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Il buffo, pensò Oliveira poco dopo, era che il Brasile non apparteneva più ai brasiliani, ora che era diventato indispensabile per tutto il resto del mondo.

Era inevitabile, dopo che il regime di Valverde aveva chiesto aiuto militare alle nazioni dell’Anello del Pacifico. Avevano acconsentito tutti, più che volentieri. I giapponesi, i coreani e gli americani. Erano arrivati ed erano rimasti. Il Brasile controllava le risorse che facevano girare il mondo. E il mondo controllava il Brasile.

Oliveira non sentiva nessun obbligo di lealtà verso l’uomo che aveva preso contatto con lui tramite l’ambasciata americana. L’uomo si chiamava Oberg. Aveva capelli ormai radi e un lieve accento del Texas, sembrava un insegnante ma era, senza dubbio, qualcosa di molto meno gradevole. Oberg lavorava per l’Organizzazione, l’intricato complesso di organismi d’investigazione e azione che costituivano un secondo governo americano, potente e segreto. Considerato come stavano le cose, Oliveira gli doveva un certo rispetto. Ma non la lealtà.

Del resto, non sentiva obblighi di lealtà nemmeno nei confronti di Cruz Wexler, un collezionista borghese con agganci altolocati in Brasile e una fede tutta americana nella corruttibilità dei governi stranieri. Né, tantomeno, doveva qualcosa ai tre ingenui che si erano presentati nel suo ufficio quella mattina.

E senza lealtà, pensò l’uomo componendo il numero di telefono di Oberg, senza lealtà non esisteva nemmeno il tradimento.

Oberg rispose di persona. Sulla superficie dello schermo di Oliveira il suo viso apparve piatto e obliquo. Alle sue spalle si intravedeva una finestra di pietra e una pianta di mimosa. Oberg guardò Oliveira.

— Sono venuti? — chiese semplicemente, con voce melliflua, appena velata da un’ombra di impazienza.

— Erano qui poco fa. Volevano i documenti e li ho accontentati.

— Siete certo che fossero loro? Un uomo e una donna?

— Corrispondono alla descrizione. C’era anche un terzo uomo.

Oberg parve sorpreso. — Un americano?

Oliveira annuì e fornì una breve descrizione di Keller. Oberg prese appunti.

— Mi servirà una fotografia — disse infine l’uomo dell’Organizzazione. — E qualsiasi altra informazione possiate raccogliere.

La sua voce esigeva obbedienza. Oliveira, da buon subalterno professionista, aveva l’orecchio addestrato alle inflessioni del comando. Nei tipi come Oberg l’autorità era una dote naturale. Tra l’altro, aveva anche l’aspetto adatto: sembrava teso e pronto all’azione persino al telefono. Se fossimo cani, pensò Oliveira, dovrei offrirgli la gola.

— D’accordo — promise, piegandosi all’obbedienza ma sentendone tutto il peso.

Eppure Oberg era rimasto sorpreso alla notizia della presenza di un terzo uomo. Non sei così onnisciente come credi, pensò Oliveira, mentre l’immagine di Oberg scompariva dallo schermo. Hai ancora qualcosa da imparare.

Il pensiero gli procurò un fremito di soddisfazione. Chiamò la segretaria e si fece portare un secondo cafezinho.


Keller era seduto nella veranda della loro stanza d’albergo, la sera dell’ultimo giorno in Brasile, e osservava il traffico in uscita dalla città. Burocrati inscatolati nelle automobili di marca cinese e segretarie alle prese con autobus superaffollati. Intanto, il sole tramontava dietro il planalto.

Poco dopo, Teresa scostò la tenda di perline e lo raggiunse. Aveva in mano i permessi e i documenti ottenuti da Oliveira. Erano intestati a Teresa Maria Rafael, lo stesso nome che compariva sul documento d’identità comperato al mercato nero. Quel nome le era stato dato dalla sua famiglia adottiva, come aveva detto Byron, nei mesi successivi al grande incendio.

Teresa avvicinò una sedia e si sedette. Aveva una espressione pensierosa, pensò Keller. La stessa espressione che non l’aveva più abbandonata dal momento dell’incontro con Oliveira.

— È strano, a pensarci — disse finalmente lei. — Voglio dire, che delle persone normali facciano questo.

Keller rispose con un mugolio interrogativo.

— Insomma, mi colpisce. Di solito, quando sento parole come contrabbandiere o criminale penso alle stupidaggini che la Rete trasmette di notte. Ma qui è la verità, no? Siamo contrabbandieri e criminali.

— Per qualcuno sì — confermò Keller. — Ti spaventa?

— Credo di sì, specialmente ora che siamo qui. A casa era solo un progetto di Wexler. È stato lui a organizzarlo e a finanziarlo, e noi gli stavamo facendo un favore. Ma qui… la cosa dipende solo da noi, no? — Distolse lo sguardo. — Oliveira mi fa paura — affermò. — C’è qualcosa di sgradevole in lui. Non mi fido.

Keller fece un cenno in direzione dei documenti che aveva in mano. — Se fosse una persona di cui ci si può fidare non ci avrebbe dato quella roba.

— Ma non si tratta solo di lui. Sono sicura che c’è altra gente che desidera fermarci.

— L’Organizzazione — suggerì Keller. — Il Governo brasiliano, almeno in teoria.

Lei rispose con voce remota. — È il mondo reale.

— Anche troppo — replicò Keller. Poi aggiunse, d’impulso: — Puoi ancora tirarti fuori, se lo desideri. Non è troppo tardi per comperare un biglietto e tornare a casa. — Si strinse nelle spalle. — Magari sarebbe più saggio.

Teresa si alzò e andò ad appoggiare i gomiti alla ringhiera del balcone. L’ultima luce del giorno sembrava avvolgerla con dolcezza. Scrollò la testa. — Sono qui per una ragione precisa. E non pensare che io sia così fragile.

— Ti fidi così tanto di Wexler?

Lei considerò la domanda. — Tu non lo conosci — rispose.

— Ne ho solo sentito parlare.

— È stato ad Harvard per anni. Lo sapevi? Ha compiuto studi molto seri in criptologia. Lavorava nel campo della ricerca, prima che gli uomini del servizio di sicurezza lo tagliassero fuori, e così aveva libero accesso ad alcune delle prime pietre di Pau Seco. Tutti le infilavano nei microchip, capisci?, per decodificare i dati. Pensavano di ottenere rivelazioni strabilianti, la saggezza proveniente dalle stelle. Lo pensava anche lui, ma era più affascinato dagli aspetti che riguardavano l’uomo. Si era scoperto che, se toccate, le pietre generavano delle visioni. Nessuno riusciva a spiegare il fenomeno, che di conseguenza venne ignorato come "aspetto minore". Ma per lui fu diverso.

— Forse è un mistico — disse Keller.

— Ormai si occupa solo di questo — continuò Teresa. — Dell’antica idea della saggezza. Dice che sulla Terra non esiste niente altro, oltre alle pietre, che sia visibile, tangibile e al tempo stesso perfettamente alieno. La prova ultima dell’Altro.

— Ha fatto una barca di soldi.

— Ha mantenuto tutti i contatti giusti nei laboratori governativi, i vecchi amici di quando lavorava all’università. È facile per lui ottenere le pietre, o le loro copie, una volta che sono state decodificate. Così controlla gran parte del mercato nero costiero. Si è arricchito, è vero? Ma credo che sia sincero.

— Credi in ciò che dice? — chiese Keller, cercando di mantenersi neutrale.

— A proposito delle pietre? — Teresa si strinse nelle spalle. — Non lo so.

— Tu ne hai fatto l’esperienza.

— Per me è sempre stato qualcosa di più personale — disse lei, con calma. Il sole era tramontato e il cielo sopra la città era di un azzurro intenso e luminoso. — È possibile, Ray? È possibile guardare qualcosa di alieno come una pietra dei sogni, concentrandoti più che puoi, e arrivare a vedere la tua immagine riflessa?

Lui ricordò quello che gli aveva raccontato Byron. Teresa in una stazione di servizio nella Città Galleggiante, che vendeva i suoi lavori per comperare le encefaline. Non pensare che io sia così fragile, aveva detto. Eppure a lui sembrava che lo fosse. Fragile come il cristallo… se non fosse stato per quell’energia che le veniva da dentro, dalla sua inquietudine.

Avvertì una fitta di paura per lei, e questo era un male. Adhyasa, pensò. Il peccato degli Angeli. Si alzò in fretta. — Domani prendiamo l’autobus per Cuiaba — le ricordò. — È meglio andare a dormire.

Sopra il profilo scuro del planalto cominciavano a comparire le prime stelle.


Ma lei non dormì. Troppo caffè, pensò. Troppe cose su cui riflettere. Andò con Byron a fare una passeggiata, nella speranza di stancarsi.

Brasilia era silenziosa, di notte. Si udiva il ronzio discontinuo dei vecchi lampioni a potassio e, ogni tanto, il rombo di qualche lontano automezzo. Per strada non c’era nessuno, a parte qualche turista smarrito e un gruppetto di prostitute sedute sul bordo di una fontana. Le antiche torri bianche, ora vuote, sembravano quasi irreali.

Chiese a Byron perché avesse portato Keller con loro.

— Ne abbiamo già parlato. Lui conosce la zona. Può tornare utile…

— È affidabile? — chiese Teresa. — Tu ti fidi?

— Sì. — Ma il suo tono era più cauto.

— È un Angelo.

— E allora? Anch’io ero un Angelo.

— Ma hai cambiato vita.

Lui la prese sottobraccio. Sopra la loro testa, alla luce debole dei lampioni, si potevano vedere le nuvole che si spostavano velocemente.

— Avrei potuto essere come lui — disse Byron. — So come ci si sente.

— Come?

— Ti importa molto?

Lei si strinse nelle spalle.

— È come camminare su una nuvola — spiegò Byron. — Sei al di sopra di tutto. Della paura e persino del tuo corpo. Diventi una macchina, ti muovi e vai dove ci si aspetta che tu vada. Tutto è molto chiaro, estremamente lucido, perché non c’è più né il bene né il male, né il meglio né il peggio. Devi solo guardare. Ogni cosa è quella che sembra. Niente di più e niente di meno.

Quelle parole le suscitarono un ricordo. — Mi sembra di capire che può essere un’esperienza piacevole.

— Sì. Ma ti stanca. È qualcosa di freddo, come stare sulla cima di una montagna. Ti spaventa il fatto di essere così in alto rispetto a tutti gli altri. Hai paura di non riuscire mai più a scendere. E, infatti, succede.

— Anche a Ray?

— Forse sì.

— Ma hai detto che ti fidavi di lui.

Byron si strinse nelle spalle. — Credo che per lui sia sempre stata una scelta difficile. Si portava dietro dei brutti ricordi che risalivano al tempo di guerra e probabilmente è stata questa la spinta. Aveva bisogno di distaccarsene. La mia impressione è che una parte di lui continui a voler tornare indietro. Anche dopo tutto questo tempo. — Si voltò a guardarla. — È importante per te?

— Ero curiosa.

Tornarono verso l’albergo. — Non sarebbe una buona cosa se ti importasse troppo di Ray Keller — disse Byron.

Teresa alzò le spalle.


Quella notte sognò ancora la bambina sconosciuta con la tuta stracciata e le scarpe da tennis.

La bambina la fissava dal profondo dei suoi immensi occhi scuri. Come sempre, Teresa fu contagiata dall’impazienza di quello sguardo. Il buio l’avvolgeva come una cortina di fumo, e l’angoscia le palpitava intorno.

— Sei quasi a casa, ora — disse la bambina con voce appena udibile. — Sei quasi a casa.

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