Keller era solo nella cabina di montaggio quando Byron lo raggiunse.
Le luci erano abbassate e i monitor riversavano nello spazio ristretto una cascata di immagini: il Mato Grosso dai finestrini dell’autobus, Pau Seco, il Ver-o-Peso. L’audio era appena percettibile. Bisbigli spettrali provenienti quasi da un altro mondo.
— Mi sorprende che tu mi abbia trovato — commentò Keller.
— Ho parlato con Vasquez. Mi ha dato un lasciapassare della Rete.
Keller continuò a lavorare mentre Byron parlava. Le sue dita si muovevano con agilità sulla tastiera dell’apparecchio di missaggio. Si sentiva ben protetto dalla sua condizione di Angelo mentre i paesaggi contenuti nella memoria sfilavano davanti a lui.
Era un archeologo tra le rovine della propria esperienza. Su una dozzina di monitor, la Teresa dai lineamenti modificati spingeva lo sguardo oltre il porto di Belem, verso una petroliera giapponese che si spostava con grazia silenziosa verso il molo. Tutti gli avvenimenti convergevano, pensò Keller. Tutti loro stavano muovendosi verso il porto.
Aveva bevuto.
Byron, con voce pacata e suadente, parlava della Città Galleggiante, della balsa che avevano affittato, di Cruz Wexler, ora ammalato e ridotto in povertà, e infine di Teresa. — Non illuderti che lei sia qui — gli disse Byron a un certo punto. — Tu l’hai inserita nel montaggio, la puoi rivedere sui monitor quando vuoi e pensi che lei sia qui davvero. Ma non è così. Io so come funziona. È facile, e immagino che ti procuri piacere. Ma lei non è qui. — Cancellò con un gesto la sua immagine inquietante dagli schermi. — Teresa è nella Città Galleggiante, Ray. Là fuori è fatta di carne e di sangue. E credo che le farebbe piacere rivederti. — Esitò, prima di aggiungere, con convinzione: — Ha bisogno di rivederti.
Keller si voltò a guardarlo. — Tu non capisci.
— No, infatti. Proprio non capisco. Ma ti dirò quello che so. È in una situazione disperata. Io non posso aiutarla, e lei ti desidera tanto da morirne.
— Non posso fare nulla.
— Forse ti sbagli.
— Eravamo insieme — disse Ray a bassa voce. Gli sembrò di sentirsi aggredire dall’infelicità. — In quella stanza d’albergo, con la pietra, eravamo uniti in un modo che tu non puoi nemmeno immaginare. Lei ha visto cose…
— Credi che importi così tanto, ciò che ha visto? — lo interruppe Byron, furioso.
Rimasero per un attimo in silenzio. Sulla parete, un orologio luminoso proseguiva imperterrito a segnare un secondo dopo l’altro, poi i minuti e poi le ore. Il tempo passa, pensò Keller. Corre via.
Aveva trascorso la notte in bianco, guardando la scultura comperata nella galleria vicino alla superstrada costiera, osservando le facce gemelle della donna e della bambina. La scultura lo affascinava e lo faceva sentire a disagio. Teresa aveva bisogno di aiuto. Ebbene, su questo non c’erano dubbi. Aveva avuto sempre bisogno di aiuto.
Andrò, pensò Keller tristemente. Ma la prospettiva lo spaventava. Le paure di Teresa e le sue si erano in qualche modo unite, per colpa della pietra. Lei non avrebbe potuto sopportare la vista della bambina nella scultura. Lui non avrebbe potuto sopportare di guardare in faccia lei.
Non riusciva a credere che la situazione fosse destinata a cambiare.
Ma… se qualcuno è in pericolo, bisogna aiutarlo.
Wu-nien, pensò quasi con disperazione. Il Palazzo di Ghiaccio. Aveva sognato di rientrarci, ma ultimamente anche quel rifugio era diventato meno accessibile.
Byron parlò di nuovo, staccando ogni parola come se le strappasse dal fondo dell’anima. — Ha ripreso a risare le pillole. È tornata alle encefaline, Ray. È una strada in discesa e finirà con la morte, a meno che non facciamo qualcosa. — Lo guardò, e Keller trasalì di fronte alla sua espressione ardente e addolorata. — A meno che tu non faccia qualcosa.
Ma questo era impossìbile.
Lei non poteva morire.
Lei era lì, intorno a lui. Su tutti i monitor. Una presenza reale.
Aveva cominciato a esistere solo allora.
Byron si alzò.
Non gli piaceva il posto dove Keller si era rifugiato. Era un brutto posto, adatto a un Angelo, e gli ricordava troppo la presa che anche lui, un tempo, aveva avuto. Ricordava di avere passato gli anni della guerra nello stesso intontimento indotto nel quale si trovava Keller in quel momento. Una specie di limbo piacevole e privo di preoccupazioni, utile a mantenere la cosiddetta obiettività. Capiva il tipo di attrazione che poteva esercitare sulla mente, ma era la stessa attrazione che spingeva Teresa verso le pillole. Una resa. La odiava, proprio perché il suo desiderio non si era ancora spento. Dopo tutti quegli anni, la possibilità di sentirsi un Angelo lo tentava ancora.
Eppure, quel giorno aveva provato qualcosa a se stesso. Una magra consolazione, forse, ma gli sembrava quasi di aver cancellato per sempre il tatuaggio che aveva sul braccio. Se avesse guardato, avrebbe scoperto che non c’era più. Keller era stato l’amante di Teresa, e lui era venuto fin lì a pregarlo di tornare da lei. Non gli si sarebbe potuto chiedere di più… Il dolore, di certo, era più che sufficiente. L’aveva fatto per lei, e ora il suo compito era finito. Si era guadagnato il diritto di tornare a pieno titolo nel mondo.
Forse Teresa sarebbe morta comunque. Questa era la realtà più terribile e difficile da cambiare, una realtà a cui lui avrebbe disperatamente voluto sottrarsi. Si faceva il possibile per esorcizzarle, ma a volte le cose terribili accadevano comunque.
— Ascolta — disse Ray all’improvviso. — Non c’è bisogno che tu te ne vada. Sei…
Ormai era inutile. Non avevano più nulla da dirsi. Byron provava una specie di pietà per l’amico, magro nella sua poltroncina elegante, con le mani appoggiate sull’apparecchio di missaggio. — D’accordo — concluse in tono stanco. — Fai quello che ritieni più giusto.
Fuori, nel mondo, il sole splendeva di una luce intensissima.
Keller rimase solo.
Cascate di ricordi si riversarono attorno a lui, soffuse di una fredda luce cristallina. Alcune voci bisbigliavano.
Una volta, parlando di Byron, Teresa aveva detto: — È il migliore di tutti noi. — Allora non aveva capito, ma ora una scintilla di comprensione si faceva strada dentro di lui. Purtroppo si trattava di quel tipo di bontà, scomoda e assoluta, che lui non riusciva a comprendere del tutto. Una vecchia frase echeggiò nella sua mente. Se qualcuno è in pericolo, bisogna aiutarlo. Se fosse stato il contenuto di una memoria meccanica l’avrebbe eliminata, cancellata dall’esistenza. Invece l’eco persisteva, ed era sempre più inquietante.
Verso sera uscì dalla cabina di montaggio.
La sua stanza d’albergo si affacciava su una vecchia arteria suburbana. Il rumore del traffico continuava per tutta la notte e l’acqua corrente era assicurata dalle dieci di sera alle dieci di mattina. Keller si versò da bere, fece una lunga doccia e si guardò allo specchio. Cercò di considerare con obiettività la propria immagine. Era disfatta e stravolta. Aveva le guance incavate e la barba lunga. Chi stava diventando? Sembrava un veterano di guerra dedito alla droga e destinato a morire in qualche squallido buco della Città Galleggiante.
Chiuse gli occhi.
Quella notte, dopo aver bevuto di nuovo, telefonò a Lee Anne, con la quale un tempo aveva avuto un contratto sentimentale. Ricordava con una certa nostalgia la fragranza del suo profumo. Lei apparve sul video, perfetta come sempre, rigorosa nel suo trucco bianco e con le lebbra di un bel rosso squillante. Lo fissò con freddezza dallo schermo di cristallo. Con uno sforzo, Keller le sorrise. — Avevamo un contratto, una volta — le disse. — Ricordi? Noi…
Ma lei scrollò la tesa. — Non ti conosco — tagliò corto.
Il monitor si vuotò.
Il mattino successivo Keller tornò nella cabina di montaggio.
Era quasi insopportabile. Dovette distogliere lo sguardo dalle immagini di Pau Seco e dalla gigantesca miniera, simile a una ferita aperta nel grembo della terra. Era tutto troppo vivido. Sentiva nelle narici lo squallore della città vecchia, la polvere, la calura stagnante. Un’impressione terribile, come se le immagini si staccassero dai monitor per circondarlo.
Se qualcuno è in pericolo, bisogno aiutarlo.
Lei era in pericolo, aveva detto Byron. Keller girò attorno al problema senza osare affrontarlo. Lei soffriva. Lei era ferita. Ma il rimorso era troppo forte per essere ignorato.
Si impegnò a fondo nelle ultime fasi del montaggio. Il reportage doveva essere completo e rigorosamente obiettivo. Uno sguardo dietro i meccanismi di commercio delle pietre esotiche, una testimonianza su Pau Seco, la SUDAM i garimpeiros e le formigas, un salto oltre quella frontiera assurda e pericolosa. Il resto, ciò che riguardava i rapporti puramente personali, sarebbe stato interamente cancellato. E una volta cancellato, avrebbe in un certo senso cessato di esistere. Sarebbe diventato più sopportabile.
Aveva le mani sulla tastiera dell’impianto di montaggio, quando la porta si aprì.
Ruotò sulla poltrona, pensando che potesse essere ancora Byron. Invece, vide un uomo vestito con cura, stempiato, con un sorriso stereotipato sul viso. Un funzionario della Rete, forse. L’uomo si avvicinò e Keller avvertì troppo tardi l’odore della sua caramella alla menta e un’ondata di terribile e spietata ostilità. L’uomo continuò a sorridere anche quando le sue mani si chiusero a pugno. — Mi chiamo Oberg — disse.