che cercava di salvarsi spingendosi a sud. Carlos si era aperto la strada con la bottiglia tra le mani. La bottiglia c’era ancora, ma ormai completamente vuota.

Era ubriaco fradicio e spaventato a morte. La madre della bambina cercò di calmarlo, ma dalla sua voce trapelava una grande paura e Carlos probabilmente se ne accorse. — Andiamocene — suggerì lei. — Possiamo seguire i canali fino alla terraferma. C’è ancora tempo, vedrai.

— I canali sono pieni di gente — replicò Carlos. — Le barche non riescono a muoversi. Vuoi bruciare in mezzo a loro, dannazione?

— Allora possiamo andare a piedi…

— A piedi! Hai dato un’occhiata là fuori? — Carlos agitava la bottiglia senza tregua. — Il fuoco è troppo veloce. Non possiamo fare niente… niente!

Probabilmente aveva ragione, pensò la bambina sentendosi girare la testa. Udiva le grida provenienti dai ponti mobili a poca distanza da loro.

— E allora perché sei tornato qui? — chiese sua madre. — Perché torturarci ancora? — Nella sua voce la paura si mescolava al risentimento. — Vai al diavolo! Io me ne vado! Noi ce ne andiamo!

Ma Carlos urlò che sarebbero morti insieme, perché erano una famiglia e perché lui aveva paura di morire da solo. Poi cominciarono a lottare. La bambina rimase in ascolto, paralizzata dal terrore. Si udì il rumore sordo e terribile dei pugni che affondavano nella carne. Lei non riuscì a trattenersi, e uscì da dietro la porta.

Sua madre gridava, con la faccia contusa e tumefatta. Carlos l’aveva spinta contro il tavolo della cucina e le aveva scoperto le cosce. L’incendio era ormai vicinissimo, e lui non trovava di meglio da fare che violentarla. La bambina si sentì accecare dall’ira e per un attimo dimenticò le sue paure. — Smettila! — gridò.

Carlos si guardò intorno.

L’alcol e la paura lo avevano reso irriconoscibile. Il suo volto era livido e congestionato. Gli occhi sembravano completamente bianchi. Per un attimo, la bambina fu sopraffatta dalla meraviglia. — Sei tu — disse lui. E si mosse nella sua direzione.

Le sue mani l’afferrarono con violenza. Le strapparono i vestiti. Lei provò una specie di stordimento improvviso, che sembrò estrarla dal suo stesso corpo per permetterle di guardare le cose dall’alto. Uscì da se stessa e vide Carlos, la finestra, il cielo coperto di cenere, tutto con una strana e curiosa indifferenza. Le sue mani erano da biasimare, pensò. Lei lo odiava. Carlos era probabilmente innocente, come aveva detto sua madre. Era colpa sua. Lei lo aveva sedotto. Peggio, aveva sedotto le sue mani.

Non riusciva a vedere chiaramente sua madre, che era caduta sul pavimento, stordita. Non la vide, quindi, nemmeno quando si riscosse e sbatté le palpebre vedendo ciò che succedeva davanti a lei. Non la vide inorridire, né dirigersi inciampando all’armadietto vicino ai fornelli per prendere dal cassetto un lungo coltello. La bambina non era più in grado di rendersi conto di nulla, finché non sentì Carlos rimangiarsi il fiato e irrigidirsi sopra di lei, prima di rotolare via, su un fianco. Il suo sangue, chissà come, le macchiò il vestito. Carlos giacque rantolando, stringendo l’aria con le mani. Sua madre la guardò, con gli occhi di un animale spaventato. — Dio ci aiuti — mormorò. — Vieni via, adesso.

Corsero alla motolancia, ma la pressione delle altre barche l’aveva spinta contro gli ormeggi fino a farla ribaltare con tutto il suo carico. Loro rimasero a fissarla solo per un secondo. Il fuoco era tanto vicino da poterlo annusare. L’aria acre irritava le narici e la gola. Il fumo turbinava giù per il canale tra le barche e sotto i ponti mobili affollati di profughi. Dappertutto c’era gente in fuga. Nessuno sembrava ancora in preda al panico, ma ormai era una questione di minuti. Poi tutti avrebbero cominciato a spingere e a correre. E allora?, si chiese la bambina. E allora?

Sua madre la trascinò avanti. Non avevano niente da trasportare. Tutto ciò che possedevano era andato perduto. Anche Carlos. Se non era già morto, sarebbe sicuramente perito nell’incendio. Una parte di lei esultò, un’altra parte si sentì in colpa per quell’esultanza. Lei era stata l’occasione della sua morte. E, peggio ancora, ne aveva provato piacere.

Viaggiarono per mezzo chilometro verso sud-est, con il fuoco alle spalle. L’incendio era il più vasto che la bambina avesse mai visto e gli elicotteri sembravano incapaci di fronteggiarlo. Poi l’ondata di panico si abbatté sulla folla. Sua madre la sollevò e la portò in braccio per un certo tempo, ma lei era pesante e sua madre non era più abbastanza giovane e sana. Andarono a sbattere contro una barriera di rete metallica. La gente alle loro spalle cominciò a premere finché la barriera non cedette precipitandoli tutti in un canale di scolo. La bambina affondò nell’acqua lurida, e probabilmente sarebbe morta, come credeva di desiderare. Ma era come se fosse diventata due persone diverse. Il suo corpo lottò per risalire in superficie. Le sue gambe si agitarono nell’acqua e i suoi polmoni cercarono l’aria. Continuò a sguazzare, con il fuoco alle spalle. Nuotò alla maniera dei cani lungo il canale costeggiato di cemento e rete metallica, finché non riuscì a issarsi su un ponte mobile, per riprendere fiato.

Si guardò intorno per cercare sua madre, ma non la trovò.

Sua madre e Carlos. Erano morti entrambi.

Per colpa sua. Ovvio.

Anche l’incendio era colpa sua. Probabilmente era stata lei a evocarlo. Troppe volte aveva desiderato che qualche catastrofe cancellasse Carlos dalla faccia della terra e le permettesse di rimanere per sempre nel giardino beato dell’infanzia. E i desideri contano. «Pensaci bene prima di esprimere un desiderio» le diceva sempre sua madre. «Potrebbe avverarsi».

Sentiva in faccia un calore insopportabile e il rumore di centinaia di voci urlanti la stordiva. Si accorse che stava parlando da sola. — Se i desideri fossero cavalli - canticchiò a voce bassa, cantilenante, mentre si univa di nuovo alla folla. — I mendicanti sarebbero cavalieri.

Molte ginocchia la urtavano. Una donna le tirò i capelli per passarle davanti. Ma lei continuò ad avanzare, senza lasciarsi prendere dal panico. Se i desideri fossero cavalli, i mendicanti sarebbero cavalieri. Se i desideri fossero cavalli… Se i desideri…

Camminò finché non perse i sensi, nella colpevole certezza che sarebbe dovuta morire nell’incendio. In un certo senso morì davvero. Tutte le cose che aveva erano morte. Doveva morire anche lei, come Carlos. Come Mama. Si impose di morire. E morì, anche se il suo corpo la salvò dalla spaventosa calca di adulti terrorizzati. Le ore che seguirono si persero nel buio e nella confusione.

Si risvegliò in un campo della Croce Rossa, sulla terraferma, con il viso ustionato, i polmoni gonfi di liquido e una febbre che la divorava. Ma viva. Era una nuova creatura, ora, ignota e anestetizzata. Senza storia, senza nome e con un’unica certezza: non era una brava bambina e non lo sarebbe stata mai.


Teresa aveva visto tutto.

Ma la bambina non se n’era andata. La stessa bambina comparsa tante volte nei suoi sogni, che ora le stava davanti, con le scarpe da ginnastica e gli occhi sgranati. Non era più un ricordo, ma qualcosa di tangibile e di reale, un’entità separata. Si trovavano tutte e due in una specie di limbo, probabilmente all’interno della sua mente. Un luogo che la pietra aveva scoperto, dove la bambina aveva vissuto. E se è qui e può parlare, pensò Teresa, significa dunque che è ancora viva? Viva dentro di me?

— Tu sai chi sono — disse la bambina in tono solenne.

Lo sapeva, naturalmente. La bambina era lei. O forse qualcosa di più, una specie di fantasma. Il fantasma di ciò che lei era stata. Il fantasma di ciò che lei non era mai diventata.

Era possibile vedere, capire. Era possibile persino perdonare, pensò Teresa. La bambina non aveva fatto niente di male. Ma la visione era stata troppo vivida e sconvolgente, e l’idea di ritornare in quel guscio vuoto, di essere di nuovo, in un certo senso, quella bambina lacera…

— Eppure devi farlo — dichiarò la bambina. — Vedere non è abbastanza.

No. Impossibile. Troppe cicatrici, una vita intera costruita su quel rifiuto. Impossibile rivivere tutto quel tormento, riprendere sulle spalle Carlos, sua madre, l’incendio… Era terribile.

Il fuoco e il senso di colpa avevano fatto di lei ciò che era. Era Teresa, e Teresa non si poteva mettere da parte.

La bambina mosse qualche passo verso di lei. In realtà non era più una bambina, ma piuttosto l’immagine riflessa da uno specchio, l’immagine di una ragazza confusa e spaventata. — Non sono morta. Ho attraversato il fuoco e sono arrivata in terraferma. Tu hai tentato di uccidermi. Tu hai tentato di uccidermi con tutte quelle pillole. Ma non ci riuscirai.

Vai via, pensò lei, presa da un senso di vertigine.

— Mi sono nascosta per troppo tempo — continuò la bambina.

— Non era colpa tua — ribatté Teresa, con la forza della disperazione. — Ora lo so. Io…

Ma la bambina scrollò la testa. — Non è abbastanza!

Un brivido di panico. — E allora?

— Riportami indietro. — La bambina avanzò ancora. — Toccami. — Tese le sue piccole mani. — Sii me stessa.

Teresa lottò per trovare qualcosa da ribattere, ma non ci riuscì. Venne sollevata bruscamente, accecata da una luce improvvisa e terribile, e di colpo si trovò circondata dal fumo, dagli spari e dal fetore acre e pungente della paura.

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